Scusi, don Miguel

 

Un’amica mi ha regalato un piccolo busto di Cervantes, di quelli che vendono nei negozi di souvenir sulle Ramblas, a Barcellona. Non è bello, ma nemmeno brutto. È Cervantes, e quasi ogni giorno, dopo il notiziario, gli rivolgo un sincero «Scusi, don Miguel» perché è il minimo che posso fare davanti a un tale abuso e cattivo impiego delle parole.

Un ministro accosta l’usanza del velo, con cui alcune donne musulmane si coprono il capo, alla clitoridectomia, il che ci induce a cercare un rapporto fra la kippah degli ebrei e la circoncisione. Un parlamentare propone che le vedove ricevano una pensione più bassa perché vivono più degli uomini, e con la sua ingegnosa «trovata» se ne infischia onorevolmente di una terribile realtà: nel Ventunesimo secolo, per lo stesso lavoro, le donne guadagnano meno degli uomini.

Il capo dell’opposizione annuncia la nascita di un ministero del Dialogo con la Gioventù, idea che come spunto letterario non è affatto da buttar via, ha solo un finale troppo prevedibile: la giovinezza è breve, si sa, e l’attaccamento alla poltrona lungo.

Un dirigente di Comisiones Obreras obbliga un altro a dimettersi e subito ci spiega che questo corrisponde alla sua idea di unità sindacale. In Venezuela Chávez si dichiara disposto a difendere la pace a fucilate, e in Argentina Duhalde afferma che se la gente ritira i suoi soldi dalle banche il sistema crolla, come dire che se i borseggiatori restituiscono i portafogli i poliziotti restano disoccupati. Accidenti, ma cosa diavolo succede alle parole?

Temo che loro, le nostre dolci parole, siano davvero innocenti e che tutte queste sciocchezze facciano parte della sottomissione, conscia o inconscia, al padrone imperiale statunitense. Se la nazione più potente del mondo è guidata da un cretino, il resto dei governanti non può far altro che imitarlo, perché quale premier europeo si azzarderebbe a dire qualcosa di sensato, di intelligente, dopo aver sentito Bush in Colombia? «Vinceremo la guerra contro le droghe, faremo sparire le piantagioni di cacao.» Non hanno protestato neppure i dirigenti della Nestlé, e gli alleati dell’operazione Giustizia infinita, alias Libertà duratura, si sono limitati a concludere che sniffare cacao è immorale.

Se un fanfarone esige che gli argentini presentino un «programma economico credibile», si suppone che capisca qualcosa di finanza, e non possiamo lasciar correre, come se fosse un aneddoto puerile, che faccia crollare la Borsa di Tokyo perché ignora la differenza tra svalutazione e deflazione; ma siccome nessuno dice nulla, non dobbiamo stupirci se poi il ministro della Pubblica Istruzione dichiara che i problemi del sistema scolastico si risolvono con gli esami, e non migliorando l’ordinamento pedagogico.

Ci stanno americanizzando a forza di stupidaggini e le prime vittime sono le povere parole. La nostra lingua, lo spagnolo, tende a esplicitare, a essere inequivocabile, sta in questo la sua grandezza. Anche l’inglese è una lingua precisa, ma in bocca a una tribù senza storia e senza interesse per la storia, senza altra cultura che quella del succedaneo per semplificare la complessità, si trasforma in una partita di Scarabeo in cui le regole sono fissate dal padrone del tavoliere e delle tessere. Ho girato gli Stati Uniti da costa a costa e posso assicurare che lo yankee medio possiede un patrimonio lessicale che non supera le venti parole. Quella Wortschatz di cui parla Schiller e che Ortega considerava il fondamento dell’intelligenza, il sostegno di una visione del mondo esente da pregiudizi, di quella Weltanschauung enunciata da Spinoza come la più grande virtù, è per lo yankee medio una pura e semplice zavorra.

Non deve quindi stupirci che un texano, il cui curriculum inizia e finisce con la pena di morte, ci dica che Iran, Iraq e Corea del Nord sono «l’asse del male».

Scusi, don Miguel, ma ci stanno americanizzando persino nei momenti di riposo. Ci sono pochi piaceri paragonabili a quando si entra in un bar a bere il bicchierino della staffa, parlando con il proprietario o allungando il collo per guardare la televisione, piazzata sempre su una mensola altissima. Ma se sullo schermo il cronista sportivo della CNN, che parla inglese con un accento al tempo stesso da bullo e da bifolco, tenta di convincerci che tutta, ma proprio tutta la Spagna segue col fiato sospeso la finale del campionato di football americano, vuol dire che abbiamo toccato il fondo nel mare della stupidità e della sottomissione all’imperialismo culturale. E quindi ci scusi, don Miguel, o meglio «Sorry, don Maikol».

Storie ribelli
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