Hai lasciato tua moglie di là. Sua madre la terrà d’occhio. Chiudi la custodia della chitarra acustica e guardi l’orologio. Dovrebbero essere già qui.

Bianca ti conosceva di nome ma non ha fatto finta di conoscere le tue canzoni. Le interessava altra musica. Te l’hanno presentata di sfuggita a una festa di fine tour che doveva – ti avevano promesso, ma sapevi bene che non capitava mai cosí – essere ristretta a pochi. E anche quella volta, invece di startene a festeggiare con musicisti e crew, ti toccava una foto dietro l’altra con chissà quanti imbucati. Poi, però, lei. Un’amica di un’amica di non sai chi.

Ti era piaciuto il suo imbarazzo nel farti i complimenti – certo, anche un po’ di circostanza – per lo show. Ti era piaciuto evidentemente anche altro visto che, nonostante fosse sulla quarantina e lí in mezzo ci fosse una certa possibilità di scelta anagraficamente piú appetibile, le hai chiesto il numero. E lei, con un altro genere di imbarazzo, ti aveva detto meglio di no. Allora ti do il mio, e glielo hai scritto su un tovagliolo con tutti che ti guardavano e dicevano eccolo lí.

Poi c’era stata la sua chiamata una decina di giorni dopo, quando non ci pensavi piú. Si era fatta riconoscere come quella che non ti aveva dato il numero. Dimmi pure, hai fatto tu, sapendo di metterla un po’ a disagio. Effettivamente il disagio lo si sentiva nella sua voce mentre diceva: facciamo finta che ti abbia dato il mio numero, cosa mi avresti chiesto? La realtà è che non me l’hai dato, quindi tocca a te chiedere o dirmi qualcosa. Fa niente, ciao, aveva detto lei riattaccando.

A quel punto le hai mandato un messaggio tipo un caffè? se potessi venire a Bologna c’è un bar in cui si può stare tranquilli. Martedí ho tutto il pomeriggio. E lei io… sono di Bologna.

Durante quell’incontro siete riusciti a tenere fuori dai vostri discorsi qualsiasi cosa riguardasse il tuo mestiere – condizionamenti e riflessi sul quotidiano inclusi – e vi siete ritrovati piuttosto con un tono da regressione anagrafica ai tempi delle superiori. L’ascoltavi. L’ascoltavi per davvero senza secondi fini (ok, i secondi fini erano ben piazzati, sii onesto). Ti ritrovavi a pensare: ecco un’altra conferma, eccone un’altra. Anche se in fondo non aggiungevi mai l’oggetto – o magari non ti andava ancora di confessarlo –, un’altra conferma di cosa?

La volta successiva hai pensato a quanto la sua gioiosità fosse vera e mai dettata da una reazione nervosa o – adesso proprio no – di circostanza. La sensazione che ti aveva dato la prima volta veniva confermata e amplificata. C’era una sorta di pulizia in lei che non sembrava di questo pianeta. E nel frattempo ti raccontava, con disarmante naturalezza, fatti della sua vita a cui nessuno avrebbe potuto credere. Tutto poteva sembrare posa, voglia di apparire speciale ma non era questione che ti riguardava, ne eri attratto e basta. E anche se agli occhi del mondo lei avesse potuto risultare pollyanna – per alcuni risibile o compatibile o irritabile – e istintivamente venisse di proteggerla, nel tempo ti saresti reso conto che quella forte era lei. Salda nella sua fede. E per la sua fede non aveva bisogno di un dio. Per la sua fede non aveva bisogno di niente.

Mi sto innamorando di un’oasi, ti dicevi. Lí il bene non era una barzelletta e il cinismo aspettava fuori. Lí l’accoglienza era calorosa senza essere ossessiva. Lí il mistero non sarebbe mai stato svelato del tutto.

Fra il primo incontro e questo, ormai, avevate trascorso diverse ore insieme e non c’era mai stato spazio per lamentele, rimpianti, ombre esistenziali. Da buoni studentelli non stavate preparando solo la maturità ma anche il terreno per fare l’amore come si doveva.

Casa sua era un piccolo appartamento al penultimo piano di una palazzina non lontana dal centro. L’ambiente rifletteva la sua stessa innata pulizia. C’eri arrivato un po’ troppo nervoso – volevi assolutamente che le cose andassero al meglio – ma, nonostante quello, il primo sesso fra di voi si è poi dimostrato del tutto rivelatore. A quarant’anni suonati siete finiti entrambi in una sorta di euforica confusione. E nonostante tutta l’irresistibile bramosia di quei primi tempi nell’esplorarvi sapevate già, tu e lei. Sapevate già l’uno dell’altra. La parola che ti veniva piú spesso in mente – e che ti ritrovavi a sentirti pronunciare nelle frasi piú varie – era: equilibrio. Un incontro fissato da tempo e rimandato a lungo per chissà quali motivi.

Poi, piú le cose si facevano serie, piú rapidamente era emersa la fase in cui dovevi fare i conti con la tua insicurezza. Fino a che punto eri tu e fino a che punto erano la tua fama, i tuoi privilegi, i tuoi soldi? Altrettanto rapidamente quella bolla era scoppiata: impossibile non darle fiducia.

In macchina nessuno dice niente. Ti hanno già abbracciato e detto quanto gli dispiace. Il tuo assistente, che si fa sempre in quattro per te, ora sembra volersi fare in otto. Il tuo amico manager rompe il silenzio chiedendoti se sei proprio sicuro, che un modo per cancellare si trova. Guardi fuori dal finestrino.

Le hai chiesto di sposarti una sera d’estate in un ristorantino a Cervia. Eravate nella saletta interna con solo tre tavoli attorno a voi. Ma sei proprio tu?, chiedevano, poi ti hanno salutato e lasciato alla tua serata. Bianca era raggiante e ancora leggermente sudata per la passeggiata in bici. Non è che l’avessi preparato – nessun anello con te – semplicemente ti è uscito. Le hai detto se c’è un per sempre io me lo gioco su di te. Mi vuoi sposare? Difficile dimenticare la sua espressione di risposta.

Avresti voluto un matrimonio piú riservato ma quando ti sposi in municipio vengono fatte le pubblicazioni e allora stampa e curiosi hanno saputo e fuori c’era la ressa. E gli stronzi dei tuoi amici hanno fatto in tempo a ingaggiare la banda e organizzare i botti. Invece del riso vi hanno lanciato tagliatelle. Ma la sua felicità non era scalfibile e, di conseguenza, nemmeno la tua.

Ai primi di giugno dell’estate successiva eravate in vacanza a Castagneto Carducci. La stagione non era ancora aperta e la spiaggia tutta per voi. E anche se l’acqua del mare era troppo fredda c’erano sempre le piscinette di talassoterapia in albergo. Massaggi, la vostra stanza e poi, la sera, per cena vi spostavate in centro o a Bolgheri. Trattorie travestite da ristoranti della tradizione, le loro belle distese e vino meraviglioso. Vi veniva difficile chiedere di piú.

Ti era arrivata una chiamata per un’emergenza, una riunione di produzione per il megashow di settembre. Ti dicevano scusa scusa scusa ma c’erano diversi cambiamenti necessari da affrontare per cui serviva la tua presenza. Ricordi che al telefono imprecavi giocando un po’ alla vittima, ma conoscevi bene la qualità di chi lavora con te e sapevi già che se ti avevano chiamato era proprio inevitabile il tuo rientro. Hai convinto Bianca ad aspettarti lí che in un giorno o due avresti fatto. Cos’hai, però, sei strana, le chiedevi perché ti sembrava cosí, e lei niente, ti dico che non ho niente. Hai rifiutato che mandassero qualcuno a prenderti e sei partito di mattina presto contando di fare tutto in giornata.

La riunione era effettivamente necessaria – parecchi tagli e modifiche da apportare in tempi brevissimi – ed è proseguita durante e dopo cena. Eri ripartito a mezzanotte con tutti gli altri che si opponevano (ti porto io, ti porto io, dicevano preoccupati anche di un eventuale incidente che allora ciao ciao al megashow di settembre o alla peggio ciao ciao punto). Tu hai tirato fuori la solita battuta che i morti vendono piú dischi e sei partito; saresti arrivato in albergo alle tre quattro ma non avresti perso del tutto la notte. Nel tratto fuori dall’autostrada, dove c’erano cosí poche luci, hai visto una delle piú grandi apparecchiate di stelle in cui ti fosse mai capitato di imbatterti. Hai aperto il tettuccio della macchina e rallentato. Hai fatto gli ultimi dieci chilometri a trenta all’ora spostando continuamente lo sguardo da davanti a sopra.

Sei entrato in camera in punta di piedi per non svegliarla. Non si sentiva nemmeno il suo respiro. Ti sei spostato in bagno e, dopo esserti chiuso la porta alle spalle, hai acceso la luce. Nel lavandino campeggiava una piccola scatola avvolta in carta verde e legata da un fiocco azzurro. L’hai presa in mano, era leggerissima, cosí leggera che il contenuto non poteva non essere fragile. E allora, con una delicatezza non proprio tua, hai sciolto il fiocco e svolto l’involucro di carta. La scatola era di cartone spesso. Hai sollevato adagio il coperchio. Ci hai trovato dentro una specie di termometro. Ti ci è voluto un po’ per realizzare che era un tester per gravidanza. Sul fondo della scatola hai trovato un foglietto con sopra scritto: .

Hai spalancato la porta del bagno. La luce della camera era accesa.

Bianca era seduta sul letto, la schiena poggiata alla testiera, il mento sui pugni, gli occhi sbarrati per la felicità.

Davanti all’ingresso principale del teatro hanno posizionato un megaschermo. Il tuo manager ti dice che è una richiesta del comune per motivi di sicurezza. I biglietti sono stati bruciati in un paio d’ore due mesi prima. Su quello schermo proietteranno il concerto che terrai dentro. Chiunque, fra i presenti all’esterno, potrà fare un’offerta e anche quella cifra – insieme all’incasso della serata – andrà alle associazioni benefiche che avete deciso di aiutare. Megaschermo, pensi. Primi piani, pensi. Oggi.

Non l’avevate cercato, Luca. Almeno vi dicevate cosí. Avevate semplicemente – se si può dire – smesso le precauzioni. Forzare la natura era l’ultima cosa che volevate ma, insomma, certo che speravate. Né tu né lei eravate diventati genitori fino a quel momento e ora, in cui tutto era naturale e aperto e pieno di senso, il figlio che arrivava sembrava poter nascere sotto una specie di benedizione.

Durante i primi tre mesi sei risultato il piú apprensivo fra i due. Le impedivi qualsiasi sforzo, controllavi gli appuntamenti per le ecografie, tenevi i conti delle settimane e allontanavi chiunque si permettesse di avere anche solo un raffreddore e, ancor peggio, che con quello si azzardasse a entrare nel raggio di cento metri. Bianca ti prendeva in giro ma poi ti lasciava fare con tenerezza.

Da sempre il rapporto che aveva con il suo corpo era solido, strettissimo. Ora, poi, che portava un figlio nella pancia, le sembrava tutto sacrale e naturale allo stesso tempo. Sapeva molto piú di quanto tu potrai mai sapere.

La ginecologa vi aveva detto che era un maschio. Francamente non gliel’avevate chiesto – non c’era tutta quella fretta perché vi piaceva, nel frattempo, immaginare il suo futuro sia da maschio che da femmina – comunque ora sapevate ed eravate felici cosí, che tanto lo sareste stati anche altrimenti. Avete deciso da subito di chiamarlo Luca, un nome molto comune e senza tanti ghiribizzi. Se avesse voluto essere fuori dal comune, ci avrebbe pensato poi lui. L’amniocentesi era l’ultimo ostacolo e quell’ago lunghissimo infilato nella pancia di Bianca vi ha creato non poche apprensioni, ma ci avevate riflettuto a lungo prima di farla e ora, piú di un mese dopo, non aveva procurato danni: gli esiti erano negativi e il bambino era sano e non correva piú rischi.

Una gravidanza esemplare. Non solo Bianca non soffriva di alcunché ma, addirittura, si sentiva meglio di sempre. Era piú bella che mai. La sua magrezza e la rotondità di quella pancia. Quel mondo che voleva venire al mondo. Facevate ancora l’amore spesso e bene. Quando la vedevi camminare, notavi ogni volta di piú quel lato autorevole che c’era in lei, qualcosa di principesco. Eppure, nonostante quello, non sai dire quanta gente – sconosciuti in testa – dovessero toccarle la pancia. Si sentivano in diritto di farlo, come si fa con un cagnolino. Lei sorrideva e tu ti mordevi le labbra mentre, poi, si facevano la foto con te.

Gli amici a causa della vostra età vi chiamavano nonni e spesso, segnandovi, fingevano di finire in coma diabetico o di infilarsi un dito in gola. Tu e Bianca non frenavate le vostre smancerie e se risultavate stomachevoli non era comunque un problema vostro. Mai stati piú felici di cosí.

La porta sul retro recita: «Ingresso artisti». Ripensi all’interpretazione di quel sostantivo rispetto a te. Lungo le scale ti viene il fiatone con troppa facilità. Ti fermi con la scusa di guardare il manifesto di un bravissimo attore che ha recitato lí anni prima. Non passi dai camerini, vai direttamente sul palco. Il corridoio è corto e, al momento, libero. Sulla locandina al muro c’è una tua foto di tre quarti, c’è il tuo nome e poi la dicitura: «voce e chitarra». Ci sono le associazioni benefiche a cui andrà l’incasso. C’è la data. 5/12/2014.

Era una domenica pomeriggio quel pomeriggio. Ha detto che si sentiva un po’ stanca. Te l’ha detto col solito sorriso, niente di preoccupante, dunque. Stenditi sul divano le hai detto, lei ha deciso invece di andarsene a letto. Dopo un quarto d’ora la sentivi, di là, parlare al telefono. Poi ti ha chiamato. Michela, la sua amica ginecologa, le aveva consigliato di fare un salto da lei, avrebbe aperto l’ambulatorio apposta. Sei diventato preda del panico nonostante Bianca ripetesse non è niente, non è niente, ma non riusciva a nascondere la sua agitazione.

Durante il percorso avete incrociato il raduno internazionale degli imbranati puntualmente convenuti per farti impazzire. Hai imprecato, sudato, sorpassato e sbandato in quella mezz’ora che ti è sembrata un mese.

Michela vi ha accolto con la tranquillità della sua esperienza invitandovi a calmarvi che era solo un controllo per sicurezza. Ha imbrattato di gel la sonda per l’ecografia e l’ha fatta scorrere sulla pancia. È bastato meno di un minuto perché si facesse seria e vi dicesse che dovevate andare in ospedale.

Il responso, lí, fu molto chiaro: una piccola lacerazione al sacco aveva fatto perdere parecchio liquido amniotico, ora ne restava poco. Bianca doveva essere subito ricoverata e messa in assoluto riposo, immobile a letto, in attesa di capire l’evolversi della situazione. Hai fatto quello che fanno tutti in quei momenti: hai voluto sapere perché. Come era possibile?, chiedevi. Come poteva capitare una cosa del genere? Bianca aveva avuto tutte le attenzioni, mai un movimento brusco, alimentazione esemplare, niente alcol, né fumo, né farmaci. I medici hanno risposto che non sempre c’era una risposta, probabilmente si era trattato di un’infezione. Sí ma dipesa da cosa? Hanno fatto il gesto di non saperlo.

Era arrivata Emma, la madre di Bianca – sempre state molto unite – che aveva dichiarato perentoria che sarebbe andato tutto bene, si era rimboccata le maniche e accampata in quella stanza d’ospedale.

Al quarto giorno di ricovero un medico vi ha prospettato una specie di calendario. Il bambino, vi ha detto, sarebbe nato entro poco. Fosse stato dopo due settimane sarebbe sopravvissuto, anche se c’era una certa probabilità di problemi ai polmoni e agli occhi. Se avesse resistito una settimana in piú sarebbe già probabilmente nato sano.

Bianca si caricò ancora di piú della propria fiducia mentre sua madre ripeteva che non c’erano dubbi, Luca sarebbe venuto al mondo forte e bello. Tu spuntavi i giorni mentalmente e ti concentravi sui problemi di lavoro per uscire da quel pensiero fisso. I pomeriggi e le serate le trascorrevi in quella stanza d’ospedale, la notte la faceva tua suocera. Nel frattempo la voce si era sparsa in rete e succedeva che nella camera entrasse chiunque – figuriamoci se bussando – con la pretesa di una foto o un autografo o, soprattutto, di vedere soddisfatta la curiosità su tua moglie. A volte qualche medico vi chiedeva scusa; cercavano con il personale a disposizione di non fare passare nessuno ma piú di tanto non riuscivano. Alcune foto di te che entravi o uscivi dall’ospedale finirono in rete scatenando pettegolezzi e morbosità. Da quel momento in poi non hai avuto modo di andare da tua moglie senza mandare a cagare qualche paparazzo, giornalista locale o qualcuno a caccia di selfie. Poi diversi tuoi fan si erano organizzati tempestando i social con una foto rubata durante il vostro matrimonio e sotto la frase: lasciateli stare.

Al settimo giorno di degenza, entrando in stanza, hai visto tua moglie che piangeva e sua madre che cercava di consolarla. Era un certo dottore che, durante le visite, per la terza volta – non gliene erano bastate due – aveva ripetuto di non farsi alcuna illusione. Il giorno seguente hai aspettato che il medico passasse per il suo giro. Quando è arrivato gli hai chiesto se potevi parlare con lui nel suo studio. Ha acconsentito sbuffando. Era evidente che fosse uno di quelli che hanno un problema con te o con chi pensano che tu sia. Lo hai aggredito urlando: e se anche fosse? mi dica: se anche fosse? non le hanno detto che un minimo di psicologia nel suo mestiere serve? la fiducia non fa, forse, la differenza? crederci… noi vogliamo crederci… possiamo averne il diritto? lei cosa pensa di fare togliendo ogni speranza?

Ti ha guardato freddo e se n’è uscito con: prepararvi alla realtà per tempo.

I tre giorni successivi hanno registrato un miglioramento della situazione generale, il liquido amniotico sembrava resistere per la vostra esultanza e sotto sotto, ma neanche poi tanto, alla faccia di quel medico. Un paio d’infermiere che facevano il tifo per Luca giravano per la stanza belle sorridenti, strizzando l’occhio e mostrando le dita incrociate. Un altro dottore si era dichiarato ottimista. Il traguardo lo si poteva vedere.

I pochi tecnici coinvolti ti fanno un saluto appena accennato, come per non disturbare. Il soundcheck, vista la situazione, è molto veloce: deve solamente funzionare il suono della tua chitarra e quello della tua voce. Solamente. Ognuno sembra piú premuroso del solito. Anche tu cerchi di essere cordiale piú che puoi. Ti porti la chitarra in camerino. Provi a suonare per te.

Era un mercoledí notte quella notte. Come in ogni altra di quel periodo non riuscivi a dormire se non un paio d’ore prima dell’alba. Continuavi a comprare film in rete e ora ne stavi guardando uno su un musicista irlandese che trovava l’amore e un po’ di successo in America. Una storia che riusciva a tenerti lontano da pensieri su flebo, malformazioni, calendari, ecografie e tempo che non passava.

È stato proprio per quello che ti è sembrato che il telefono, quando ha suonato, lo facesse davvero a tradimento. Al quarto o quinto squillo la stanza si è fatta buia. Senza nemmeno guardare il display hai premuto il tasto verde e detto: arrivo!

In sala parto c’era pochissima luce. Bianca era carponi sul lettino e le sue urla non credevi potessero essere sue. Continuava a dire perché? in un modo che ti lacerava. Una ginecologa la esortava a spingere mentre un’altra le teneva una mano, le accarezzava i capelli e ripeteva coraggio! Tu le hai preso l’altra mano, lei ha alzato la testa ma era come se ti guardasse attraverso, continuava con i suoi perché? con quella voce lancinante e rotta che sembrava quella di una bambina. Il dolore fisico unito a quello dell’anima davano una somma inimmaginabile. Non riuscivi a dire nient’altro se non sono qui, sono qui, ma non c’era niente che si potesse frapporre fra lei e il suo strazio. Finalmente, insieme a un urlo che sembrava non finire piú, Luca uscí. Una delle due dottoresse si affrettò a portarlo via.

Bianca si afflosciò sul lettino incapace di smettere di piangere nonostante avesse esaurito tutte le forze. Teneva le gambe serrate come non volesse fare uscire piú niente. Piangevi anche tu mentre le accarezzavi la schiena ma in quel momento non c’era niente che ti potesse avvicinare a lei né farti sentire utile per qualcosa. Arrivò la ginecologa che vi ufficializzò che il battito si era fermato. Dopo poco l’altra dottoressa vi ha detto piano all’orecchio che in questi casi è meglio vederlo il bambino piuttosto che no: si rischia di immaginarselo chissà come. Vi ha chiesto se lo volevate tenere qualche minuto. Non ricordi nemmeno se avete risposto di sí, sai solo che ve lo siete ritrovati fra le braccia. Era un cosino di un chilogrammo. Già parecchi capelli scuri. Il naso e la bocca di sua madre. Bianca, ancora con quella voce da bambina, disse: è perfetto!

Il capo della tua agenzia ti viene a trovare in camerino. Il suo abbraccio ti sembra sincero. Grazie per non avere cancellato, ti dice, sono arrivati da tutta Italia, sarebbe stato molto difficile annunciare l’annullamento. Non ti hanno mai visto in un concerto voce e chitarra. E a teatro, figurati. Bianca come sta? Vedrete che una bella coppia come la vostra riuscirà a reggere il colpo. No, perché ho sentito che in molti si separano quando succede una cosa simile, ma vedrai che non sarà questo il caso. Lo guardi negli occhi come a dirgli che quella statistica la conosci anche tu. E che ora può andarsene a fare in culo.

Ci furono le lunghe ore rimaste della notte e poi quelle ancora piú lunghe del mattino in cui in tutto il reparto e intorno a voi erano nascite e fiocchi azzurri e rosa e gioia e commozione e mazzi di fiori. Le due infermiere partecipavano del vostro dolore e cercavano di tenere chiusa la porta della stanza piú che potevano. Come se doveste coprire qualche vergogna. Bianca, per tutto quel tempo, non ha mai aperto bocca. Non hai piú resistito: dovevi portarla via da lí. Il medico che aveva predetto quella fine era venuto a dirvi che gli dispiaceva sinceramente. Gli avete creduto. Hai chiesto proprio a lui di lasciarti portare tua moglie a casa. Lui ha recuperato i farmaci che le servivano e ti ha dato il permesso nonostante le condizioni fisiche, era costretto a dire, non lo consentissero. Hai firmato le carte che dovevi.

Emma vi aspettava sulla macchina di fronte all’uscita. Hai spinto la sedia a rotelle con sopra tua moglie fino a dove si poteva, poi l’hai presa in braccio e sei arrivato alla vostra prius. Altrettanto hai fatto quando l’hai portata dal garage al vostro letto, finalmente a casa.

Bianca era vuota, sentivi, completamente vuota. L’hai appoggiata molto delicatamente. Per parecchio è rimasta del tutto immobile. Alle tue richieste se volesse qualcosa mostrava un’insofferenza sempre maggiore. Dopo un paio d’ore l’hai baciata sulla guancia. Le hai chiesto scusa ma dovevi andare. Le hai detto che l’amavi.

Alcuni fan hanno individuato la finestrella del camerino e da sotto continuano a urlare il tuo nome. Apri la tendina e loro esultano, felici. Li saluti appena. Qualcuno di loro ti fotografa, qualcun altro ti manda un bacio, altri fanno il segno di abbracciarti. Trattieni una lacrima che cerca di uscire.

Poco piú in là nel tempo ti chiameranno dall’ospedale per dirti di altre carte da firmare, conti da saldare e, soprattutto sapere della vostra decisione riguardo al piccolo cadavere. Chiederai che cosa intendono e ti risponderanno che in quei casi se ne possono occupare loro oppure potreste farlo seppellire voi. Noi, dirai subito, lo facciamo noi. A Bianca, penserai, lo dirò al momento opportuno.

In quel cimitero ti mostreranno un angolo che viene chiamato «degli angeli». Vedrai piccole lapidi su ognuna delle quali leggerai un nome di battesimo e una data sola: quella di nascita e morte insieme. Luca finirà lí, nel lato superiore, fra Martina e Gaetano. Chiunque dovesse passare, potrà leggere Luca 4/12/2014.

Per un breve periodo tua suocera gestirà le operazioni di casa. Manderà avanti un po’ tutto fra spese e pulizie e il resto, ma soprattutto starà incollata a sua figlia. La pressione di Bianca non si alzerà da cento su sessanta. I suoi occhi e il suo corpo continueranno a risultare vuoti. Sua madre, con la solita risolutezza, continuerà a spingerla a parlare, a risollevarsi, a mangiare, almeno a restare lí con lei, ma senza successo. Ti alternerai a lei, certo, ma con la sensazione che tua moglie sia stata ricacciata da tutto quel dolore fin troppo indietro nel tempo.

Poi un giorno Emma, dopo infinite insistenze, riuscirà a farle mandare giú un po’ di mela cotta. Sarà allora che la convincerai a tornarsene a Novara che ora sarebbe toccato solo a te. Sulla porta l’abbraccerai e le prometterai di tenerla costantemente informata. Chiamerai il tuo manager per dire di cancellare qualsiasi impegno. Fortunatamente mancherà ancora tempo prima dell’inizio del tour.

I primi giorni li trascorrerete interamente nella vostra camera, Bianca si rifiuterà di uscire dal letto. La forzerai a mangiare con risultati quasi nulli. Poi passerai ai massaggi. Li chiamerai cosí ma in realtà quello che farai saranno tentativi maldestri di sfregare, pigiare, pizzicare, rianimare in qualsiasi modo la sua pelle e i suoi muscoli. Lo farai con vigore, a un certo punto proprio con tutta la forza ma sarà come provare a stimolare il legno. Lei avrà smesso di sentire il proprio corpo. Non avete mai avuto la tv in camera e allora ci porterai il laptop e recupererai una stagione di Seinfeld. Rivedrete per l’ennesima volta Frankenstein Junior. Non ci sarà modo di strapparle un sorriso. Ti basterebbe anche vederla piangere.

I responsabili delle associazioni benefiche a cui andrà l’incasso della serata vengono a ringraziarti in camerino. Sembrano un po’ delusi dalle tue poche parole di risposta. Ognuno di loro vuole comunque una foto con te. Ognuno ti chiede di reggere il loro volantino.

In quella stanza per un paio di settimane notte e giorno si confonderanno, Bianca dormirà al massimo due ore poi potrà starne sveglia anche quarantotto. Ci vorranno dieci giorni perché, finalmente, dorma venti ore di fila. È allora che andrai a disfare la camera di Luca. Non vorrai farti scoprire, cosí ogni dieci minuti andrai a controllare che lei non si svegli. Smonterai la culla, svuoterai la cassettiera, slegherai il fasciatoio dalla scrivania, ti arrampicherai sulla scala e toglierai con la spatola le stelle fosforescenti dal soffitto. Riempirai quattro scatoloni – dall’ultimo sporgeranno gli angeli – che, in punta di piedi, porterai in solaio. Chiuderai la porta.

Una mattina ti sveglierai sentendo lo scroscio della doccia. Vedrai l’altra metà del letto finalmente vuota. Respirerai a fondo, ti salirà un groppo in gola. Eccola. Eccola di nuovo, finalmente, penserai.

Il sipario sul lato interno ha qualche sdrucitura. Sei seduto su una sedia di paglia di fronte al punto in cui si aprirà. La tua martin poggia sulla tua gamba destra. Il tuo gomito destro su di lei.

Il chiasso, dopo un breve assordante urlo, è diventato un brusío. Avranno dato le luci di mezza sala. Di là staranno preparando telefonini e macchine fotografiche con cui, nonostante il divieto, ti riprenderanno per buona parte del concerto. Sarai immortalato cosí come sei.

Abbassi la testa. Poggi le dita di entrambe le mani sulle corde della chitarra. Cominci un fingerpicking. Si apre il sipario. L’urlo che ti arriva è da stadio piú che da teatro. Non riesci a pensare al diaframma né alla respirazione né a nient’altro che ti aiuti a cantare meglio. Canti. Eccomi qua, pensi. Eccovi qua.

Piano piano comincerà a rispondere sempre un po’ di piú ai tuoi «massaggi» e a riprendere contatto con il proprio corpo. Mangerà. Porzioni ridicole di cibo ma le mangerà. Soprattutto resterà un po’ fuori dalla camera.

L’ostetrica che era stata scelta per il parto si presenterà un pomeriggio a casa vostra. Comincerà con il chiedervi scusa per non esserci stata quella notte ma nessuno l’aveva avvisata. Poi chiederà di poter parlare con Bianca, se possibile da sola. Un’ora dopo le troverai abbracciate, l’ostetrica che batterà la mano sulla schiena di tua moglie che, finalmente, starà piangendo. Ci saranno altri pomeriggi cosí e, a volte, all’ostetrica si aggiungerà la ginecologa che aveva assistito Bianca quella notte. Entrambe ripeteranno che casi come il vostro, anche se molto rari, non sono unici. Che, a differenza della maggior parte della gente, conoscevano bene la sofferenza che un lutto del genere comporta. Che anche il fatto che gli altri minimizzino, non capiscano l’entità del dolore per un figlio partorito morto, comporta ulteriore sofferenza. Comunque, vi diranno: noi siamo qui.

Tua moglie, con il tempo che le servirà, riemergerà. Ci andrai cauto ma a un certo punto le dovrai dire che il tour si avvicina, che ci sono le prove e i preparativi. Ti dirà di stare tranquillo e di andare assolutamente che è pronta a fare da sola, anzi sta pensando di tornare al lavoro. Approfitterai di quel momento per dirle della tomba di Luca.

Il giorno seguente, dopo tutto quel tempo, uscirà finalmente di casa. Nei mesi successivi Bianca andrà al cimitero ogni giorno, te lo confesserà lei stessa. Ogni volta che cercherai di dissuaderla dal farlo cosí spesso, partiranno i litigi. Cosí ti rassegnerai e ti dirai che comunque bisognerà riparlarne ma almeno, nel frattempo, i suoi progressi saranno sempre piú evidenti.

Ci vorrà altro tempo ma poi, un giorno, ti racconterà. Ti dirà che una delle sensazioni peggiori era stata il tradimento del suo corpo che si era rivelato sbagliato o marcio o incapace di svolgere funzioni normali come procreare. E se era cosí il suo corpo, significava che sbagliata o marcia o incapace lo era anche lei. Continuerà a chiederti scusa e tu a dirle di smetterla che non è vero niente. Lei dirà che un conto è quello che sa – e ti darà ragione – e un conto quello che non riesce a smettere di sentire. Poi ti confesserà che piú di una volta aveva avvertito il bisogno di lasciarsi morire. Quindi ti guarderà bene negli occhi e ti dirà: grazie!

Quella notte non riuscirai a prendere sonno. Ti alzerai dal letto mentre lei dormirà profondamente. In frigo troverai un po’ di magrello. Attraverso il lucernario ammirerai una luminosissima luna piena. Darai un’occhiata in rete, poi ti stenderai sul divano. In tv troverai un vecchio western di Raoul Walsh. Spererai di crollare di fronte a quello ma, al contrario, ti tirerà dentro e produrrà l’effetto contrario. Finito il film tornerai verso il letto. Ti fermerai per controllare, come fai ogni giorno, la chiusura della stanza di Luca. La porta sarà socchiusa. Accenderai la luce. La camera sarà esattamente com’era prima che la svuotassi. La culla, il fasciatoio, le stelle…

Non è certo la prima volta che vivi sulla tua pelle la vecchia risaputa storia dello spettacolo che deve sempre e comunque andare avanti. Avevi uno showcase di presentazione del tuo album in uscita il giorno in cui il medico ti ha detto che tuo padre era condannato e hai affrontato un palazzetto pieno a Milano poche ore dopo il suo funerale. Ti sei esibito in una diretta televisiva di prima serata dopo che, nel pomeriggio, ti avevano consegnato gli esiti degli esami che sembravano dare per spacciato anche te. Uno dei tuoi migliori amici si è messo la canna del fucile in bocca al poligono di tiro e ha tirato il grilletto. Sei venuto a saperlo a un’ora dallo show al san paolo di Napoli. Ma ognuna di quelle volte c’erano i musicisti, gli amplificatori, la batteria, le luci. Il volume del tutto. C’era modo di nascondersi nel frastuono. O di lanciarcisi in mezzo. Ora no.

Durante il primo pezzo ti hanno mitragliato di foto.

Poi hai chiesto se adesso potevano mettere via macchinette e telefonini. Non c’è stato verso, hanno continuato a scattare ininterrottamente. Sei lí.

È inevitabile.

Per un attimo ti chiedi se non sanno, ma poi ti dici che sanno, sanno. Allora forse vogliono solo togliere di mezzo quanto piú imbarazzo possibile e quell’atteggiamento ti sembra meraviglioso. Saranno anche solidali ma sono soprattutto, e per fortuna, impazienti e felici.

– Ho capito, è il Mangiapane.

– No, non è il Mangiapane e nemmeno la Taverna dello Sfizio.

– Però stiamo facendo proprio quella strada.

– La sto prendendo piú lunga cosí non indovini.

– Sentila. Sentila. Che sadica. Dài, dove mi porti?

– Ma già… Tutta sta fatica per organizzarti una sorpresa e adesso che stiamo per arrivare te lo dico…

– Ah, allora stiamo per arrivare… È il Mangiapane.

– Nooo. Tanto è inutile, non indovini. E poi piantala che sto guidando e mi fai sbagliare strada, – un po’ troppo seria.

– Va be’ almeno giurami che non hai invitato nessun altro.

– Sei noiosissimo, – adesso si farà incomprensibilmente scura.

Magari ti preoccuperai per niente ma Bianca, in quei giorni, ti sembrerà che abbia qualcosa. Dirà che non ha niente e sbufferà se insisti a chiedere ma sarai sempre piú convinto che non te la dice tutta. Per favore no. Le cose non saranno mai piú come prima e alcune, purtroppo, toccherà portarle dietro per sempre, ma sarete arrivati lí insieme, tu e lei. Sarete lí.

Bianca parcheggerà al Bollenti Spiriti. Il cameriere sembrerà in vostra attesa e vi guiderà nella sala di là dove, come temevi, ci saranno dodici amici che vi stanno aspettando per il tuo compleanno a sorpresa.

Quei bastardi te ne faranno passare di tutti i colori, dallo spegnimento delle luci del ristorante per l’arrivo della torta alla ola mentre soffierai sulle migliaia di candeline, ai cori di perché è un bravo ragazzo in cui avranno coinvolto tutti gli altri astanti che poi, a quel punto, vorranno la foto con te e insisteranno perché gli canti una canzone. E i tuoi amici, stronzi, a pompare pure loro e anche i camerieri ad aggiungersi e allora, fingendoti ciucco, canterai un Romagna mia con tanto di vibrato che, ovviamente, qualcuno riprenderà e metterà in rete a raccogliere piú visualizzazioni del tuo ultimo video. E gli stronzi a sganasciarsi. Che bello, però, vedere Bianca ridere pure lei.

Poi vi richiuderanno da soli nella sala e i tuoi amici ti festeggeranno con affetto sincero e le mogli si avvicineranno alla tua che, dal niente, se ne uscirà che ora dovete proprio andare. Come?, dirai tu, e lei sí sí è proprio ora e in quattro e quattr’otto lascerete la compagnia lí – sorpresa e delusa – all’amazzacaffè.

Mentre stai ringraziando per un applauso particolarmente prolungato, lo sguardo ti cade su un palchetto laterale. Vedi Luca. È sui vent’anni, bel ragazzo, tutto sua madre. C’è una ragazza, bella pure lei, che gli sta vicino vicino e un’altra coppia, si direbbe di amici. Non riesci a non sbirciare piú e piú volte nella loro direzione durante la tua performance.

Luca è l’unico dei quattro a non cantare le tue canzoni. Ti fissa con un’espressione che non riesci a decifrare. Canti distratto, non abiti le tue parole né le note che le sorreggono. Fortunatamente lo fanno comunque i presenti in sala. Se c’è una cosa che vorresti, in quel momento, è nasconderti alla fissità dello sguardo di tuo figlio. Acceleri, rallenti e acceleri di nuovo, senza volerlo, il tempo della canzone, ti accorgi che la tua intonazione è meno ferma, non scandisci bene le parole, non padroneggi la situazione. Non sai nemmeno quanto là fuori se ne stiano accorgendo – sembra comunque di no – ma Luca resta lí, imperterrito, con quegli occhi piantati su di te e sulla tua vergogna.

Poi, su quella canzone che parla dell’inevitabilità ma anche della transizione del dolore, quando arrivi a quel ritornello fatto non piú di parole ma di tururu tururu finalmente scorgi che anche lui, pur se a labbra un po’ strette, si aggiunge al coro. Quel vocalizzo fa assumere alla sua bocca una forma per la quale sembra che stia mandando piccoli baci. Ognuno dei presenti in sala ha appena fatto i conti con il proprio dolore piú recente o con quello piú ostinato e il tururu diventa lo sfogo musicale necessario. Nessuna parola, nessun concetto, nessuna ulteriore considerazione. Solo cantare alla faccia di tutto. Il tururu riempie il teatro e cerca un’apertura verso l’alto.

– Come mai tutta sta fretta?

– Mi ero rotta.

– A me sembrava che ti divertissi.

– Facevano un po’ troppo gli scemi. Non si capiva fino a quando festeggiavano e fino a quando ti volevano mettere in imbarazzo.

– Stai scherzando, eh? Come se non sapessi come sono fatti quelli lí. E poi, scusa, sei voluta scappare adesso che si erano sfogati.

– Va be’, mi avevano stufato.

– Mi dici cosa c’è? Da un po’ di giorni hai qualcosa…

– Ti ho detto che non ho niente. Smetti di chiedermelo.

Un paio d’ore dopo, nel vostro letto.

– Ho visto che ti è uscito l’herpes.

Le sarà venuto fuori, come al solito, appena sopra il coccige, un segno rimasto dopo una varicella avuta a vent’anni.

– Sí, non ti dico il fastidio…

– E?

– E cosa?

– Dài, ti esce nei periodi di stress. Adesso mi dici cos’hai, va bene?

– Ok, è un periodo che al lavoro mi fanno diventare matta. Odio il capo, i clienti e le pratiche automobilistiche in generale.

– E perché non me lo potevi dire prima?

– Ma perché non ne vale la pena. E poi non volevo appesantirti proprio oggi.

Saprà che non l’hai bevuta ma non sentirà il bisogno di fare meglio di cosí. Poi sparirà di là. Riapparirà con tre pacchi, te li metterà in mano, ti bacerà e ti dirà buon compleanno. Ti indicherà l’ordine con cui li dovresti aprire. Nel primo troverai la raccolta di tutte le poesie della Szymborska.

– Grazie.

– Prego. Cosí le leggo anch’io.

Nel secondo troverai una raccolta di dieci cd della Motown in una buffa confezione di cartone che riproduce l’edificio della storica etichetta.

– Grazie ancora.

– Be’ questi te li ascolti da solo.

Prenderai in mano il terzo pacchetto. A vederlo sarà quello con la confezione piú povera. Lo soppeserai. Lo troverai molto leggero rispetto al suo volume. Ti si apre una bolla di calore mentre ti viene in mente un pacco avvolto da carta verde e legato con un fiocco blu.

Proverai a scuoterlo e Bianca ti dirà, ridendo, piano, fai piano! Allora farai con cura ma in fretta: slegherai il fiocco, toglierai, senza strapparla, la carta che l’avvolge. L’agitazione crescerà. Ti rimarrà in mano una scatola giallo chiaro senza alcuna marca o indicazione stampata. Alzerai delicatamente il coperchio e, senza guardare, infilerai la mano. Rallenterai il respiro cercando di controllarti.

Tasterai accuratamente in ogni zona della confezione. Vi eravate detti: mai piú un calvario del genere. Ovatta. Su ogni lato. Ovatta. In ogni angolo. Ovatta. Niente che assomigli a un termometro. Ovatta. Guarderai Bianca negli occhi, non capirai niente dalla sua espressione. Continuerai a fissarla mentre rovescerai la scatola e i fiocchi di ovatta nevicheranno sul tavolo. Non uscirà nient’altro. Sorreggerai ancora per un po’ la confezione capovolta. È vuota, Bianca, è vuota.

Poi lei, una lacrima che dalla faccia gocciola nel niente, ti prenderà la mano fra le sue e ti farà un cenno col volto indicandoti l’interno della scatola. La girerai e troverai sul fondo un foglietto incollato. E leggerai: Sí! Comunque: Sí!

Le prime canzoni le hai tenute per te. Ma è come se ne fosse uscito l’effetto contrario, a loro sembravano arrivare ancora di piú. Sono loro che hanno in mano il grimaldello. Sono loro i ladri buoni.

Ieri è morto tuo figlio. Forse non ne avrai mai uno da crescere. Non sai quando né quanto né se tua moglie si riprenderà. Presto qualcuno aprirà una pagina facebook su cui festeggeranno con battute irripetibili la loro gioia per il tuo lutto.

Ti ritrovi a parlare della tua famiglia. Di tuo padre quando era piú giovane di te, di tua madre. Di te bambino. È la prima volta che lo fai in pubblico. A parte un paio di fischietti, subito zittiti dagli altri, ti ascoltano in religioso silenzio.

Quando ricominci a cantare, cantano tutti. Ogni tanto li accompagni, li lasci fare da soli. Li ascolti, li guardi.

Sono lí per loro.

Sei lí per loro.

Sono lí per te.

Sei lí per te.