Fuori dalla sala d’attesa
La stanza in cui si era infilato aveva una grande finestra a sud. Al muro un paio di foto con la coppia che la abitava – una nella Monument Valley, l’altra ad Amsterdam – sulla parete di fronte al letto una tv. Pensò che ce n’era sempre una in ogni camera da letto in cui finiva. Soffiò sulle piume del dream catcher appeso sopra la testiera e si lasciò cadere sul piumone. Fissò i movimenti di un piccolo ragno in una spanna di soffitto.
Gli sembrò di sentire uno scatto di serratura al piano di sotto; si alzò rapidissimo e silenzioso. Era sabato: probabile che quelli, chiunque fossero, rientrassero per prepararsi all’uscita serale. Raggiunse le scale tenendosi rasente al muro. Da giú non saliva alcun rumore. Riuscí a normalizzare il respiro, rimase in attesa. Si rese conto che stava provando un po’ di delusione per quel falso allarme. Voleva vedere come se la cavava se fosse stato costretto a improvvisare: ecco il punto a cui era arrivato. Quando si sentí sicuro che non ci fosse davvero nessuno, tornò in camera e si stese di nuovo sul letto. Prese sonno.
Al risveglio era buio. Realizzò dov’era e si stirò, indolente. In bagno diede un’occhiata ai cosmetici sul pianale del lavello, poi aprí l’armadietto e valutò i medicinali. Frugò nella cesta della biancheria sporca, ne tirò fuori un paio di mutandine blu scuro e trasparenti della padrona di casa, le mise contro luce e le studiò per un po’. Le ripose. Si sedette sul bordo della vasca, aprí l’acqua, mise la mano sotto il getto e rimase per qualche minuto a guardarsi attorno.
Il telefono al piano di sotto squillò finché non partí la segreteria:
– Se non rispondiamo ci sarà un motivo, – diceva una voce di donna giovane e divertita, – ma non significa che non ascoltiamo quello che ci dovete dire. Vi richiamiamo! – chiudeva con una risata. La voce dall’altra parte del telefono era di una donna di mezza età:
– Signor Battara, buonasera. Le chiedo scusa se la chiamo a casa a quest’ora di sabato ma ho provato piú volte sul suo telefonino senza fortuna. La chiamo dall’ambulatorio del dottor Zanichelli. Abbiamo gli esiti. Ci può richiamare prima possibile, per cortesia?
Succhiò l’aria fra i denti e scosse la testa. Decise di non rimettere in ordine; in quella abitazione non sarebbe tornato. Scese le scale. Lasciò due banconote da cento sul tavolo in cucina. Uscí dalla porta sul retro che aveva forzato qualche ora prima.
Il rientro a casa fu una passeggiata di due isolati. Accese le luci d’ingresso con il comando vocale e, una volta in cucina, estrasse dalla cantinetta una bottiglia di krug e una di sassicaia e le aprí. Con lo champagne si riempí un paio di calici, con il rosso un bicchiere, il resto lo vuotò nel lavello. Prese un tablet da sopra una pila di quattro, lo mise nel dock bang & olufsen e fece partire una playlist di Bill Withers. Mentre sorseggiava lo champagne aprí il frigo. Dopo poco azionò contemporaneamente il piano cottura, il forno e la piastra teppanyaki e in meno di dieci minuti aveva pronti un’omelette ai funghi, un cesto di naan e un petto di pollo cotto in salsa di soia. Mise i piatti su un vassoio e si spostò di là.
Nello smisurato soggiorno campeggiavano, ognuno appeso a una diversa parete, quattro enormi schermi lcd. Al centro un’isola composta da quattro divani e, di fronte a ciascuno, un tavolino. Appoggiò il vassoio su uno di questi e sintonizzò ogni tv su un canale diverso. I programmi del sabato sera non gli bastavano e cosí nel terzo e nel quarto fece partire registrazioni dai canali satellitari. Si sedette di fronte al primo e cominciò a gustarsi la cena. Ogni dieci minuti, e sempre in senso orario, cambiava postazione.
La mattina dopo rimase per un po’ di fronte a un piccolo giardinetto incolto. La villetta era modesta e fatiscente. Quando gli sembrò che non ci fosse nessuno attorno, attraversò il sentierino come se si trattasse di casa sua e scardinò la porta con mano ferma e sicura. Se la chiuse svelto alle spalle. Rimase fermo appena oltre la soglia. Non scattarono allarmi.
Sul tavolo in cucina c’erano ancora tutti i resti di una colazione che avevano consumato in quattro; madre, padre e due figlie, avrebbe detto. Si sedette in un angolo e posò, sulla porzione di tavolo rimasto libero, la busta che aveva portato con sé. Ne estrasse yogurt, un vasetto di frutti di bosco e il caffè in un bicchiere di carta. Masticò e sorseggiò molto lentamente. Continuava a passare lo sguardo su ognuna delle postazioni in cui si era seduta poco prima quella famiglia. Era domenica e potevano essere andati a messa come, invece, in gita da qualche parte. Forse avrebbe potuto rimanere fino a sera. Ho davanti una lunga giornata, pensò.
La casa in cui venne scoperto era una villetta a schiera d’angolo. Si era portato uno zaino, aveva fatto una doccia e ora, avvolto nel proprio accappatoio, i piedi nelle proprie ciabatte, se ne stava in soggiorno di fronte alla tv. Aveva preso con sé un po’ di pane azzimo e formaggio svizzero alle erbe. Sullo schermo c’era un film parodia dei classici sulle invasioni aliene. Lo guardava senza guardarlo.
A un certo punto sbucò un attore che sembrava del tutto fuori posto, non si scalmanava, non eccedeva con le espressioni e dava l’impressione di leggere le battute su un gobbo. Dopo un paio di minuti pronunciò – come se non rientrasse nel copione – una frase sulla sensazione di sentire sensazioni. Non era una vera e propria battuta ma l’uomo nell’accappatoio prima avvertí una bolla di calore allargarsi dentro, poi si ritrovò a ridere a piú non posso.
Prese una sedia e si mise a un paio di spanne dallo schermo e rimase lí, impaziente, ad aspettare altre apparizioni dell’attore. E ogni volta, anche se il film non lo divertiva per niente, si ritrovava a sganasciarsi.
La padrona di casa lo aveva colto cosí. Era entrata e aveva lasciato cadere a terra le borse dello shopping. Non aveva urlato.
Uno sconosciuto nel suo soggiorno, in un accappatoio che doveva essersi portato da casa, a sbellicarsi di fronte alla sua tv. Faccia insolita e il collo insaccato nelle spalle larghe; aveva gli occhi arrossati e, ora che l’aveva notata, sembrava un bambino pronto per il castigo. Anche la voce e quello che disse avevano qualcosa di infantile:
– Io non faccio del male a te, tu non fai del male a me.
L’espressione di quel tipo e il suo timbro le fecero pensare che potesse non essere pericoloso.
– Se lasci giú tutto quello che cercavi di rubare ed esci immediatamente, non chiamo la polizia.
Lui aprí le braccia e sbatacchiò l’accappatoio lungo tutto il corpo mostrando di non avere niente addosso e poi, nonostante l’intralcio delle ciabatte, scattò afferrando al volo il suo zaino verso la porta sul retro. Lei lo guardò scappare e, con metodo, compose il numero della polizia.
Risultò che quell’attore irresistibile era americano. Dalla biografia sul suo sito – piuttosto alla buona e apparentemente aggiornato di rado – veniva fuori che nasceva come musicista e ancora oggi, dichiarava, la sua vera passione era suonare con la propria band. Aveva inciso anche un paio di album. La sua filmografia elencava parecchie apparizioni ma tutte in film poco conosciuti. Lui li trovò in rete e li scaricò. Poi cominciò a proiettarli sui quattro schermi. Rimase in piedi tutta la notte. Anche durante gli horror rise fino al dolore degli addominali e all’indolenzimento della mascella.
La mattina dopo chiamò la sua segretaria dandosi malato, le disse che avrebbe tenuto il telefono spento. Una doccia, colazione e scaricò i due album. Il genere era alternative country. Sulla traccia sei del primo e sulla canzone che chiudeva il secondo si ritrovò a piangere a dirotto. Ascoltò sempre con lo stesso risultato – fino a distruggersi – decine di volte le due canzoni.
Si mise al computer e cominciò a lasciare commenti sul sito dell’attore. Erano tutti pieni di ammirazione per il suo lavoro anche se, sottolineava, spesso i film non erano all’altezza. Ma soprattutto esaltava la sua produzione come musicista e, scriveva, non era possibile che in quel campo non avesse avuto la visibilità e il successo che meritava. Controllò e ricontrollò fino all’esasperazione quello che stava scrivendo: la traduzione in inglese non lo faceva stare tranquillo sull’esattezza di ciò che voleva comunicare. Il tempo di litigare con un russo, un danese e un paio di losangelini entrati nel sito per sbeffeggiare senza pietà l’attore e poi uscí, bisognoso di cercarsi una casa in cui nessuno stesse dormendo.
La donna aveva raccolto la busta che qualcuno aveva infilato sotto la porta. Dentro trovò una banconota da cinquecento euro e una lettera che diceva il disagio psicologico che ho arrecato non è risarcibile, ma se solo potesse considerare questo come il saldo dell’affitto per un paio d’ore della sua casa... Si affrettò a chiudere col nuovo chiavistello la porta sul retro e compose un numero sul telefono.
– Polizia? Dovrei ritirare una denuncia.
Pochi giorni dopo il sito dell’attore annunciò orgogliosamente un mini tour europeo dei Three Boleros, il suo gruppo. Altrettanto orgogliosamente si affermava che avrebbero suonato solo nei bar. Lui stampò il calendario con le date italiane e lo mise per metà sotto il tappetino del mouse. Poi, su un altro pezzo di carta, scrisse a mano grazie.
Era seduta al buio, presagiva qualcosa. In mano stringeva un coltello da cucina. Respirava profondamente e teneva d’occhio quella maniglia. Ogni tanto attraversava il soggiorno e si fermava sul lato opposto, di fronte al chiavistello. Poi tornava. Non appena vide un foglio sbucare sotto la porta d’ingresso, la spalancò di scatto e lo trovò lí, l’abusivo di qualche giorno prima, ancora una volta sorpreso e imbarazzato.
I suoi lineamenti asimmetrici ma delicati non le facevano pensare alla faccia di un molestatore o di uno stupratore. Già, come se sapessi che faccia devono avere, realizzò lei. Puntando il coltello gli impose di stare fermo – lui non sembrava avere comunque l’intenzione di scappare – lesse il biglietto e chiese:
– Grazie? Grazie perché? Perché ti ho tolto la denuncia? Come fai a saperlo?
– Me l’hai tolta? Ti ho ringraziata perché ero convinto che non mi avessi mai denunciato.
La sua voce vera non è cosí diversa da quella infantile dell’altra volta, pensò lei. Mantenendo il coltello puntato, con decisione:
– Cosa sei venuto a fare?
– Non lo so.
– Dimmi allora che cosa cercavi la prima volta.
– Mi bastava anche una piccola sorpresa.
– E l’hai trovata?
– Non ho fatto in tempo.
Per un minuto buono rimase a fissarlo. Disorientato, ecco come le sarebbe venuto di definirlo. Ma avrebbe scommesso che fosse piú una condizione costante che non del momento. Lui guardava a terra rispondendo allo sguardo solo ogni tanto e di sfuggita.
Poi lei, indicando l’ingresso:
– Fammi vedere cosa avresti fatto se ne avessi avuto il tempo.
Chiuse la porta alle loro spalle.
– Ma davvero quella battuta sulla sensazione di avere una sensazione non ti fa ridere?
– Non è che non fa ridere me, non è una battuta quindi non fa ridere nessuno. Tranne te. Ma tu lo sai che sei strano, vero?
– A me fa diventar matto.
– Piú di cosí, dici?
Lei si sentiva felice. La parte misteriosa e insondabile del suo nuovo ragazzo le faceva perdere la testa. Non riusciva nemmeno a dargli un’età, se le avesse detto ventiquattro o trentasette non si sarebbe sorpresa comunque. Ora stava rimirando la sua tensione e la sua eccitazione mentre stringeva il volante e guardava dritto verso una meta che sembrava lontana senza esserlo e spingeva sull’acceleratore.
Arrivati a Torino, entrarono nel posto in cui i Three Boleros si sarebbero esibiti; era effettivamente un bar. La quarantina di presenti sembrava bruciare tutto l’ossigeno della sala. Lui si guardava in giro a scatti, respirava velocemente.
– Tutto bene? – gli chiese lei.
– Síssí.
Gli sorrise, gli carezzò la faccia e cominciò a farsi largo per raggiungere il bancone. Lui intorno vedeva solo teste, quelle di un pubblico che sembrava di avventori occasionali con qualche curioso in mezzo: dove avrebbero suonato quelli? Poi sentí un urlo e vide che tutti si giravano verso lo stesso ingresso da cui erano entrati loro due. Erano i Boleros.
Attraversarono la sala aspettando che via via venisse loro aperto il varco e dando la mano o battendo il cinque a chiunque lo chiedesse. Arrivarono sull’altro lato e salirono su una piccola pedana alta una trentina di centimetri. Il batterista rimaneva nascosto dalle teste, il bassista con i suoi quasi due metri si sarebbe fatto vedere comunque.
L’attore arrivò per ultimo – piú mani da stringere, chi lo tirava per la camicia, chi strappava un selfie – mise la chitarra a tracolla e si avvicinò al microfono. Alzò un braccio per salutare e, allo stesso tempo, per dare il via al batterista. Attaccarono senza altri convenevoli un country-blues acido. Il pubblico non sembrava conoscere le canzoni ma via via apprezzava sempre piú calorosamente la performance del trio; erano venuti per l’attore e si trovavano di fronte a un cantante sorprendente.
Lei raggiunse il suo ragazzo con un paio di franziskaner alla spina. Lui, a bocca aperta e in punta di piedi, non distoglieva gli occhi dal frontman, sembrava intontito dall’emozione. Riusciva comunque a esprimere gioia per il successo della serata. Prese la birra e ringraziò senza girarsi.
– Scommetto che è il primo concerto che vedi in vita tua, – disse lei.
Lui confermò con un cenno del capo appena abbozzato.
– Chi è? – gli chiese.
– Come? – le aveva avvicinato l’orecchio continuando a guardare fisso di fronte a sé.
– Ti ho chiesto chi è.
– Ma chi è chi?
– Chi è quello che sta cantando.
– È l’attore di cui ti parlavo.
– Lo so che è quell’attore. Dimmi chi è per te.
Lui si girò e, come se avesse pensato per la prima volta a quella risposta:
– Non lo so. Qualcuno, – disse.
Era quasi mezzogiorno e ormai da un paio d’ore guardava fisso l’ingresso dell’hotel in piazza Carlina. Le indiscrezioni in rete confermavano che l’attore alloggiava lí, eppure non c’era nessun altro in giro ad aspettarlo. Arrivò lei con altro caffè nei bicchieri di carta.
– Ancora niente, eh?
Lui prese il caffè e fece segno di no. Lei, un po’ offesa dall’essere ignorata, continuava comunque a guardarlo ammirata dall’intensità del suo sentire. Raramente aveva visto qualcuno desiderare cosí tanto qualcosa e pazienza se ancora non era lei, lo sarebbe diventata.
Poi l’attore apparve uscendo dall’hotel. Indossava una t-shirt dei Wilco e un paio di infradito marroni. Si stirò con un ampio gesto delle braccia e si mise a sedere sul marciapiedi. Arrivò un facchino e si chinò per stringergli la mano. Rispose con un sorriso; l’aria serena.
L’Altro finalmente si girò verso la sua ragazza. Aveva uno sguardo impaurito con il quale sembrava supplicare di andarsene o almeno una spinta, un incitamento, qualsiasi cosa pur di togliersi da lí. Lei, come una madre con il proprio figlio di fronte al portone il primo giorno di scuola, gli baciò la fronte, gli strinse un braccio e gli indicò la direzione.
Lui fece alcuni respiri profondi e poi si lanciò, in apnea, attraversando la strada senza guardare e una macchina sbandò per evitarlo e partirono strombazzamenti e urla ma non si girò nemmeno per un attimo, continuò piuttosto a passi lunghi e rapidi.
Una volta piazzato di fronte all’attore, sempre senza ricordarsi di respirare, cominciò a fissarlo negli occhi. Quello, ricambiando lo sguardo, si ritrovò a sua volta fortemente turbato. Si rialzò in piedi di scatto ed ebbe l’impulso di correre via. Poi, però, gli occhi sempre dentro quelli dell’Altro, gli successe qualcosa – che ancora non capiva – e l’emozione girò in positivo. Si lasciò scivolare contro la parete dell’albergo, a sedere di nuovo. Rimasero bloccati nella stessa posizione. Nessuno diceva niente.
La donna si avvicinò al suo ragazzo e gli prese la mano. Lui, sempre rivolto al tipo seduto, fece il gesto di scattare una fotografia. L’attore gli fece cenno di sí e batté con il palmo sul marciapiede di fianco a sé. Lo raggiunse sedendosi su quel punto. I due continuavano a guardarsi con la coda dell’occhio.
Lei tirò fuori la macchinetta digitale e scattò tre foto. Fece pause di venti trenta secondi fra l’una e l’altra, ma le tre immagini che vide risultarono identiche: i due stavano vicini pur badando bene a non toccarsi, i lineamenti non esprimevano nulla ma gli occhi sembravano nuovi, come se non avessero ancora visto niente. Inoltre, nonostante i tratti fossero completamente diversi, sembravano figli della stessa madre. Nel frattempo, anche se di soppiatto, non riuscivano a distogliere nemmeno per un attimo lo sguardo l’Uno dall’Altro.
A un certo punto il suo ragazzo fece un lieve inchino all’attore poi, lentamente, allargò il braccio sinistro, avvicinò la mano destra all’ascella e mimò di farsi solletico. Rideva con gli occhi.
L’attore guardò affascinato, sorrise e poi si mise ad applaudirlo. La ragazza non capiva ma sentí salirle forte l’emozione. Il suo ragazzo la guardò, le fece un cenno con la testa. Lei lo prese sottobraccio e lo accompagnò – sostenendolo, quasi fosse rimasto senza forze – via da lí. Entrambi aprirono la mano a salutare il tipo ancora seduto e si avviarono verso la macchina.
Il cantante continuava ad applaudire mentre li guardava allontanarsi finché un van non inchiodò proprio di fronte a lui con l’autista che si precipitò a implorare scusa per il ritardo che il traffico di Torino e le donne al volante e chi guida col cappello e l’ora di punta. Salí sul predellino e quando vide l’Altro – già in lontananza – girarsi, alzò il braccio e si fece solletico. Salutò anche lui con la mano aperta e si sedette dietro dove i vetri, pensò, erano inutilmente scuri.
Lui guidava e lei lo guardava e gli carezzava la nuca.
– Perché non vuoi vedere le foto?
– Non lo so.
– Ma non le vuoi vedere adesso o non le vorrai vedere mai?
– Anche questo non lo so.
Si frequentavano da un paio di mesi e lei pensò che – con tutte le stranezze a cui ormai l’aveva abituata – non l’aveva mai visto cosí scosso ma anche, allo stesso tempo, cosí disteso. Dai suoi occhi era caduto qualche strato e ora si vedeva piú in profondità. Se le emozioni non ti uccideranno ne vedremo davvero delle belle, pensò.
– Mi porti al mare? – chiese.
– Sicuro, – rispose lui.
Nel frattempo accostò, la fece scendere, la prese per mano. Nonostante i rallentamenti, i commenti urlati dai finestrini e i clacson a salutarli, fecero l’amore sul prato a venti metri dalla statale.
Aveva forzato a fatica la porta ma c’era riuscita. Ora aspettava che scattasse o no l’allarme. Non scattò. Eccola lí. Quella era la casa dove lui non l’aveva mai portata. Il suo nuovo ragazzo parlava sempre poco di sé ma chi si sarebbe potuto immaginare che vivesse in un posto del genere. Sono innamorata, pensò, di uno che è ricco, salutista, ha gusti raffinati e me lo vuole nascondere.
Ripensando a come si erano conosciuti e al tempo trascorso insieme, ora che si trovava lí pensò che le cose difficili da capire adesso erano ancora piú difficili e numerose.
Cercò per primo lo studiolo. Una volta lí, notò un paio di post-it attaccati al computer. Su uno c’era un numero di telefono, sull’altro una nota che diceva ci sono troppi sei? è un problema?
Dallo zaino estrasse una delle foto con il suo ragazzo e l’attore. L’aveva scrutata non sapeva piú quanto ma ora avrebbe provato a decifrarla proprio lí, in quella casa.
Poi, sempre dallo zaino, prese un accappatoio, le ciabatte e una busta con albicocche e prugne. Infine ne estrasse un quaderno e una penna. Sulla prima pagina scrisse Giorno Uno. Posò il quaderno.
Si guardò attorno cercando il punto da cui cominciare.