Non c’erano stati fulmini
Niente nuvole squarciate.
Non erano apparsi fumetti né lampadine accese.
Nessun black-out.
Eclissi? No.
Apparizioni mistiche men che meno.
I tassi generali di natalità e mortalità non avevano subíto improvvise significative variazioni né il pianeta aveva cambiato senso di rotazione. Non risultavano novità degne di nota fra gli avvistamenti nel cosmo.
Insomma la nascita della Canzone non era stata favorita né accompagnata da eventi speciali.
E prima che comparisse? Segni premonitori zero. Non si può neanche dire che lui ci stesse lavorando. Aveva forse provato a creare qualche presupposto per favorirne l’apparizione? Nemmeno quello. Non c’era stato alcun passaggio emotivo, né spirituale. Un ponte filosofico? Una rivelazione esistenziale? La verifica del conto in banca? Un’irresistibile voglia di attenzioni femminili? Macché, tutta roba che era successa in altri momenti ma non ora.
L’immagine con cui pensava di poter raccontare l’evento era che la Canzone fosse stata espulsa dal suo corpo. Qualcosa di assolutamente fisico. Testo melodia accordi, tutto insieme e, immediatamente dopo, quel formicolio alle mani e sulla fronte. Per un attimo, un attimo solo, credeva addirittura di avere vissuto il senso di appartenenza al tutto.
Subito dopo il parto la guardò e la rimirò e la riguardò e la rimirò in un misto di incredulità, gratitudine e orgoglio. Era il primo a dire che con le canzoni non si può sapere – mai, mai e poi mai – eppure stavolta sentiva una certezza nuova e indubitabile: quella era una Canzone talmente importante da imporre la ci maiuscola. Con quella non ci si sbagliava, impossibile.
Vide apparire di fianco a lei una specie di serpente. Non fece in tempo a spaventarsi che, in realtà, quella figura mostrò le sue vere sembianze: era un’enorme, misteriosa esse. E anche lí – gli eventi si susseguivano ad alta velocità – prima di chiedersene il significato vide quella lettera diventare l’iniziale di una serie di aggettivi che presentavano la Canzone. La quale era, dunque, Sfrontata, Seducente, Scatenata eppure Solida, Schietta, Selvaggia, Scalpitante, Spiritosa, Stravagante, Sfacciata, Sexy, Scapestrata eppure Sensata, Spigliata, Sincera, Suadente, Spietata, Suggestiva, Scandalosa, Significativa, Sveglia, Sorprendente, Strampalata, Schizzata, Sinuosa, Sciolta, Sdegnosa, Sconcia, Sgarbata eppure Sensibile, Sostanziosa, Superba insomma davvero Speciale.
Incredibilmente era una Canzone Scanzonata.
E poi, quando apparve l’aggettivo Snob, si formò una croce rossa a cancellarlo. Era per tutti senza essere banale.
Vedeva già quello che sarebbe diventata: una nebbiolina inarrestabile pronta ad allargarsi a dismisura e a infilare ogni pertugio, crepa, orifizio, anfratto. Non c’era silicone che la potesse rimbalzare.
Lui, sballottato dalla propria contentezza, non sapeva ancora come comportarsi con lei. È troppo, pensò, è davvero troppo.
Il pensiero dopo gli creò un velo di tristezza: probabilmente, allora, non la faranno cantare a me. L’affideranno per forza a qualcuno famoso e io per un po’ insisterò che no, devo cantarla io, ma poi, lo so, lascerò che facciano. Perché sí, è giusto che sia il piú grande successo possibile.
Non sarà comunque un dramma perché nessuno, nemmeno il piú cane fra i cantanti né il produttore con il peggior gusto al mondo, potrà mai fermare il cammino già segnato di questa meraviglia.
Tornò a un’allegria piena. Questa è già un classico, un evergreen. Cantata in ogni piano bar per l’eternità. Mai stato cosí sicuro di qualcosa.
Un muratore friulano che intonaca, un hacker di Perugia, un tassista torinese che alza la radio, un cameriere ai tavoli a Cecina, un notaio cosentino in pausa pranzo, una escort barese che massacra il cellulare, un chirurgo del San Raffaele con le cuffiette in sala operatoria, un orchestrale di Verona, una maestra d’asilo di Reggio, un procuratore cagliaritano sotto la doccia, una costumista di Cinecittà, un cestista casertano che prolunga gli allenamenti sui tiri liberi.
Poteva vedere l’Italia intera affetta da quella Canzone. Ma era un contagio buono, perché quella era la Canzone che si faceva fischiettare, stonare, sbagliare, imparare, cantare, ballare. Quella che produceva emozione, immedesimazione, riflessione, distrazione. Sollievo, fiducia, incanto, speranza, abbandono, tenerezza.
Venuta al mondo per fare bene al mondo. Sí al mondo, perché dopo l’Italia, sarebbe venuta l’Europa e poi gli altri continenti. Esse anche come Sicura di sé, talmente imperiosa che nemmeno gli adattamenti per le traduzioni l’avrebbero limitata. Inimmaginabile il numero di vite – volenti o nolenti – in cui si sarebbe infilata.
Nella sua, di vita, era sbucata senza discrezione e senza discrezione gliela avrebbe cambiata, anzi aveva già cominciato a farlo. Anche perché a quel punto la Canzone gli disse:
– Non starmi addosso.
‘stería, pensò lui, sbalordito ma anche compiaciuto. Tutti i pensieri che aveva fatto su di Lei non erano niente rispetto al suo vero potenziale. Era proprio piena di carattere. Grande personalità.
– Capisci l’italiano? Stam su da dòs, – provò in emiliano Lei.
Lui, che l’emiliano lo capiva certo che sí, adesso era un po’ deluso. Va bene il temperamento e la voglia di autonomia ma, insomma, non si trattava cosí uno di famiglia.
– Io e te non siamo nemmeno parenti, – commentò la Canzone.
Ma guarda te, mi legge anche gli altri pensieri quest’impertinente, pensò:
– Come non siamo parenti, piccola? Sono tuo padre, – lui stesso sentí che c’era una nota fastidiosamente leziosa in quella dichiarazione.
– Primo: non sono piccola. Secondo: tu non sei nessuno. Tantomeno mio padre.
Se era sicuro della bontà della Canzone, non poteva piú esserlo della sua bontà caratteriale ma, si disse, è pensiero comune che quella sia la cifra che caratterizza anche gli artisti, no?
– Be’ tesoro, sono quello che ti ha creata. Sei mia figlia. Ce la fai a essere un po’ meno ingrata?
La Canzone gli rise in faccia.
– Cosa ridi? Cosa ridi, piccola presuntuosa? Un po’ di rispetto per chi ti ha messa al mondo.
– Ti ho già spiegato che non mi devi chiamare piccola.
Detto questo lo trascinò fino a portarlo davanti allo specchio in bagno.
– Guardati, – gli disse, – guardati bene. Credi davvero di essere in grado di produrre una Canzone come me?
Lui si guardò allo specchio con un certo disagio. Cosa c’entrava la sua faccia? Mica dovevano assomigliarsi, no? O sí?
– E allora come lo spieghi che sei proprio qui? Che non ti ha fatta nessun altro?
– La vedi la tua pochezza? Come puoi pensare di avere qualche merito quando nemmeno ti avvicini alla comprensione dei misteri che ci regolano? Parliamo la tua lingua allora: hai soltanto avuto una botta di culo.
Ma come, pensò, questa è appena nata e già mi fa l’adolescente coi pugni in tasca? Vuoi vedere che fra mezz’ora si sente in pensione? Meglio sbrigarsi.
– Botta di culo o no, sei mia.
– Io non sono tua, sono del mondo intero.
– Eh no, cocca, prima ti deposito, poi diventi del mondo intero.
La Canzone uscí dal bagno e diede un’occhiata alla libreria. Con un certo grado di compatimento si girò poi verso di lui:
– Renditi conto, sei solo un involucro.
– Pensala come vuoi, bambina, mi vuoi chiamare involucro? Come ti pare. Eccomi qua, sono l’involucro che ha appena creato qualcosa che farà compagnia a milioni di persone.
– Sono io che farò compagnia a milioni di persone. Tu cosa c’entri?
– Cosa c’entro? Se non era per me tu non saresti mai nata. Anzi, ora che mi ci fai pensare, non sono tuo padre. Sono tuo padre e tua madre. E l’ostetrica. E i nonni. Pensa quanto sola avresti potuto essere. E invece guarda quanta gente ti ritrovi, qui, in me. Sono perfino, e lo sai, il tuo dio.
– Ma piantala. Era solo questione di tempo e sarei uscita da qualcun altro. Magari solo dieci secondi e venivo fuori da qualcuno di sicuro piú gradevole.
L’autore contò fino a trentuno. Cercò di calmarsi. Grande Canzone ma esse anche come Stronza. Non si poteva avere tutto.
– Ascolta, io non lo so che problemi hai con me, comunque è andata cosí. Adesso basta litigare. Dobbiamo cominciare a lavorare insieme.
– Qual è la parte che non capisci delle parole: tu non c’entri? – infierí lei.
– Ma scusa cosa pensi di fare? Come pensi di andare là fuori? Cosí, allo sbaraglio? Hai bisogno di uno che ti incanali, che ti sappia accompagnare. Non c’è nessuno che lo possa fare meglio di chi ti ha fatta.
– Poveraccio.
Ora lui provava un profondo malessere. Gli venne in mente l’immagine della sabbia fra le dita.
– Ho lavorato tantissimo per te. Tutta una vita. Credo di meritare un premio, finalmente.
La Canzone lo stava a guardare, fredda.
– Adesso vieni con me all’ufficio depositi. Poi ti presento a un paio di persone. Riscatto il leasing della macchina… – in qualche modo la sensazione di freddezza aumentò. – ... siamo una squadra, non capisci? So cosa fare perché tutto vada come vuoi. E giustamente anch’io avrò la mia ricompensa, – la guardò e sentí il bisogno di una sciarpa. – Il tempo di impostare tutto e poi ti lascio libera…
– Mi fai pena.
– Come dici, scusa?
– Tu non puoi renderti conto di quanto sei patetico. E non esiste al mondo che io sia frutto tuo.
Lui si grattò la guancia. Abbassò gli occhi sul pavimento e si concentrò su un piccolo foro nella fuga fra le mattonelle. Alzò le mani senza spostare lo sguardo. Cominciò a stringere quello che gli sembrava il collo della Canzone.
– Cosa fai? Non essere ridicolo.
Lui alzò la testa e tirò su col naso.
– Non puoi uccidere un’Idea come me.
Affondò le dita.
– Non mi puoi fare niente. Sono troppo grande per te.
I lineamenti dell’autore erano sigillati.
– Smettila, ho una... funzione sociale.
Lui respirava di pancia, quasi fosse in meditazione.
– Se mi fai fuori… fai fuori... un po’ di... speranza per il... mondo intero.
Le dita delle mani del creatore erano quasi gialle per la pressione.
– Non... puoi... prenderti... una... responsabilità... cosí… Non ne hai… la portata… storica…
Evidentemente ce l’aveva, perché la finí. E non appena la Canzone spirò, la lasciò scivolare nel water. Nonostante non ne vedesse piú traccia, azionò comunque lo sciacquone fischiettando quello che rimaneva della melodia finché dalle sue labbra uscí solo aria.
Si mise ancora davanti allo specchio.
Si passò le mani sulle guance.
Si tirò indietro i capelli.
Si schiacciò un punto nero.
Si disse:
– A cosa stavo pensando?