Errori nella formulazione del desiderio
È una soglia, solo una soglia, si diceva, felice di ritrovarsi cosí emozionato, e intanto rimirava il pavimento in legno rigato, lercio, chissà quanto vissuto, appena di là, oltre l’ingresso della bottega. Il mondo nuovo. Teneva il giubbotto rialzato sulla testa per non lavarsela del tutto sotto la pioggia scrosciante. La porta di fronte a lui era aperta nonostante l’acquazzone. Alzò la faccia al cielo per farsela lavare. Poi, quando si sentí pronto, fece quel passo caricandolo di un significato quasi insostenibile.
Una volta di là poggiò bene il peso sulle due gambe, un saltello indietro e varcò l’entrata di nuovo e ancora fuori e dentro un altro paio di volte. Non stava rimbalzando su barriere invisibili e non era finito in un’altra dimensione. O quantomeno non se n’era accorto. Cominciò a entrare e uscire saltellando su una gamba sola. Qualsiasi cosa lo avesse trattenuto per tutto quel tempo dal trovarsi lí, ora era sparita. Un saltello di qua, un saltello di là. Quando rialzò la testa trovò il commesso a osservarlo con la mascella afflosciata.
– Ti piace giocare a «settimana»? – gli aveva chiesto quello, passando dritto al «tu», mentre pensava eccolo qua un altro dei miei fuori di testa del mattino.
Il cliente prese coscienza di ciò che lo circondava: il bancone in metallo su cui riparavano gli strumenti, i poster di Satriani, Vai, Malmsteen e altri chitarristi supertecnici, la scaffalatura che strabordava di spartiti, manuali e metodi e soprattutto bassi e chitarre che sulle pareti occupavano l’impossibile e sui treppiedi creavano una selva bucata solo da un passaggio striminzito. Pensò che, anche se in quel momento l’unico cliente era lui, in quel negozio non avevano paura di fare troppo magazzino. La scarsa illuminazione lasciava comunque presagire una sporcizia necessaria.
– Vorrei una chitarra, – disse con un po’ di fiatone e quasi urlando come se non volesse permettersi nessun tipo di ripensamento.
Il ragazzo aveva una decina d’anni meno di lui. Unto e smunto, sembrava lavorarci malvolentieri in quel posto. Lo stava controllando con le braccia conserte come il buttafuori che riconosce sempre prima le grane in arrivo:
– Di che tipo?
– Elettrica, – ancora con una certa eccitazione.
– Di che tipo? – ripeté il commesso sbuffando.
– Usata.
– Sí ma, di che tipo? – sembrava ci tenesse a fargli pesare la sua indubbia ignoranza.
Il cliente ebbe l’impulso di andarsene; ora che aveva finalmente rotto l’incantesimo, avrebbe trovato altri negozi e altri commessi piú gentili. Poi però si disse che no, quelli erano proprio il giorno e il posto.
– Cosa ne dici di farmene vedere qualcuna?
Il ragazzo, sicuro che quello non avrebbe mai comprato, segnò stancamente con la testa di seguirlo nella stanza dell’usato e, appena lí, si concentrò su un puzzle nel telefono. L’aspirante chitarrista, il respiro accelerato, panoramicò con lo sguardo piú volte.
– Visto qualcosa? – il commesso era già sarcastico.
– Posso dare un’occhiata da solo?
– Non si può, è una regola del negozio.
– Mi dispiace per te, allora, – gli disse con evidente soddisfazione quasi non avesse aspettato altro che quella risposta. Si sfregò le mani facendogli capire che sarebbe stata una cosa molto molto lunga, poi si avvicinò a ogni chitarra contemplando – quando non sfiorando con le dita – minuziosamente ogni dettaglio. Manico, paletta, pick up, ponte, meccaniche. Il cartellino col prezzo. Alle sue spalle il commesso, seduto su un vecchio orange, ogni due minuti si schiariva inutilmente la gola. Le chitarre di seconda mano erano una dozzina, ognuna diversa per marca e forma dalle altre. Le controllò tutte un paio di volte. Poi ricominciò.
– Sono sempre quelle, eh, non è che cambiano se rifai il giro.
Lui, compiaciuto e divertito, continuò il proprio lento pattugliamento avvicinandosi a ognuna come ad annusarla. A un certo punto si fermò davanti a quella giallo paglia col battipenna nero. Una gibson sonex custom. Sapeva che era la chitarra piú economica mai prodotta da quella casa e, certo, trovarla lí solo due o tre anni dopo che quel modello era stato lanciato non sembrava un buon segno ma si trattava pur sempre di una gibson. Il cartellino diceva trecentomila lire. Un quarto del mio stipendio per la mia prima chitarra, pensò.
– Nelle trecentomila è compresa anche la custodia?
– E una tracolla, e una muta di corde.
– La prendo.
Il commesso cambiò espressione. Quel tipo sceso da un ufo cominciava a meritare rispetto.
– Come, non la provi nemmeno?
– Va bene cosí.
Non ti do la soddisfazione di farti vedere che non so cavarci fuori quasi niente, pensò. E nemmeno quella di tirare sul prezzo.
– E con l’ampli sei già a posto? – gli chiese il ragazzo con evidente nuova considerazione.
– Sí, – mentí lui.
Una volta a casa, estrasse la chitarra dalla custodia e la posò sul tavolo in cucina, poi si sedette di fronte a controllarla meticolosamente. Il manico era storto – al negozio proprio non avevano fatto alcuna manutenzione – ma i graffi erano pochissimi e si vedevano appena e solo da vicino; chi l’aveva comprata prima di lui l’aveva usata molto poco, qualsiasi cosa volesse dire. Le corde, comunque, erano arrugginite e andavano cambiate. Non sapeva se ne sarebbe stato capace ma decise di godersi l’operazione. Con molta calma girò le meccaniche una a una per liberare ogni corda dalla paletta, le tolse dall’incastro nel ponte. Prima soffiò via la polvere, poi con uno straccio cominciò a lucidare. Sfregò con molta cura la paletta, pulí con attenzione il punto in cui c’era il marchio. Passò al manico e tolse da ogni tasto qualunque rimasuglio di materia appiccicaticcia.
Fu mentre strofinava il ponte che, proprio da quello, cominciò a uscire una nebbia azzurrina. Spaventato, si tirò indietro di scatto lasciando cadere lo straccio. Il vapore continuava a salire come a comporre una forma luminosa. Lui si coprí il naso con le mani per impedirsi di inalare, poi si lanciò verso la finestra e la spalancò. La nebbiolina non solo non veniva risucchiata, ma sembrava prendere la compattezza di un ectoplasma. Sotto i suoi occhi sbalorditi si formò la figura di Bobby Solo. Braccia conserte, austero, celestino, luccicante. Rimase a guardarlo per un po’ ma Bobby Solo non faceva altro che restituire lo sguardo. Dall’alto in basso. Poi, mentre deglutiva, gli chiese:
– Scusa, ma tu sei tu?
– No, sono pippobaudo, – rispose l’ectoplasma.
Parla, pensò, questo parla.
– Ma… mi stai dicendo che sei il genio della lampada?
– Ti sembra una lampada quella?
– Va be’, allora sei il genio della chitarra.
– A quanto pare sei un genio anche tu.
Continuava a guardarsi attorno in cerca di qualche altro segnale che gli rivelasse in quale universo parallelo si trovava, ma era proprio di fronte a una versione caustica e rilucente di Bobby Solo.
– Bobby… sei fighissimo.
– Ti dispiace molto se non ti restituisco il complimento?
– E, scusa, come mai avrebbero mandato te?
– Perché gli americani li fa Elvis, io faccio gli italiani, – disse con una certa rassegnazione. – E oltretutto ogni tanto mi danno anche quelli di una certa età, – ora sembrava di puro compatimento lo sguardo con cui lo indicava.
– Ehiehiehi, ho poi trent’anni, eh!
– Se ti sembrano pochi per uno che si compra la sua prima chitarra…
– Non ti preoccupare per la mia età. Piuttosto, a proposito di chitarra, questa allora era tua?
– Secondo te io suono i modelli economici della gibson?
– Ah, va be’, scusa se te l’ho chiesto. Allora: devo pensare che ho dei desideri da poter esprimere, Bobby?
– Dei desideri? Ne hai uno solo e ti va già grassa. E non chiamarmi Bobby con quell’aria da furbetto.
– Ma posso davvero chiedere qualunque cosa?
– Purtroppo sí, – il genio della chitarra sembrava pensare che erano sempre peggio quelli con cui capitava.
Il chitarrista cominciò a frugare nella propria testa ma improvvisamente passò dall’euforia all’ansia:
– Aspetta, però: un desiderio? Uno solo? Ma come faccio a sceglierne uno? Quanto tempo ho?
– Ecco, questa è la domanda che fa scattare il tempo a disposizione. Hai due minuti… – rispose Bobby Solo. – ... a partire da ora, – e cliccò il cronometro dal suo orologio marcato graceland.
Non posso sbagliare, non posso sbagliare continuava a pensare il neo musicista sempre piú nel panico. L’ectoplasma, in un’evidente azione di disturbo, cominciò a canticchiare alcuni pezzi dal suo repertorio.
– Da una lacrima sul viso ho capito molte cose…
Uno solo, un desiderio solo, questo è sadismo bello e buono.
– Non c’è piú niente da fare ma è stato bello sognare… Un minuto e trenta.
Ecco, già passati trenta secondi. Niente panico, tranquillo, cerca di stare sereno. Stai serenooo.
– Prendi questa mano…
Questa la cantava anche la Zanicchi. Ma a cosa penso, a cosa penso?
– … zingara, dimmi pure che destino avrò… Un minuto.
– Lo fai apposta. Dài, dillo che fai apposta, – gli urlò rabbioso.
All’ectoplasma scappò il suo primo mezzo sorriso. Poi proseguí:
– Se piangi amore…
Il chitarrista si ritrovò a canticchiare: io piango con te…
– … se ridi amore io rido con te… Trenta secondi.
Non ce la faccio. Ce la devo fare. Non ce la faccio. Ce la devo…
– Dieci secondi…
Cosa voglio? Che cosa voglio?
– Cinque, quattro, tre…
Non ci credo, non è possibile che mi stia succedendo.
– Due, uno…
– IL MIO DESIDERIO È LA REPLICA DEL DESIDERIO, – urlò il chitarrista.
Bobby Solo si dimostrò prima sorpreso e poi contrariato. Lo fissò accigliato per un po’ poi, aspro, disse:
– Devo controllare.
– Ma come? Hai detto che valeva qualsiasi richiesta.
– Dico che devo controllare. Dalla tasca interna della sua giacca azzurrina estrasse un paio di occhiali dalla montatura ancora piú luccicante di lui e li inforcò. Quindi tirò fuori un tomo dello spessore di una trentina di centimetri e cominciò a sfogliarlo. Il chitarrista lesse sulla copertina Regolamento dei desideri.
– Posso guardare anch’io?
– Cosa c’è, non ti fidi?
L’apprendista arricciò le labbra come a dire: mica tanto. Il genio della chitarra, allora, alzò gli occhi al cielo, posò il volume sul tavolo e si sedette mentre l’altro gli si accostava. Cominciarono a cercare sotto la erre.
– Ti posso abbracciare? – chiese.
– Non t’azzardare nemmeno a pensarlo, – Bobby Solo con l’indice seguiva le righe sul libro. – Ecco qua: Replica del desiderio. È possibile per una volta solamente. Il tempo a disposizione viene dimezzato. La replica del desiderio implica una restrizione nel campo dei desideri. Sono esclusi spostamenti nello spazio e nel tempo.
Spostamenti nello spazio e nel tempo, pensò il chitarrista. Che scemo, proprio non li avevo considerati.
– È tutto chiaro? – chiese il genio della chitarra mentre toglieva gli occhiali con fare da notaio. – Una sola possibilità, non puoi piú fare il furbo. E soltanto un minuto, ok?
Fece di sí con la testa.
– E se chiedi qualcosa che ha a che fare con spostamenti nello spazio e nel tempo perdi il diritto al tuo desiderio.
– Ma questo il regolamento non lo dice.
– Lo dice alla voce Errori nella formulazione del desiderio, – rispose l’ectoplasma sforzandosi di rimanere calmo.
Il chitarrista lo guardava perplesso.
– Posso vedere?
Bobby Solo sbuffò, rimise gli occhiali e ricominciò a sfogliare. L’altro riprese allegramente la posizione di prima. Una volta dimostrata l’esattezza della sua tesi, il genio della chitarra disse:
– Visto?
– Sei proprio bravo, – dichiarò l’altro tutto soddisfatto per avere guadagnato piú tempo possibile.
– Ora però basta, hai un minuto a partire da… – e ancora una volta fece partire il suo orologio, – … adesso.
I primi trenta secondi passarono nel silenzio piú totale. Il chitarrista guardava verso il soffitto e Bobby Solo non alzava lo sguardo dal movimento della lancetta.
– Trenta secondi, – annunciò con un certo distacco.
Non c’era piú ansia nello sguardo dell’altro.
– Quindici… – lo sguardo fisso sull’orologio.
– … dieci, nove, otto…
Ora si guardavano negli occhi.
– … cinque, quattro…
Il chitarrista si allargò in un sorriso ampio.
– … due, uno…
– Voglio che i miei cari vivano felicemente e a lungo.
Bobby Solo si mise le mani in faccia. Le fece scivolare piano giú.
– Devo controllare.
– Ma come, qua non c’entrano gli spostamenti nello spazio e nel tempo e per il resto hai detto che posso scegliere qualsiasi cosa, no?
– Sí ma hai espresso due desideri.
– Perché, scusa?
– Hai chiesto che i tuoi cari vivano felicemente e a lungo. Che vivano felicemente è un desiderio. A lungo è un altro.
– E mi fate i pignoli davanti a una cosa del genere?
– Ma a me sempre questi qui mi devono capitare? – disse il genio con gli occhi rivolti al cielo. Poi riprese occhiali e regolamento e controllò.
– È come ti avevo detto. Scegli o felicemente o a lungo.
– Scelgo felicemente. Che i miei cari vivano felicemente.
– Sei sicuro? Posso procedere? – chiese sfinito.
– Procedi.
Bobby Solo chiuse gli occhi e congiunse le mani in un respiro profondo. Poi fece alcuni movimenti di tai chi che a un certo punto sfociarono in mosse di kung fu. Quindi si fermò e riaprí gli occhi.
– Ecco fatto, – disse.
– Ti ringrazio molto –. Il chitarrista fece un inchino. Il genio cominciò a rientrare nel ponte della chitarra. Il rumore sembrava quello della ventola di raffreddamento di un’utilitaria. Quando fu dentro fino alle ginocchia gli disse:
– Lo vedi che sei uno sfigato?
Il chitarrista lo guardò piú divertito che offeso.
– Tu pensa se fosse venuto Elvis... Ma come, ti sei appena preso la tua prima chitarra elettrica, c’hai trent’anni e non chiedi, come desiderio, di diventare una rockstar?
– Hai ragione, Bobby, sono proprio uno sfigato.
Fece un cenno di saluto al genio che rientrò del tutto da dove era uscito. Ora si sentí come il risucchio di un lavandino.
Il chitarrista prese in mano la gibson, la scosse e la rovesciò, sfregò ancora il ponte ma non uscí piú niente.
– Bobby! Bobby! – urlò. – Ho dimenticato una cosa… Bobby… ci sei?
Risultò fin troppo contento di non ricevere alcuna risposta e fu in quel momento, quando capí di essere sicuramente solo, che si fiondò sul telefono in salotto. Per la fretta sbagliò tre volte a formulare il numero.
– Ohi, Mauro, come stai? Sempre messo cosí? Senti, scusa scusa scusa, dopo mi dici tutto, ma prima ho bisogno di sapere una cosa: ti ricordi che mi dicevi del negozio di chitarre usate piú grande al mondo? Quello di San Francisco? Mi dicevi che c’è lo stanzino in cui uno le può provare da solo, no? È vero che non ti cacciano neanche se le provi tutte? Ce n’è uno bello anche a Memphis, vero? Ecco, dobbiamo vederci, perché mi devi raccontare tutto quello che sai. Ma tutto, eh? Hai tempo adesso? Subito. Subito.