Festival
C’è questa rampa con una dozzina di gradini bucati dalle erbacce. Poi il cancello e, oltre quello, altri scalini. Il cimitero di Ricaldone è lí, in alto. Piccolo, tenuto bene. Cento metri a sinistra, altra piccola rampa – stavolta a scendere – e poi la nicchia che stai cercando. Chi, come te, fosse venuto da fuori, sarebbe senz’altro andato dritto verso la stessa lapide a cui, ora, stai di fronte.
L’iscrizione dice: Luigi Tenco n. 21-3-1938 m. 27-1-1967. Nient’altro. Ora che fai caso alla data di morte ti ritrovi a pensare che a quell’epoca il festival, dunque, lo facevano a gennaio.
Sei stato al Père-Lachaise e sulla tomba di Jim Morrison ci hai trovato lattine di birra, vasetti di piante grasse, cumuli di lettere, pipette per il fumo, mutandine, bottiglie di assenzio e mignon di grappa friulana, baci lasciati col rossetto, siringhe usate e nuove, scritte fatte con lo spray. Ora, a quanto sai, l’hanno transennata.
Qui ci sono fiori freschi, forse fin troppo colorati. Alcuni di campo. La statuetta di un angelo e un paio di fogli che raccontano l’amore di qualcuno. C’è una catena ad altezza stinchi che chiunque potrebbe superare senza sforzo, però sembra che nessuno lo faccia. Sarà la sensibilità dei visitatori oppure la soggezione che quella figura mette anche da morto?, ti chiedi. Cosa c’entra, pensi, Luigi Tenco con tutto quest’ordine? Con le aiuole rasate, i vialetti curati. Cosa c’entra con questo silenzio cosí discreto?
Le tesi, le interpretazioni. Non è stato un suicidio, qualcuno dice. Una roulette russa. Un colpo partito per sbaglio a un amico. Comunque sia andata, cosa c’entra lui con quei lenti scricchiolii sulla ghiaia di due tre anime in punta di piedi? Nella tomba di fianco giace la madre, sepolta con il nome da nubile: Teresa Zoccola. Chissà che effetto hanno avuto tutte quelle facili battute per via di quel cognome che inevitabilmente Tenco ha subíto. A mettere incinta sua madre di lui era stato il figlio sedicenne della famiglia presso cui prestava servizio. Una vita impostata in un certo qual modo, pensi.
Strappi un tarassaco dall’aiuola dietro di te. Ti allunghi oltre la catena, senza scavalcarla, e lo aggiungi al mazzo di fiori di campo. Da quello, poi, estrai un papavero, cerchi di riordinarne i petali e lo posi sulla lapide di Teresa.
– Pronto!!! Eccoti, mannaggia a te. Finalmente hai riacceso il cellulare, è da ieri sera che ti cerco, che fine hai fatto, dove sei?
Il vivavoce in macchina lo tieni sempre con il volume piuttosto alto ma qui va aggiunto il fatto che Samuelli sta urlando.
– Ho fatto un giro. Un paio d’ore e sono lí, – gli rispondi.
– Un paio d’ore? Come un paio d’ore? Ma dove cazzo sei finito? E poi sarai mica da solo, eh? Non dirmi che stai guidando tu.
– Va bene, non te lo dico.
Non gli dici nemmeno di avere passato la notte in macchina di fronte a quel cimitero.
– Stai guidando tu, non ci posso credere. Ma cos’ho fatto io di male al mondo? Si può sapere perché gli schiodati toccano tutti a me?
– Perché, scusa, chi ci doveva essere con me?
– Ma un bodyguard, un assistente, un autista, qualche boia d’un boia…
– E cosa ne so io? Mi hai mai messo qualcuno di fianco?
– Ecco, bravo, rinfaccia. Con tutto quello che ho fatto per te negli anni.
Scuoti la testa, sorridi. Tieni il gomito fuori dal finestrino anche se quella temperatura potrebbe farti qualche scherzo alla gola.
– Senti, a chi è piú ingenuo o piú furbo ci giochiamo un’altra volta. Faccio il manager da fin troppi anni e se ti dico che adesso non abbiamo tempo, non abbiamo tempo, capito? Sai meglio di me che ieri sera ha cambiato tutto. Secondo te mi metto a prenderti per il culo? Ho già pronto il rinnovo del contratto e, credimi, godrai a leggere le condizioni che ci ho messo. Perché so benissimo che quello che è giusto è giusto.
– Ho capito, ma ti dico che sto arrivando.
– Sí… fra due ore e casomai mi fai un frontale proprio adesso.
– Ehiehiehi…
– Ti dico solo questo: il nostro ufficio stampa è stato praticamente braccato, noi abbiamo alzato l’asta e sai cosa c’è? C’è che il piú grande quotidiano che tu conosca vuole farti tre interviste: con una ti danno la copertina delle pagine degli spettacoli, con l’altra un servizio di due pagine nel loro magazine, con la terza l’articolo d’apertura sul loro portale. Ti sembra poco per uno dei «giovani» di sanremo?
Incredibile, pensi, è davvero incredibile quanto siano tutti fuori di testa.
– No, poco non è. Noto però che continui a sottolineare il termine «giovane» quando mi riguarda.
– Perché ti vorrei ricordare che se non c’ero io col cazzo che mettevano al festival, nella categoria «giovani», uno che ha trentadue anni e che ci prova da… quant’è? Undici? Comunque vuoi che non ti chiami «giovane»? Tu adesso, da bravo, fai quello che ti dico e poi vedrai che ti chiamo come vuoi. Mi fai un post-it, ci scrivi sopra l’aggettivo che preferisci e io me lo attacco in ufficio, cosí me ne ricordo tutto il giorno e giuro che ti chiamo cosí, ok? Adesso potresti andare un po’ piú forte senza comunque schiantarti?
Ti si forma l’immagine di Samuelli in questo momento: paonazzo, il rossore attorno all’attaccatura dei capelli a metà testa, le manine tozze che rifrullano. Ridi.
– Ci sono i tg, capisci? Sono qui in albergo ad aspettarti. A proposito ti ho cambiato hotel. Adesso siamo al De Paris.
– Adesso siamo…? Tu al De Paris c’eri già.
– Ti ho detto di non tormentarmi che non ho tempo io e non hai tempo neanche tu. Facciamo cosí: la settimana prossima organizziamo, ci vediamo, io sto lí fermo immobile mentre tu mi infami con calma per un giorno intero, può andare? Muoviti, vedi di arrivare presto e intero e, soprattutto, chiamami quando sei a un paio di chilometri da Sanremo che ti vengo a prendere. Nel frattempo non parlare con nessuno, non rispondere a nessuno, non fermarti con nessuno. Credi di potermi dare retta una porca volta?
– Un tentativo posso farlo.
– Per stasera hai deciso?
– Ancora no.
– E poi dicono che i manager si fanno troppa coca. Mi volete morto? Prego. Almeno un colpo secco, però.
– Sto per oltrepassare il cartello «Liguria» in questo momento.
Il tuo manager chiude la comunicazione a metà di una lunga bestemmia articolata.
Le chiamate perse sul tuo telefono sono davvero tante. Per curiosità componi il primo dei numeri sconosciuti che ti hanno cercato.
– Pronto. Grazie per avermi richiamato. Fammi dire che è davvero un enorme piacere conoscerti, – è una voce profonda. Chi ti ha risposto è uno attento a scandire le parole.
– Grazie, chi sei?
– Sono Jacone. Piacere di nuovo.
Sei abbastanza fuori dal giro ma che Jacone sia il boss di una delle agenzie di spettacolo e management piú importanti lo sai pure tu.
– Oh, piacere. Tu lo sai, vero, che un manager ce l’ho già?
– Ah ah ah! Complimenti sia per la praticità che per la correttezza. Comunque sicuro che lo so; nessuno va a sanremo senza un manager. So anche i termini del contratto che hai con Samuelli. Ti dirò di piú: so anche quelli che sta per proporti.
– Spionaggio e controspionaggio nella città dei fiori.
– No no, niente spie. È solo che il mio mestiere, dopo un po’ che lo fai, è abbastanza prevedibile.
– Comunque dimmi pure, Jacone. Perché mi hai cercato?
– Perché, che tu ci creda o no, nonostante in questo ambiente le abbia viste tutte – e con tutte intendo davvero tutte – sono rimasto a bocca aperta per quello che hai fatto ieri sera. Sono, posso dirlo?, un fan. E adesso, dimmi te, sono qui e rappresento sei artisti che si devono esibire stasera, ho una montagna di cose da sbrigare eppure non riesco a non pensare a quello che farai o non farai. Sono letteralmente lacerato dalla curiosità e anche se so che non sono fatti miei e sono sicuro che non risponderai, te lo devo proprio chiedere: che cosa hai deciso per stasera?
Per qualche motivo ti sembra che quella richiesta sia sincera. Magari sei di un’ingenuità imbarazzante.
– Non ho ancora deciso niente, – gli rispondi.
– Va be’, sapevo che non avresti risposto ma ci dovevo comunque provare. Però ti dico una cosa: da quello che sento sei in macchina ma mi arrivano anche rumori esterni il che significa che stai guidando con il finestrino abbassato. Quindi non t’interessa mettere a repentaglio la voce per stasera. Quindi…
– Quindi pensa quello che vuoi, – ora gli hai risposto secco.
– Ok, scusa. Permettimi solo di aggiungere che la qualità di un manager la si misura anche e soprattutto dall’organizzazione di cui si avvale e dai rapporti che è riuscito a crearsi con tutti i media. Samuelli è bravo ma della vecchia guardia. Prima di firmare quel rinnovo lascia che ti offra un caffè.
Premi il fine chiamata sul volante.
Il tuo agente è lí, di fianco a una macchina della polizia, subito oltre il casello di Sanremo. Non appena ti vede arrivare comincia a sbracciarsi sguaiatamente indicandoti di accostare. Sale sulla tua nissan facendo segno ai due poliziotti di partire e a te di seguirli.
– Hai visto il Samuelli, qui, che cosa è ancora capace di fare? Scorta della polizia per un «giovane». A Sanremo. Nei giorni del festival, quando tutti ne pretendono una. Stagli attaccato, va’.
Quelli davanti attivano la sirena anche se il traffico è ancora scorrevole. Cosí si girano tutti per forza, pensi.
– Con il casino che c’è giú in centro guadagniamo una mezz’ora tutta. Dicano quello che vogliono ma questa città un anno o l’altro scoppia. Mi dici dove sei stato? Il cellulare spento, ti ho fatto chiamare in camera quattro cinque volte e niente. Nessuno ti aveva visto uscire… ho detto ecco, sta’ a vedere eh. Io e il direttore abbiamo bussato alla porta della tua stanza non so quanto che mi dicevo: visto?, andato, questo esplode, diventa un caso musicale e mi ci rimane secco subito il minuto dopo. Poi siamo entrati con l’altra chiave e meno male che non abbiamo trovato il tuo cadavere.
– Be’, grazie per il pensiero. Ho passato la notte fuori.
– Ecco, bravo, qualsiasi cosa pur di farmi schiattare. Insomma dove sei stato? Occhio che quello si infila fra noi e la pula. Guarda, guarda come si girano tutti. Sei una star.
– Macché star e star, si girano perché la sirena fa tutto sto casino. Guardano chi siamo ma non mi riconosce nessuno.
– Non ti riconosce nessuno, e quella lí?
In effetti la morettina che ti sta salutando sembra sapere chi sei.
– Scusa ma nella mia macchina non si fuma.
– Scusa ma adesso ti attacchi che ne ho proprio bisogno, – Samuelli gronda di sudore.
Dà una tirata tale da arrivare quasi subito al filtro. Sulla sua lacoste, dove la pancia straborda, ristagnano macchie di cenere crollata da sigarette mai tolte di bocca per pigrizia.
– E tu che a sanremo non ci volevi venire. Ti rendi conto?
Guidi concentrato cercando di restare incollato alla gazzella. Uno dei due poliziotti si sporge dal finestrino facendo ampi segni con la paletta.
– Lasciatelo dire ancora una volta: la gente non ha tempo. La musica gli fa solletico e non riescono ad accorgersi di quelli nuovi. Bisogna scuoiarsi in diretta o fare esplodere una bomba all’idrogeno. Ma già, proprio a te lo vengo a dire. E adesso... a proposito me lo dici cos’hai deciso?
– Ancora niente.
– Seee, niente. E magari mi dici che quello che hai fatto ieri sera non l’avevi preparato. Hai improvvisato.
– Esatto.
– Sicuro. Ma dimmi, sinceramente: ho davvero la faccia da pirlotti? Fa’ come ti pare tanto sei piú furbo di me e lo sai da solo che è l’occasione della vita. A proposito: siamo arrivati a diciassette milioni.
– Diciassette milioni di cosa?
– Di visualizzazioni su youtube in meno di ventiquattr’ore. Ho letto un po’ di commenti, usano spesso la parola «genio».
– Però all’Ariston fischiavano.
– Due gatti. Gli altri non sapevano come reagire. Nelle case un trionfo, uno dei picchi auditel di ieri sera.
In centro il traffico è bloccato, ti ritrovi a fare manovre spericolate sotto gli occhi di tutti.
– La tua roba te l’ho già fatta mettere in camera al De Paris. Arriviamo e facciamo subito i tg, dopodiché le altre interviste. La ragazza per il make-up ti aspetta in stanza.
Attraversate spediti la hall dell’albergo. Samuelli ti tiene per il braccio e ti spinge verso l’ascensore mentre scaccia le telecamere e i microfoni che si sono immediatamente accesi al vostro arrivo. Dopo, dopo, gli dice. Una volta entrato in stanza, chiedi alla truccatrice di aspettare giú al bar che vuoi farti una doccia veloce e la farai chiamare appena pronto.
Ti guardi intorno, c’è una certa differenza fra questa suite e la camera della pensione in cui alloggiavi. Ti lasci cadere sulla poltrona. Guardi fra gli sms e leggi quello di Eleonora: chissà cosa farai stasera… lo sai in che cosa spero io, vero? sono orgogliosa di te e… anche un po’ gelosa, ti avverto. Le rispondi dicendole che avresti voluto averla lí in quel momento poi spegni il telefono. Con il fisso chiami la reception chiedendo che non ti passino nessuna telefonata, men che meno del signor Samuelli.
Imbracci la chitarra distrattamente. Poi, per qualche motivo, ti ritrovi a guardarla con occhi nuovi e mentre lo fai realizzi per la prima volta che non c’è niente al mondo – cosa o persona – che tu abbia toccato piú di quella. Niente con cui tu sia stato a contatto cosí a lungo. Pensi a quante volte hai provato a raccontare a qualcuno di come, dopo pochi giorni di separazione, senti il bisogno fisico di quel legno, delle vibrazioni della sua cassa armonica sul tuo stomaco. E ogni volta ti dicevano: ah sí?, già annoiati oppure convinti che fosse tutta una posa. Quante volte le avrai cambiato le corde? Quante volte l’avrai pulita con lo stesso straccio, nello stesso ordine, con la stessa energia? Quante volte l’avrai capovolta scuotendola e sperando che dal buco uscisse – oltre a un plettro caduto dentro – la risposta a qualcuno dei suoi misteri? O almeno un ritornello.
La canzone. Accenni ancora una volta la canzone rimasta lí per otto anni. È l’unica tra le tue che ha una storia cosí, tutte le altre, e sono tante, le hai scritte in meno di un’ora ognuna. Invece a quella hai messo mano non ricordi piú quanto per averla finalmente non come vorresti – quello no – ma almeno il piú vicino possibile. Tu, la tua canzone e sanremo. Sarebbe diventata la tua canzone di sanremo.
Ti colleghi a internet. Cerchi la tua performance in rete. 17 742 328 visualizzazioni. I commenti ti fanno stare bene. Fai partire la riproduzione. Ti guardi da fuori.
Eccoti raggiungere il centro del palco dopo l’annuncio del tuo pezzo e poi del tuo nome. Applausi di circostanza. Noti come sei a disagio, continui a grattarti la guancia. Allarghi a sproporzione le narici. Scambi uno sguardo d’intesa con Forghieri, il produttore della canzone, che ora sta per dirigere l’orchestra. Nella ripresa non si vede ma ricordi che ti ha strizzato l’occhio per farti coraggio. Di fianco a te e alle tue spalle il tuo gruppo; sono nervosi anche loro. Dopo anni in cui avete condiviso tantissimo – in buona parte frustrazioni, miserie e assenza di pubblico – di colpo vi trovate di fronte a dieci quindici milioni di persone. Che è poi il motivo per cui ti sei sempre opposto a sanremo.
Voglio che sia tutto naturale, dicevi, che venga quello che deve venire, non voglio forzare. Ci dobbiamo esibire per chi dimostra già una sintonia con noi e non pescare nel grosso. E adesso? Cosa pensi per davvero adesso? Ritorni con la memoria a quel momento e rivedi, di fronte a te, in un teatro che la televisione aveva restituito sempre molto piú grande che nella realtà, alcune file di pinguini che sembravano timbrare il cartellino di presenza per tutto tranne che per la musica.
Riprendi a guardare le immagini. L’intro musicale vede insieme una chitarra elettrica, le viole e gli ottoni. Tu continui a grattarti, ora la nuca, ora il collo, ora il sopracciglio destro. Ecco, è il momento di cantare. Apri la bocca ma non emetti suono. Ora che ti rivedi riesci a mettere a fuoco ancora meglio quanto quella cosa sia nata da sé. Non ti eri dimenticato il testo – d’altronde lí c’erano gobbi dappertutto –, non ti era andata via la voce, non era panico da palcoscenico. Ti scappa da ridere, ora, a rivedere come Forghieri ti fissi con gli occhi sbarrati. Gli fai cenno di andare avanti. Ora guardi dritto in camera e chiudi lentamente la bocca mentre gruppo e orchestra continuano a suonare. Si sentono i primi fischi dalle file in fondo. Incroci le braccia in un gesto che adesso ti sembra teatrale e punti negli occhi chi ti sta guardando a casa.
Ti sorprendi a rivederti cosí naturale in quello che stai facendo. Nessuna parola cantata, nessuna nota emessa. Fra i commenti, hai letto, qualcuno lo troverà uno sguardo di sfida, qualcun altro di complicità. Qualcun altro ancora riuscirà a leggerci il significato del testo della canzone. Il chitarrista ti si avvicina e ti guarda in faccia. Dopo aver visto che non stai male, fa un gesto d’esultanza. Gli sorridi e riprendi a guardare in camera. Ricordi che con la coda dell’occhio avevi visto il presentatore entrare in scena per interrompere e il direttore palco che lo bloccava prendendogli un braccio e lo trascinava fuori. Ora accenni un sorriso verso chi ti sta guardando nella propria televisione o in qualche tablet o cellulare.
I fischi in sala aumentano proprio mentre parte il ritornello che nessuno sta cantando. Anche la regia televisiva sembra un po’ in confusione, combattuta fra le inquadrature preparate e quello che ora non può farsi sfuggire. L’operatore steadycam si piazza di fianco a te per cercare di cogliere qualcosa nel tuo profilo. Stanno saltando tutti gli schemi e finiscono inquadrati – a sprazzi, lievi sporcature – anche i lati palco. Sullo sfondo si intravede per un attimo Samuelli, la mano sulla fronte. Fra i musicisti dell’orchestra qualcuno mostra disappunto nel ritrovarsi complice di una pagliacciata, qualcun altro cerca di coprire il proprio sghignazzo. La prima canzone non cantata di sanremo si avvia verso la conclusione e ora ti sembra che il tuo sguardo in macchina esibisca la tua fragilità. Qualche buuu anche dalle prime file. Gruppo e orchestra sembrano accelerare l’esecuzione fino ad arrivare all’accordo finale che esce piú troncato che sottolineato. Ora abbassi la testa. Fischi e insulti prevalgono sui pochi applausi. Il presentatore si fionda dentro a cercare di girare rapidamente pagina. Il video su youtube interrotto bruscamente a metà del suo intervento. Le visualizzazioni, dopo quattro minuti, sono già quasi duecentomila di piú.
Scendi con l’ascensore al primo piano, esci sul pianerottolo e da lí chiami Samuelli. Gli dici di salire in stanza con la truccatrice che, mentre lei ti prepara, tu e lui concordate cosa dire alla stampa. Quando vedi dal display che l’ascensore si è fermato al quarto piano, immagini che siano loro due e allora scendi di corsa le scale, ti muovi come un’anguilla nella bagarre della hall e sgusci in strada. Non ti riconosce nessuno, ecco la realtà. E allora giri, ti mescoli fra passanti, fan, addetti ai lavori, tecnici, occasionali. Qualunque sia il motivo per cui tutta quella gente è a Sanremo, l’energia ti sembra allo stato solido.
Ti fermi in un baretto stipato ma con un tavolino vuoto che dà proprio sulla strada. Per radio uno speaker sta dicendo: secondo me stasera la canta, voi cosa ne dite? Quasi nello stesso momento dalla tv in angolo, il volume a zero, vedi te stesso nel programma del pomeriggio della rai. La scritta scorrevole recita: il cantante che non cantò. In studio sembra esserci un dibattito su quello che hai – o non hai – fatto e su quello che farai – o non farai – poche ore dopo. Qualcuno, intorno a te, ti sta guardando nello schermo. Non ti vedono a un metro da loro. Rimani lí per un po’, alternando birre a caffè, a fissare dalla vetrina quella fiumana esterna. Riaccendi il telefono solo per un attimo, il tempo di chiedere al tuo chitarrista di raggiungerti nel retro dell’Ariston, con il tuo pass, possibilmente in un quarto d’ora. Trovi dodici chiamate perse del tuo manager.
– Se non l’hai ucciso stavolta, Samuelli non muore piú.
– È proprio imbruttito, eh?
– Dovrà farsela passare. La star sei tu.
– See… dài, dammi il pass.
– Ecco, a proposito… mi fai venire qui a portarti il pass… sei fuori come un pioppo. Secondo te non ti fanno entrare senza?
– Ma non mi riconosce nessuno, guarda, – indichi la folla che, a una ventina di metri, intasa l’ingresso sul retro dell’Ariston. Non uno che ti stia notando. L’amico chitarrista ti allunga un cartoncino plastificato con sopra scritto «Artista».
– Toh va’. Pronto per l’inferno?
– Inferno?
– Stai sui coglioni a tutti là dentro. In modo particolare ai colleghi. I big poi… non ne parliamo. Tutti a parlare di «morte della musica» e dei «nuovi furbi». Quelli che ti hanno difeso puzzavano cosí tanto d’ipocrisia che anche l’Ariston si schifava. I maestri d’orchestra ce li hai metà e metà. Ho sentito di qualche funzionario rai che ti apprezza per via dell’auditel. Ah, e poi c’è coso, quel critico d’arte, come si chiama… dice che piú che una performance, la tua era una vera e propria installazione.
Ti scappa da ridere, scuoti la testa.
– Stasera però canti.
– Boh.
– Ma come boh… È un pezzo bellissimo, il piú bello che hai mai scritto e stasera sono tutti lí a volerlo finalmente sentire.
– Magari resta impantanato fra tutti gli altri.
– Non quel pezzo. Non cantato da te dopo la febbre che c’hanno tutti addosso. Hai dato un’occhiata alle news on line di oggi? Altroché i superospiti. Vogliono tutti te.
– Come va con il soundcheck?
– Come vuoi che vada? Sono tutti lí ad aspettare che tocchi a noi sperando che tu ci sia e che, almeno lí, la canti. Ma tu non vieni, no?
– No.
– La cosa davvero pazzesca, però, è che le radio hanno il pezzo fra le mani, dicono che lo stanno passando tantissimo ma è come se non contasse. Lo devono sentire cantato da te su sto palco. E poi adesso che me lo fai notare è vero: tutti ti vogliono vedere ma questi qui, intorno, non ti vedono.
Fissi il retro dell’Ariston. Ti sembra un fortino davvero fiaccato dall’assalto di arieti mediatici sempre piú famelici e frettolosi. Chissà, magari c’è un tapiro o una iena che stanno cercando anche te, se proprio non hanno trovato niente di meglio. Metti una mano sulla spalla del tuo amico.
– Fammi la cortesia di andare a dire a Samuelli che io arrivo all’ultimo e vado dritto sul palco. Digli che non provi a fermarmi perché – digli proprio cosí, eh – sono un fascio di nervi e se si mette di mezzo salta tutto. Poi, per quello che riguarda voi…
Gli racconti cosa vorresti da loro, lo vedi irrigidirsi, gli sorridi e gli stringi le spalle. Lo ringrazi e ti infili ancora fra i passanti della città dei fiori.
I rami piú alti delle palme che riesci a vedere, là fuori, sono sballottati da un vento fortissimo ma lí, in quel cortile, è tutto fermo. Continui a fissare la scala in metallo che porta lassú. Controlli l’ora sul telefonino. Arriva un altro della sicurezza a chiederti il pass. Glielo mostri. È già il terzo. Ti arriva l’sms del tuo chitarrista che dice vai.
Sali spedito i gradini, entri dalla porticina sul retro e sgusci, fra scale e corridoi, fino a lato palco. Samuelli è nei pressi, bianco come una pezza lavata. Ti nota, ha un sobbalzo. Prova sollievo anche se è furioso. Si vede quanto ti sta odiando. La sta pagando anche fisicamente.
Da ieri mattina non ti lavi né ti sei fatto la barba, i capelli saranno come saranno, indossi gli stessi abiti di ieri con cui hai dormito e trascorso la giornata, al collo sempre il tuo pass con su scritto «Artista». All’annuncio del tuo nome raggiungi la postazione di fronte al microfono.
Rispetto alla sera prima i fischi sono piú sonori, ma anche gli applausi lo sono. Saluti i ragazzi del tuo gruppo. Il tuo chitarrista ti fa un cenno di assenso. Forghieri ti guarda con un’espressione fra lo sconsolato e il divertito. Fai un cenno anche ai musicisti dell’orchestra, alcuni dei quali rispondono al tuo saluto.
Ti giri verso la sala. Rimani in attesa che tutti si zittiscano. Li guardi in faccia uno a uno. Ogni volta che qualcuno rompe il silenzio fermi il count off che sta per partire. Passa un minuto e mezzo cosí. In televisione deve essere un’eternità. Quando sembra il momento che tutto cominci qualcuno ti urla «buffone» raccogliendo qualche risata, qualche applauso e qualche «sshht». Fermi di nuovo tutto. A un certo punto cedono. Nessuno escluso. Vogliono vedere come va a finire. Allora prendi le misure dal microfono e ti posizioni con la bocca a dieci centimetri.
È in quel momento che l’Ariston si apre perfettamente in due. Le due metà si allargano là in fondo fino a formare una struttura ad anfiteatro e a lasciare, di fronte a te, una sezione vuota a fetta di torta. Nessuno dei presenti mostra segni di sorpresa, nessuna distrazione; continuano a fissare te. Il nuovo spazio si presenta uniforme di un grigio cenere piatto. Poi emergono alcune sfumature e una sensazione di profondità comincia a prendere piede. Ora è una nebbia scenografica, come sparata dalle macchine del fumo. Solo tu guardi in quella direzione. Gli sporadici commenti dalla sala hanno ancora te come bersaglio. Dalla caligine comincia a farsi largo un’immagine che ha la forma di una copertina. Subito pensi a quella di Sgt. Pepper’s, poi ti sembra quella di una certa edizione della divina commedia. È un tableau vivant, le figure al suo interno sono in loop, intrappolate nello stesso schema di movimento.
E ora le distingui. E sono tuo padre, tua madre, tua sorella ancora viva, sono Modugno ed Endrigo, Battisti e Mina, sono inferno, purgatorio e paradiso senza distinzione né separazione, sono i due figli che ti nasceranno, Eleonora che viene, sono Bindi, Lauzi e De André, tuo nonno che scatarra sul pavimento in cucina, Mia Martini, la banda del tuo paese, la vicina di casa nave scuola, l’autista che ti investe di striscio, Lucio Dalla, tua nonna che alza l’amplifon alla lettura delle estrazioni del lotto, Enea che hai deluso piú di tutti, la faccia da culo che ti dice di aspettarti all’uscita di scuola, l’anestesista che ti fa il countdown, un coro, Celentano, Gaber e Jannacci, il don dall’aria smarrita, gli altri tuoi nonni vestiti bene su una barchetta sul lago, Giulia e il primo maldestro pompino, Nada Malanima, una giuria, Bonucci che ti consegna un prontuario di accordi e ti dice arrangiati, i ragazzi ancora illesi del tuo primo gruppo protopunk, il pastore tedesco che ti insegue e ti lacera la camicia con un morso, Patrizio e l’epilessia e poi tu nel tuo spaventoso lancio da quella roccia in Gargano e quel movimento che non ti permette mai di toccare acqua ma solo di andare su e giú a elastico in un perenne salto nel vuoto.
Forghieri, con la sua bacchetta, attende un tuo cenno d’intesa. Glielo dai. Allora lui fa partire gruppo e orchestra ma, nonostante ogni musicista mimi di suonare la propria parte, dove doveva esserci musica c’è ancora silenzio. Nessuna nota, da nessuno. Nessuno borbotta, nessuno mugugna, nessuno sembra respirare. Ora finisce l’intro che nessuno ha mai sentito.
Solo pochi minuti, pensi, e l’Italia passerà ad altro.
Gli ampi gesti di ogni musicista a suonare il silenzio. Guardi in camera, fissi negli occhi chiunque se ne stia di là in mondovisione. Sono pronti. Sei pronto. Apri la bocca.