Era ora di uscire, cinque giorni erano cinque giorni.

Coraggio.

Sí però, per esempio: la barba? Non si radeva mai una seconda volta in giornata ma come ci si comportava nelle occasioni speciali? Perché quello era un rientro, no?

Davanti allo specchio teneva gli occhi chiusi. Si stava imponendo che, una volta aperti, avrebbe focalizzato lo sguardo solo e soltanto sulla sezione di volto che riguardava il problema, non un centimetro piú su. Non era facile ma tentò. Segni di ricrescita appena avvertibili. Vagliò tutti i pro e i contro – estetici, economici, interpretativi – del radersi o no a quel punto. Non ne usciva.

Lo sguardo gli scivolò sulla bocca.

Lo stato della lingua racconta il futuro prossimo della nostra salute.

Il futuro prossimo della nostra salute.

La signora Pilar.

Come poteva una donna – o un essere umano in generale – dire cose cosí difficili (che ancora oggi non era sicuro di avere capito) ma anche cosí decisive per il resto dei suoi giorni e nel frattempo fargli piedino sotto il tavolo mentre lui seduto tra mamma e papà veniva dopo poche carezze cercando di non strozzarsi con il boccone di filetto?

Come poteva, sorpresa e divertita, guardare il suo piacere rilasciato trattenuto rilasciato e i suoi occhi diventare lucidi e intanto tenere alta la conversazione, brillante, sempre partecipe, senza alcun cedimento di tono?

Quando era stato, poi, il momento dei saluti e lui sentiva colare, sopra la parte già seccata, dall’inguine giú lungo la coscia destra, aveva la sensazione che lei lo stesse guardando attraverso i vestiti accompagnando quello slittare di fluidi come qualcosa di prezioso.

Sulla soglia di casa la signora Pilar, bella per motivi che non riguardavano i lineamenti, aveva baciato sulle guance i suoi genitori e poi lo aveva salutato con uno sguardo che aveva aumentato la sua confusione e ancora oggi non sapeva cosa volesse dire.

Ventun anni. Erano passati ventun anni da quell’unica visita a casa loro – solo dieci giorni prima, per l’anniversario, aveva spento le ventuno candeline – eppure ancora oggi la signora Pilar sapeva attraversare i muri quando lui si chiudeva in camera. Magica come il suo piede.

Lo stato della lingua racconta il futuro prossimo della nostra salute, dunque.

Qualsiasi cosa significasse, anche questa volta vedeva il labbro superiore tremargli. Pensò a cosa avrebbe potuto trovare sulla lingua, là in fondo: una sfera di cristallo? un vicolo cieco? la sbarra abbassata di un passaggio a livello? una piccola lanterna? Socchiuse appena la bocca e sbirciò senza permettersi di controllare per davvero.

Però, comunque, la barba sí o la barba no?

Accarezzò l’idea di rimanere in casa ma non poteva permettersi di tornare anche su quella decisione: le battute le aveva già preparate. Poi non riuscí piú a resistere e venne meno al suo proposito; sempre allo specchio, millimetro dopo millimetro, spinse lo sguardo piú su verso la testa.

Cercò di prendere forza soffermandosi sul naso: lo sapeva che sul centro della sua faccia poteva sempre contare. Era proprio quello dei Tassoni, aquilino e sottile, indiscutibile eredità somatica della nobiltà familiare. Confortato da quella visione ricominciò la salita.

Un piccolo indugio sulla fronte dispettosamente bassa. E poi, con coraggio, ancora piú su. Deglutí.

Rimase un quarto d’ora di fronte a due paia di calzoni apparentemente identici. Quando infine riuscí a sceglierne uno, continuò per un po’ a osservare gli altri ma ce la fece, per una volta, a vincere la tentazione di indossarli tutti per quel confronto che, come ben sapeva, avrebbe prodotto uno stallo quasi invincibile.

La scelta della camicia durò ancora piú a lungo e gli fece soffiare l’aria per lo sforzo. I mocassini li calzava sempre con un certo sollievo. Quelli, sei paia, erano identici anche nel grado di consunzione.

Ora però veniva la parte piú complicata: si sarebbe messo il cappello o no? L’ultima volta che ne aveva indossato uno era stato a carnevale trent’anni prima e c’entrava Tex Willer ma adesso... Adesso avrebbe potuto. In solaio aveva trovato il vecchio borsalino di suo padre. Grigio con la fascia nera; elegante il giusto, si sarebbe notato il giusto. Gli stava, si poteva fare. Certo rimaneva un po’ sollevato sulla testa ma quella condizione, inevitabile ora come ora, avrebbe potuto risultare una caratteristica. Però era davvero il caso?

Restò bloccato in quel cinquanta e cinquanta per quasi un’ora. Poi una brezza sottile filtrata da chissà dove o magari lo spostamento d’aria del volo di un insetto a caso sembrarono far piegare l’ago verso il cinquanta e zero uno. Era uscito il no. Lasciò il cappello sul letto e che portasse pure sfortuna. Perché di tanti difetti che gli si volevano trovare, di sicuro non c’era quello di essere superstizioso. O no? Spostò il cappello sul comodino.

– Ciao, Lello. Una sambuca.

– Ehi, Tasso. Subito.

Aveva salutato anche Carlino e Motobefana al tavolino laggiú. Risposero distrattamente, al punto di non notare novità. Il barista gli porse il bicchierino e, finalmente, sembrò accorgersi di qualcosa. Senza scomporsi lo fissò per un po’ sopra la fronte, strizzava gli occhi e girava la testa da un lato all’altro ma lo sguardo rimaneva su quel punto.

– Tasso, non so se lo sai, ma hai un bastone conficcato in testa.

– Ti ringrazio per avermelo fatto notare ma lo sapevo già. Grazie, comunque, davvero.

Lello continuava a puntare l’oggetto sfregandosi il labbro superiore con due dita.

– Per essere precisi non è un bastone: è un piolo, – spiegò Tasso.

– A me sembra piú un manico di martello, – le sopracciglia aggrottate.

– No, no. È un piolo.

Il barista venne chiamato a servire un nocino. Lo versò senza guardare bottiglia né bicchiere e lo allungò distrattamente al cliente.

– E come ci è finito lí?

– Se te lo dico non mi credi.

Lello gli si avvicinò poggiando i gomiti sul bancone.

– Ma non ti fa male?

– Be’... bene non fa.

Il barista succhiò l’aria fra i denti.

– Forse sarebbe meglio toglierlo.

– Il dottore ha detto che al momento è meglio se lo lasciamo lí.

– Ah!

Si guardarono per un po’ in silenzio.

– Oh, Bagio, la smetti di sfondarmi il flipper? – urlò di colpo il barista verso là in fondo, poi riprese interesse per il piolo.

– Se non altro non sanguina.

– Effettivamente quello no. Mi dai un’altra sambuca?

Dopo anni di indecisioni la sambuca ora poteva essere la scelta per sempre. Si fece oltre il bancone avvicinandosi all’orecchio dell’altro.

– Senti, Lello... piuttosto, onestamente, non fa un po’ schifo il cerottone attorno?

Il barista gli riempí di nuovo il bicchiere. Allungò la testa mentre Tasso abbassava la sua.

– In effetti, adesso che me lo dici, è un bel cerottone. Io non me n’ero neanche accorto.

– Forse beige sarebbe meglio.

Buttò giú un altro sorso.

– O no?

Raggiunse il tavolo della briscola a cinque. Prese il solito posto da spettatore. I giocatori lo salutarono fiaccamente, a turno. A un certo punto Bellelli, tenendo gli occhi sulle carte, disse:

– Guarda che ti hanno piantato un piccone in testa.

Gli altri si girarono a guardarlo. Un paio di loro si schifarono.

– È un piolo, – precisò ancora una volta lui.

Si guardarono tutti in faccia.

– Ah be’, allora…

Ripresero a concentrarsi sul gioco.

– E come mai è lí? – chiese sempre Bellelli. – Spade! – dichiarò intanto.

– In qualche posto deve pur stare.

Sorrisero un po’ tutti mentre calavano a turno la propria carta. Passò di lí il Bagio, dopo che il flipper aveva vinto ancora una volta.

– Oh, Tasso, cos’è quel coso?

– Il mio manico, – rispose lui.

Al tavolo la battuta sembrò piacere. Lui, tutto soddisfatto, si disse: vedi? quando hai il tempo di prepararle ti vengono bene.

Rientrò sbattendo la porta dietro di sé e si fiondò al piano. Era uno di quei momenti.

Le dita si muovevano sicure, agili, elastiche, snodate e pesanti quanto serviva; sembrava addirittura che gli si fossero snelliti i palmi e allungate le falangi per raggiungere le note piú lontane fra loro. Producevano senza esitazioni qualcosa che ancora non esisteva ma che lui riconosceva come familiare, una risonanza intima anche se veniva da lontano. Per il resto gli risultava faticoso e sempre vano cercare di decifrarne i movimenti.

Realizzò comunque di essere in mi bemolle. Questa volta era musica ariosa e solenne. Inebriato sentiva salire ancora una volta l’orgoglio di potersi dire: sono mie, queste mani sono mie. Si ritrovò a pensare ad alcuni momenti della serata al bar ma le dita non risentivano affatto delle sue distrazioni. Quanto tempo sarebbe durato questa volta?

Un passaggio elaborato in minore, pieno di sincopi, affascinante e spaventoso era l’attraversamento di un tunnel prima della ripresa del tema.

Poi, come avevano cominciato, di colpo le mani si fermarono. Il piede destro si alzò dal pedale d’espressione. La musica la poteva vedere di fronte a sé, fissata in un pentagramma nell’aria. Cominciò a trascriverla.

Il mattino dopo si ritrovò immobile di fronte al calendario sul muro in cucina. Cosa mai gli era passato per la testa, un paio di mesi prima, di fissare proprio per oggi quel compito: sistemare la casa? E poi cosa voleva dire a se stesso con quel sistemare? A parte il suo letto e la sua sedia, ogni altro letto e sedia, le poltrone, i divani, i tavoli, gli scrittoi, i piani d’appoggio, tutto il mobilio era al sicuro; ci pensava il cellophane. Certo, succedeva ancora che qualche suppellettile, sotto quel rivestimento lucido, ogni tanto assumesse qualche brutta forma ma bastava che lui si richiudesse nella sua stanza e tenesse il dito sul grilletto del fucile e aspettasse e prima o poi l’ombra svaniva. Non era dunque già tutto sistemato da tempo?

Passò la mano sulla fronte e poi sugli occhi, aveva rimandato troppe volte e ora non poteva concedersi scampo. Si avventurò a enumerare alcune delle decisioni da prendere ma si arenò subito. Decidere, anche solo nel suono, era sempre la zanzara che insiste sull’orecchio mentre cerchi di dormire. La signora Pilar – che Dio la benedica lí a Buenos Aires o altrove se si era trasferita, sempre che fosse ancora viva – lei sí che sapeva le cose e l’aveva dimostrato anche al momento della tisana con quel non decidere è già una decisione che lo aveva portato al limite del pianto.

Sistemare la casa, si era detto. Quella comunque era la villa dei Tassoni, per la miseria, e tale doveva rimanere. Che giú in paese dicessero pure – ritardato, aveva detto Motobefana a voce alta una volta; al limite poteva essere come mamma sosteneva: solo un po’ lento, tesoro – ma lui sempre un Tassoni restava. Non approfittava delle cacciatrici di eredità, e allora? Non assumeva donne di servizio, quindi? I Tassoni erano i Tassoni e i Tassoni erano lui.

Salí le scale sperando che qualcosa lo spingesse a scegliere da dove cominciare. Dal solaio forse? Proprio dall’unico vano che copriva l’intera area della casa? Tre quattro volte erano venuti altri bambini invitati dai suoi e gli era sembrato che si fossero divertiti in tutto quello spazio ma poi non erano piú tornati. Adesso che ci pensava era l’unico solaio che avesse mai visto di persona.

Al centro campeggiava sempre l’enorme voliera che aveva tenuto decine e decine di esemplari. Quella alla sua destra era la zona che lo riguardava: la pista per macchinine ancora montata a forma di infinito e i pulsanti in plastica collegati con i cavi, il teatrino con i burattini che pendevano inermi sulla facciata, un cartone chiuso con sopra scritto costumi, una pila di maschere infilate una sull’altra e la catasta di fucilini e riproduzioni di colt. Alla sua sinistra laggiú, dove il soffitto si abbassava, tre tubi innocenti fissati da trave a trave reggevano sulle grucce tutti i vestiti di mamma. I cappotti, le pellicce, gli abiti da sera, l’autunno, l’inverno, la primavera e l’estate. Anch’essi sotto cellophane.

Un grosso ratto scavalcò una cassa fra le cose di suo padre e sparí in un angolo a cinque metri. Lui si avvicinò appena per vedere dove fosse finito (piú che altro per assicurarsi che rimanesse lí dov’era) in attesa che il brivido smettesse di segnargli la schiena. Batté le mani per vedere una qualche reazione. Sentí risuonare ancora una volta quell’eco interminabile da chiesa.

Un giorno o l’altro, pensò, se qualcuno mi porta il pianoforte, ci suonerò per davvero qui. Magari mi toccherà abitarci in attesa di uno di quei momenti – che quelli non si sa mai quando arrivano – ma capiterà e allora sarà una meraviglia: il suono che rimbalza e si spezza sugli oggetti cosí come sono e prende una forma unica e tutto quel riverbero come a non farlo finire. Da tempo aveva pronto anche un titolo per quella composizione: Il suono naturale della memoria. Non sapeva bene del tutto cosa volesse dire ma se l’era ritrovato una mattina scritto da se stesso in un foglio sul comodino. Grattò delicatamente, con la punta dei polpastrelli, il prurito sotto il cerottone mentre considerava che non si poteva cominciare da lí.

Prese la scala di legno e raggiunse la torretta di sopra. Il suo posto. Quello da cui dominava il paese. A terra in un angolo il binocolo, nella custodia imbrattata di guano. Nient’altro. Lí, a parte pulire, c’era niente da fare.

Si sporse a guardare ancora una volta il suo parco. Una giungla. Da solo non ce l’avrebbe mai fatta. Eppure doveva. Su un ramo là sotto due piccioni si stavano accoppiando. Si abbassò per non disturbare. Quello dietro teneva l’equilibrio rifrullando le ali. Provò a immaginare come si doveva sentire. Dopo poco volarono via in direzioni opposte. Ma come, si diceva lui, ma come?

Ripensò alla casa: giú lo aspettavano comunque le quattro camere, i due bagni e il salone al primo piano. A piano terra la cucina, la stanza rosa, la biblioteca, il salone centrale. Non aveva nemmeno voluto considerare la lavanderia, la cantinetta, i due ripostigli. Per non parlare della dépendance.

Di colpo sentí l’equilibrio mancare, si attaccò a una delle colonnine che reggevano il tetto. Guardò terrorizzato il parco, le nuvole e le case là in fondo girare a trottola: gli salí una nausea tale che per la prima volta nella sua vita non riuscí a non vomitare. Scioccato per la violenza con cui i conati lo assalivano, sbirciava con vergogna i getti interminabili di liquido verdastro raggiungere il parco sotto.

Poi smise di distinguere i contorni delle cose; gli rimaneva solo l’impressione di sagome di alberi sfumate. Si lasciò cadere seduto cercando inutilmente di riprendere una certa normalità nel respiro. Anche la luce del giorno si era quasi spenta. Ricordò di avere lasciato il cellulare in cucina. Preso dal panico tentò di raggiungere la scala ma si accorse che non poteva piú muovere le gambe. Provò a trascinarsi sulle braccia ma presto anche quelle smisero di rispondere ai comandi.

Riuscí a girarsi a faccia in su, sentí le lacrime solcargli le tempie e poi le orecchie. Aspettò di vedersi passare la vita davanti agli occhi. Non successe. Venne buio.

Quando riprese conoscenza il sole era a picco sul tetto della torretta. Si ritrovò fradicio di sudore. Non appena realizzò dov’era e come mai fosse lí fu aggredito di nuovo dal panico. Sentiva il proprio respiro veloce, rumoroso e alto. Provò a muovere gambe e braccia ma quelle non davano segni di vita. Cercò di chiamare aiuto ma la bocca non si apriva e quelli che gli uscivano, fra i denti stretti, erano i versi di un bambino di tre anni. Non c’era muscolo che rispondesse. Sentí caldo e bagnato nelle mutande.

Un merlo atterrò sulla panca in cemento della parete di fianco. Lui, con la coda degli occhi, lo guardò supplicandolo. Una mutazione, un miracolo, qualsiasi cosa. L’uccello gli si avvicinò zompettando e iniziò a scrutarlo dall’occhio sinistro che rimaneva fisso nonostante gli scatti della testa. Con un saltello si posò sul legno conficcato nel suo cranio. Fece avanti e indietro per la lunghezza del piolo un paio di volte. Tornò al suo posto e riprese a guardare. Dopo avere apparentemente esaudito – o no – la propria curiosità, volò da qualche altra parte.

Ora che era di nuovo solo gli si fecero largo tutti i peggiori pensieri rispetto al suo destino. Il quando, il quanto, il come e il grado di sofferenza. Poi ci fu anche il pensiero di non potere impedire l’inevitabile in alcun modo.

E fu quello, il fatto di non potere ma nemmeno dovere compiere nessuna scelta, che gli permise di respirare un po’ meglio. Ebbe piano piano la sensazione di sciogliersi in acqua e mentre l’affanno si acquietava, l’indice e il medio della mano destra presero a scattare come per un tic. Riuscí, accompagnato da un forte tremolio, a roteare entrambi i polsi. Dopo poco ricominciò a padroneggiare ogni movimento del corpo. E allora lasciò andare le articolazioni su e giú per il pavimento guadagnando sempre di piú in ampiezza fino, poi, ad arrivare a sventagliarle come per un volo a quattro ali. Si sentiva nuovo, indolenzito ma nuovo. Pulito e affamato.

Preparò il pranzo del martedí – sempre quello – e si sedette a tavola come ogni giorno alle dodici e cinquanta. Il piano sistemare la casa era saltato e non per colpa sua. Un giorno o l’altro sarebbe venuto il momento. Con un certo sollievo frigo e dispensa dicevano che c’era proprio da fare spesa. Finalmente una scelta inevitabile.

Cominciò a organizzare la sua uscita verso le tre e un paio d’ore dopo si mise al volante. Lo stesso percorso di sempre. Parcheggiò in uno dei suoi cinque posti macchina preferiti. Con la moneta da due euro già pronta da casa liberò la catenina che teneva l’ultimo carrello ed entrò.

Prese quello che prendeva ogni volta. Si sarebbe presentato dalla cassiera carina – era sicuro che fosse di turno – sapendo già l’importo. Fece finta di interessarsi ad altri prodotti fin quando la coda da lei era quasi finita. A quel punto si precipitò inciampando sul carrello. Salutò compíto mentre scaricava la spesa sul piano.

– Tutto bene, signor Tassoni?

– Ci difendiamo, ci difendiamo, – mai pronunciato quella frase prima d’allora. L’aveva sentita da un tipo in un quiz alla tv e se l’era tenuta buona per un momento cosí.

– Ma… mi scusi… ma quello cos’è? – la cassiera indicava la sua testa, se n’era finalmente accorta.

– Il mio manico, – un paio di sere prima quella battuta aveva funzionato. Ora no.

– Fa impressione, sa?

– Mi dispiace davvero moltissimo. Mi scusi.

– No, si figuri. Dispiace a me per lei.

– Non deve.

– Sono cinquantasei euro e settanta.

Sarebbero dovuti essere cinquantacinque e quaranta. Qualcosa era aumentato di prezzo.

Al rientro vide l’angolo di una busta sporgere dalla linguetta di metallo della cassetta della posta. Era una lettera da un’agenzia di spettacoli inglese. Prima di tutto si scusavano per il loro italiano – la traduzione era a cura di un amico – ma volevano essere sicuri di intendersi con lui nel caso non parlasse inglese.

Si dichiaravano felici di avere finalmente trovato il suo indirizzo postale visto che di lui su facebook o twitter non c’era traccia. Comunque gli chiedevano un incontro perché, visti gli ottimi esiti del suo album di solo piano in Giappone, sarebbero stati lieti di fare una proposta per una piccola tournée. Seguiva una lista di lusinghe, promesse, certezze e il futuro e gli appassionati e le venues e la loro comprovata serietà e il loro portfolio e magari, in seguito, la conquista di altri paesi.

Il mio album va bene in Giappone?, si chiese. Quei due signori che me l’hanno fatto registrare non si vedono piú da tanto. È uno scherzo di quelli del bar, pensò, ma mise la lettera sotto il cuscino.

La sera Lello gli chiese se non gli capitava di sbattere contro qualcosa con quell’affare. Solo dopo i pasti, gli aveva risposto. L’effetto non fu granché. Prese la sambuca e se la portò con sé al solito tavolino. Stasera giocavano in quattro. Scopone.

– Ancora quell’affare in testa? – gli chiese uno del gruppetto.

– No, questo è nuovo, – un’altra battuta preparata da casa.

Dal tavolo vicino saltò su un vecchietto che non conosceva.

– Ehi, Tasso, cos’hai in testa?

– Un’idea meravigliosa, – quella del manico era andata decisamente meglio, stavolta non rise quasi nessuno.

Certo che quel Tasso in fin dei conti era un po’ troppo confidenziale. Com’era che si permettevano tutti di usarlo?

La stanza rosa, pensandoci, sarebbe stata una delle piú facili fra quelle a cui mettere mano. Lí non si poteva fare altro che conservare, rinfrescare e conservare. Ceramiche, swarovski, vasi, statuette di Murano, sua madre ne aveva fatto una specie di sala da tè ventiquattr’ore al giorno il cui ingresso era rigorosamente vietato a qualsiasi persona di sesso maschile. Anche chi la puliva doveva essere donna. Suo padre la chiamava il ghetto rosa. A lui, papà o no, comunque piaceva. Anzi diventò una delle sue preferite e mise a trascorrerci parecchio tempo. E poi, adesso lo poteva dire, quegli oggetti erano molto pratici. Non deperivano, non c’era da farci niente, solo occasionali spolverate. L’umidità, piuttosto, aveva creato qualche bolla di vernice sulle pareti ma, insomma, ripassare il rosa confetto alla stanza, quello lo si poteva fare facilmente.

Il ricovero attrezzi, polvere e ragnatele a parte, conservava ancora l’ordine in cui lo teneva Bonucci, l’addetto alla manutenzione che se n’era andato solo un mese dopo che anche mamma era morta. C’erano qualche latta di colore, pennelli e un rullo. Il rosa confetto sembrava poter bastare. Mentre ammorbidiva un paio di pennelli nel solvente gli venne, di colpo, un istinto irrefrenabile. Mosso da un’energia rara, raccolse la tinta e andò nel bagno di servizio lí di fianco. Si mise di fronte allo specchio. Immerse un pennello nel colore e cominciò a passarlo sulla punta del piolo. Non gli sembrava male. Mise un altro cerotto sopra a quello già esistente e pitturò tutto il pezzo di legno. Gli pareva che andasse benissimo.

La signora Pilar (che poi, si disse, come mai mi viene in mente sempre la signora e mai la vedova Pilar come effettivamente era, oppure semplicemente Manuela? Non erano abbastanza intimi dopo tutti quegli anni di visite attraverso i muri?) ne aveva avuta una anche sulle tinte, la sera della cena. La tinta per muri finiamo per respirarla tutta negli anni e bisogna usare quella atossica. Mah! A proposito: esisteva anche tinta atossica?

Comunque, tossico o no, a pensarci bene quello non era il colore giusto, al bar avrebbero fatto battute. Tornò nel ricovero attrezzi. Fortunatamente la scelta si restringeva a bianco o rosso.

Dopo un paio d’ore di pensieri e una decina di minuti di azione ebbe un piolo con le righe bianche e rosse oblique come quei pali a Venezia. Si sentiva coraggioso, sfrontato. E poi ecco come sarebbe stato sistemare la casa: ogni ambiente sarebbe stato bianco o rosso. Per cui prese le due latte di colore e i due pennelli e fece il giro delle stanze passando ovunque una riga dell’uno e una riga dell’altro. Domani o dopo o dopo ancora avrebbe deciso quale dei due sarebbe stato il colore giusto per ogni ambiente. Si lavò badando bene a non bagnare la tinta sul piolo. Preparò, con allegria e appetito, la cena del giovedí.

Quella notte si sdraiò sul letto in cui i suoi avevano sempre dormito. Chiese loro scusa. In fondo era solo la terza volta che lo faceva da quando se n’erano andati. Poi li invitò a non preoccuparsi per lui. Stava gestendo bene i soldi che gli avevano lasciato. Ne avrebbe lasciati a suo figlio.

Non aveva un figlio? Non ce l’aveva per il momento ma era solo un ragazzo di trentasei anni, no? Non si ricordava, papà, di averlo avuto a quarantadue? Tranquilli. La famiglia sarebbe andata avanti. Ma cosa c’entrava la fidanzata, adesso? Lo sapevano perché non ce n’era ancora una, no? Esatto: perché si voleva ancora divertire. Ma come? Proprio lui, papà, parlava? Con tutto quello che aveva combinato prima di incontrare la mamma. Sí, d’accordo, se avesse avuto qualche occupazione sarebbe stato meglio, ma il pianoforte lo era, no? Cosa intendevano con un’occupazione seria, avevano voglia di litigare? Non potevano essere un po’ orgogliosi di lui che era arrivato fino in Giappone? Ecco: cosa ne dicevano di tutte quelle copie che aveva venduto in Giappone? Va be’, quante di preciso non lo sapeva neanche lui, ma tante. Gli era stata addirittura offerta una tournée laggiú.

Non erano stati loro a fargli prendere tutte quelle lezioni? Cosa volevano che ne facesse? E poi vabbè, piano a parte, si ricordavano che cosa volesse dire tenere dietro a quella casa? L’avevano lasciata in buone mani, cosa credevano. D’accordo, il parco era messo male ma proprio quello stavano a guardare? Ci voleva un po’ di pazienza.

No, non avrebbe chiamato nessuno. Gli aveva o non gli aveva giurato che avrebbe pensato a tutto lui? Il bar? Cosa c’entrava il bar adesso? No, no, quelli erano i suoi amici. Cosa intendevano con quel si approfittano di te? Nessuno poteva approfittarsi di lui, che fosse chiaro. Men che meno gli amici, no? E adesso perché si era messa a piangere la mamma? Si voleva sempre preoccupare per niente a tutti i costi, eh? E poi glielo doveva dire: quando piangeva si imbruttiva un po’. Insomma, proprio lei, cosí bella. Si ricordava quando cantava le peggiori canzoni dell’estate? Cosí intonata. Era bella quando le cantava, vero papà? Va be’, ora però tutti a nanna. Che si comportassero bene, eh ragazzacci, lí di là? Avanti. Buonanotte.

Ripensò con soddisfazione alla serata trascorsa. Il suo piolo bianco e rosso era stato un trionfo. Lello che gli aveva chiesto se voleva lanciare una nuova moda e lui che aveva risposto: vedrai la collezione primavera estate. Avevano preso a chiamarlo Valentino. La sambuca gli era stata offerta. Il Bagio gli aveva chiesto che segnale fosse quel bastone. Di girare al largo era stata la sua risposta. La prima che gli usciva senza averla preparata a casa. Ed era piaciuta.

Al solito tavolo gli avevano fatto un sacco di congratulazioni. Uno di loro si era lasciato scappare una battuta sull’immancabile estro dei nobili. Quella considerazione era stata, per lui, l’apice della serata. Gli avevano chiesto se voleva fare una partita. Aveva detto di no alla svelta – giocare voleva pur sempre dire troppe scelte – ma anche quella gli era sembrata una richiesta bellissima. Un altro gli aveva chiesto se riceveva anche la pay tv con quell’affare e lui aveva risposto di sí ma niente abbonamento per milan channel. Sorrideva mentre ricordava le reazioni del tavolo. Addirittura qualcuno, all’orecchio, lo aveva invitato alla bisca del lunedí. Ne aveva sempre sentito parlare di quell’appartamento nel centro storico in cui si trovavano di nascosto i giocatori veri ogni settimana. Boh. Ci avrebbe pensato.

Si spostò in camera sua e la signora Pilar ancora una volta lo raggiunse prima col piede, poi con le mani, poi con la bocca e finalmente con se stessa. E ora che si sentiva pieno e appagato come poche altre volte, non fece resistenza alla sopraffazione dei progetti. L’effetto del bianco e del rosso sul piolo sarebbe durato poco? Be’, avrebbe potuto mettere tutti i colori che voleva. Se poi li combinava a due a due o anche a tre a tre, le possibilità diventavano quasi infinite. Addirittura pensò che, molto piú avanti, avrebbe potuto attorcigliare attorno al piolo il filo con le lucine bianche di natale. Poteva provare un sistema di alimentazione a batteria. Che splendida copertina di album avrebbe potuto essere.

E poi sarebbe potuto andare dalla cassiera e con quelle luci a intermittenza dirle che era diventato una lucciola e lei gli avrebbe chiesto se anche le lucciole maschio si accendevano e lui col piolo a illuminargli la fronte e gli occhi avrebbe risposto: non lo so ma in questo caso sí, in questo caso di sicuro.

Ancora la signora Pilar aveva detto l’energia elettrica che ti passa vicino, anche semplicemente attraverso i fili nel muro dietro la testiera del letto, fa ammalare. Ammalarsi è una roba di sfortuna, pensò lui stizzito. Con tutto il rispetto, signora Pilar, mi sembra che le cose stiano un po’ cambiando fra noi.

Le luci di tutta la casa erano spente. L’allarme inserito. Il fucile carico sotto il letto.

Assalito da tutte le opzioni del mondo, si rifiutava di addormentarsi e a collo ritto e mento alto sentí se stesso pronunciare a voce alta:

– No. Non in una notte cosí.