Tamburellava con l’indice un ritmo alla Bo Diddley e si guardava attorno. L’ufficio si confermava modesto.

È un brav’uomo questo, lo so che è un brav’uomo, sempre stato, si ripeteva: magari accetta.

Dall’altra parte della scrivania il direttore, al telefono, continuava a fissargli quel dito musicale come alla ricerca di un motivo di distrazione da una conversazione evidentemente noiosa. Quando finalmente riattaccò, emise un sospiro e gli disse: eccomi.

– Grazie per avermi ricevuto, signor Bertini. So che ha molto da fare cosí cerco di non rubarle tempo e vado subito al punto: vorrei proporle un accordo.

Il direttore non nascose lo sconforto che si aggiungeva a quello precedente.

– Come lei sa suoniamo, oltre a qui, in altri due ricoveri.

– Case di riposo, per favore, Anchise. Non definirci ricovero.

– Case di riposo, mi scusi. Da quattro anni, ormai, ci esibiamo solo per voi e per loro.

Bertini fece sí con le sopracciglia. Guardava meglio di altre volte l’affare che aveva di fronte. Quell’assurdo riporto di capelli sfilacciati e tinti, le orecchie enormi, le mani pesanti come i suoi tratti. Un brutto pallore. Il costume di scena giallo paglierino già addosso. La goccia di sudore sulla tempia. L’entusiasmo, però, che riusciva ancora a bucare la patina sugli occhi. Già perché quel coso, nonostante i suoi anni – quanti erano? piú di settanta tutti – non cedeva: alla sua età doveva ancora suonare la batteria, cantare e gestire un gruppo. E ora era lí a proporre qualche trattativa strampalata, se non – niente di piú facile – chiedere un aumento. Era talmente balordo che gli stava anche simpatico ma sapeva già di non poterci fare niente. Perché tutte a lui?

– Ecco, noi avremmo deciso che vorremmo suonare solo per voi.

Il direttore badò bene a non lasciar trasparire alcuna espressione.

– Il massimo sarebbe poter lasciare la strumentazione sempre fissa nel salone. Sa com’è, ogni volta montare e smontare la mia batteria… ne ho sessantasette, eh… – Bertini sorrise al pensiero che quello stesse ancora lí a togliersi gli anni – … però lo chiediamo proprio a voi e non alle altre… case di riposo… perché qui è dove ci siamo sempre trovati meglio, capisce? Lei dirà va bene ma a noi cosa viene in tasca? Le spiego, al momento ci pagate cento euro per ogni sabato che suoniamo e a volte ne facciamo un paio al mese, no? In quei casi fa duecento euro. Ecco noi siamo pronti, per duecentocinquanta al mese, a suonare ogni sabato e domenica. Cioè, capisce? per quasi lo stesso compenso otto spettacoli al posto di due. Certo chiederemmo un accordo fisso…

Ancora nessuna reazione.

– … e, perché no?, se volete suoniamo anche in qualche feriale… Ai vostri ospiti siamo sempre piaciuti. Si immagina cosa vorrebbe dire per loro avere musica dal vivo ogni sabato e ogni domenica? Piacciamo anche al personale. Insomma, a quasi tutti. Certo ci impegneremmo a cambiare piú spesso la scaletta.

Aveva fatto quella proposta quasi in apnea. Si passò la punta delle dita sulla tempia. Il direttore allargò i pollici fra le mani congiunte.

– Vedi Anchise, voglio pensare che uno dei motivi per cui da cosí tanto vi trovate bene qui sia la franchezza con cui ci siamo sempre rapportati. Ecco, con la stessa franchezza ti voglio ringraziare per la proposta ma ti devo dire di no.

Il musicista sembrava comunque avere data per scontata quella decisione.

– Già destinare alla musica quei duecento euro del budget mensile è una forzatura, credimi, – e solo lui sapeva quanto. Presto avrebbe dovuto tagliare anche quelli ma adesso, proprio in quel momento, non poteva saltarsene fuori con un «a proposito…» Si sarebbe preso ancora una settimana o due. – È vero che i nostri ospiti vi apprezzano ma le priorità economiche di una casa di riposo sono altre.

– Sareste gli unici a garantire un servizio del genere. Potreste chiedere un piccolo aumento delle rette.

– Ecco adesso scusami, ma rispetto alla nostra gestione economica è meglio se non ti intrometti, – va bene riuscire a non crescere fino ai tuoi settant’anni e fortunato te, pensava, ma non tutti possiamo permetterci di abitare a disney world vita natural durante.

La fermezza del direttore bastava e avanzava, il musicista alzò le spalle e gli porse la mano. Dava l’impressione di essere sollevato.

– Grazie comunque. Ci dovevo provare.

Il direttore strinse la mano.

– E poi riguardo alla batteria… capisco il tuo problema di montare e smontare ma perché non vi decidete a fare come tutto il mondo e suonare sulle basi?

– Mi vuole dire che per lei sarebbe la stessa cosa? – di colpo sembrava venuta notte.

I tre si stavano esibendo in un angolo del salone, non c’era mai stato nessun palchetto né alcun rialzo. Anchise, mentre picchiava su cassa, rullante e charleston, si stava sporgendo al limite del possibile verso il microfono ma l’asta che reggeva quel maledetto continuava a scivolare in avanti. Solo che finisca il pezzo, solo che finisca sto pezzo. Ecco uno dei motivi, si diceva, per cui siamo rimasti in pochissimi al mondo a cantare suonando la batteria: il cazzo di microfono che sfugge. Ma scusa perché non canti e basta?, gli chiedevano da una vita a ritornello. Non rispondeva piú.

Con la batteria sul pavimento, il suo punto di vista dallo sgabello era appena piú alto di quello di un bambino. Da lí quello che si poteva vedere erano gli infermi – messi come sempre a sedere ai lati – e quegli ospiti della casa di riposo (sempre quei sette otto) che ballavano piú che potevano ogni volta lí a pochi metri coprendo il resto della visuale. Gli altri là dietro li si dovevano immaginare. Magari alcuni guardavano, altri giocavano a carte, altri dormivano, altri stonavano qualche refrain.

L’area in cui suonavano era lo spartiacque fra loro e quelli dall’altra parte e anche se sembrava sempre piú sottile (come se qualcuno o qualche forza li stesse spingendo verso il precipizio) erano ancora cinque solidi metri quadrati. Cinque metri quadrati su cui Anchise, mentre suonava e cantava, esercitava il proprio controllo osservando da dietro. L’indolenza di Piero che continuava a imbracciare la chitarra come a fare un favore al mondo. Il minuscolo altarino esposto con la candela accesa come in ogni altro concerto da trentotto anni (da quando, cioè, Michele si era schiantato in quell’incidente troppo stupido per essere vero). E poi, Diana, sempre piú minuta sul suo basso. Bella come ogni volta che lo aveva imbracciato nell’ultimo mezzo secolo.

Capitava ancora, ogni tanto, che lei si girasse verso di lui a bocca spalancata. Si guardavano negli occhi compiaciuti e tuttora increduli per come, in certi momenti, suonassero cosí insieme e il groove che si creava fra loro risultasse molto migliore della somma delle parti. E lui che doveva reggere l’emozione di quello sguardo e allo stesso tempo suonare dritto e, addirittura, ricordare il testo della canzone.

La sua mano sinistra era avvolta da nastro adesivo con cui aveva legato una bacchetta al palmo; l’artrosi non gli permetteva quasi piú di stringerla. Fra gli infermi, lí vicino, su una sedia a rotelle, c’era il marito di Diana. Se lo portava sempre con sé. Con cura lo spingeva ogni volta fino a pochi passi da dove suonavano, gli diceva qualcosa all’orecchio, lo baciava sulla fronte e gli sorrideva. E a lui, Anchise, toccava sempre assistere a tutta quella cura.

Un paio d’ore piú tardi il salone era vuoto, gli ospiti della casa di riposo già tutti rientrati in camera. Sul pavimento i pezzi della batteria smontata, l’impianto voci, i cavi, i piccoli amplificatori e le custodie chiuse di chitarra e basso. Il personale di servizio aveva accumulato tutto lí, ora toccava a lui caricare il furgone. Seduto a un tavolino si stava togliendo un po’ di colla rimasta dal nastro adesivo sulla mano. Fissava con lo sguardo la cassa della sua batteria. Sulla pelle, con un lettering anni sessanta, campeggiava la scritta I nuovi guai. Piero si sedette di fianco a lui.

– Allora? Com’è andata?

Li raggiunse anche Diana. Anchise estrasse il portafoglio e diede a ognuno di loro settanta euro. Erano pochi ma se avessero saputo che la paga effettiva era addirittura la metà forse il gruppo si sarebbe sciolto. Per questo da un paio d’anni era lui a mettere ogni volta, a loro insaputa, la differenza.

– Be’, hai visto anche tu, no? Hanno ballato, erano contenti.

– Sí… contenti… Intendo col direttore. Non l’ha bevuta, eh?

– Che cosa avrebbe dovuto bersi?

– La fola che suoniamo ancora per altri due ricoveri.

– Con uno ci è rimasto un altro ingaggio.

– Va be’, ho capito. Non ha accettato.

– Lo sapevamo, no? Abbiamo comunque fatto bene a provarci –. Diana era intervenuta con un mezzo sorriso.

– Non ci si crede, – continuò Piero guardandosi attorno, – com’è possibile ridursi a questo punto? Non avrei mai pensato che i miei figli arrivassero a prendermi per il culo per quello che faccio e invece adesso…

– Fanno bene a prenderti per il culo. Avranno visto come suoni, – il capo gruppo aveva parlato in fretta come se quell’uscita fosse ampiamente prevista. – Sei stufo? Tante belle cose. Quanti chitarristi abbiamo avuto fino a oggi? Dodici? Uno piú uno meno…

Diana assisteva con apprensione. Piero respirò prima di rispondere, abbozzò un sorriso disarmato.

– Trentadue anni. Suoniamo insieme da trentadue anni e devi ancora farmi sentire come un precario. Se ne avete cambiati tanti li avete cambiati tutti prima di me, – poi si avvicinò all’orecchio di Anchise e continuò quasi sottovoce.

– C’ero, lo sai? quando giravamo ancora l’Italia. Poi solo concerti in regione, poi solo in città…

– Quindi ammetti di essere tu a portare sfiga.

– E nel frattempo il repertorio che facciamo è diventato sempre piú moscio per non spaventare il nostro pubblico, – con due dita per mano mimò il virgolettato.

Anchise notò che Diana teneva gli occhi bassi.

– Se va bene ci danno duecento euro per tre ore di musica…

– Cos’è, adesso suoniamo a cottimo? Vuoi un tanto al minuto?

– … io ho sessantaquattro anni, Diana se non sbaglio sessantasei, ma tu… con i tuoi settantadue? e con quella mano? dài, Anchise… – il mento di Piero indicava la strumentazione sparsa a terra che il batterista avrebbe ancora una volta dovuto raccogliere e trasportare.

– Cioè, voglio dire, credimi: non riesco a decidere se ti ammiro o ti compatisco per la tua resistenza. Se solo dieci anni fa ci fossimo detti che avremmo suonato nei ricoveri…

– Case di riposo.

Case di riposo che – per la serie: una volta toccato il fondo si comincia a scavare – non ci ingaggiano piú nemmeno quelle…

– Se a te sembra poco, ti ho già detto che puoi startene a casa.

Il chitarrista guardò negli occhi Anchise. Provò un moto d’affetto anche mentre gli diceva:

– Ah già, perché è pieno di chitarristi che vogliono prendere il mio posto.

– Tu non ti preoccupare che qualcuno trovo. I nuovi guai non finiscono mai, – recitò con un sorriso il capo gruppo. Era il coretto ripetuto dopo serate particolarmente fortunate.

– See… Ciao… – Piero voltò loro le spalle e se ne andò.

Il batterista e la bassista si guardarono ammiccando.

– Entro mezz’ora chiama e mi chiede quand’è la prossima data.

Diana si allontanò per andare a dire qualcosa al marito. Ad Anchise si spense il sorriso. Lei tornò spedita. La pelle piú giovane dei suoi anni, gli occhi che riuscivano a rimanere grandi.

– Dobbiamo andare.

– Certo.

– A me è piaciuto molto stasera.

– A me piace ogni sera.

– Fra due sabati allora?

– Fra due sabati.

Lo baciò sulla guancia e gli sfiorò la mano malata. Notò, come innumerevoli altre volte, l’emozione del suo batterista. Poi diede un’occhiata al cumulo di strumenti sul pavimento e al ragazzo del personale che stava aspettando lo sgombero. Si avviò verso il centro della stanza, afferrò la cassa della batteria e con quella, camminando molto lentamente ed esibendo molta piú fatica di quanta non ne facesse realmente, si diresse verso la porta aperta da cui spuntava il retro del furgone. Il ragazzo, allora, accorse e le prese la cassa dalle mani dicendole: lasci, lasci fare a me. Ora quel tipo avrebbe per forza aiutato il capo dei Nuovi guai a caricare gli strumenti sul ducato. Diana strizzò l’occhio al suo batterista, tornò dal marito, prese a spingere la sedia a rotelle e uscí. Anchise la guardò fin quando fu possibile.

Quella notte, come dopo ogni concerto – e a differenza delle altre notti – Anchise dormí ben sei ore. La messa in moto al risveglio richiese tempo. Per quanto ci provasse non riusciva a suonare solo di polso e i pedali di cassa e charleston andavano schiacciati come si doveva. E allora l’artrosi e la schiena. Allora il collo e le gambe. Di sicuro il letto vecchio, alto e troppo molle non aiutava.

Raccolse il telefono dal comodino e lesse allora fra due sabati? Era firmato da Piero. Decise che prima di rispondergli l’avrebbe lasciato per un paio di giorni nel suo brodo.

Sul comò di fronte al letto c’era la pila dei suoi quarantacinque giri. Tirò fuori una copia malandata di Get Back dei Beatles e la infilò nel mangiadischi arancione. Il piccolo altoparlante gracchiava a fatica il suono ma a lui sembrava, gli era sempre sembrato, che ogni elemento, dai graffi sul disco alla pochezza di quell’aggeggio, desse a quella musica l’illusione di innocenza e, insieme, la profondità della sua storia. E poi, soprattutto, la necessaria inafferrabilità. Già, perché se c’era una cosa che aveva capito in cinquant’anni che suonava, era che la musica non la si prendeva. Mai. Per lui valeva anche quando ascoltava. Non contava quante volte avesse sentito una canzone né contava l’esercizio e la difesa del suo gusto: la musica non diventava mai sua.

E pensava – tenendoselo sempre e comunque per sé –che pure parecchi boriosi là fuori, convinti di averla catturata e fatta loro, scrivendola o suonandola, nel tempo avevano per forza realizzato che casomai potevano avere posseduto i suoi frutti – fama, privilegi, agi – ma mai veramente lei. Certo, anche lui aveva vissuto in poche fulminanti occasioni la sensazione di averla fra le mani. Non era mai accaduto per via del canto. Erano stati, piuttosto, brevi esaltanti attimi in cui con la batteria si era sentito finalmente allineato a lei. Per quel che ne capiva di zen, se mai ne aveva vissuto dei momenti, erano proprio e solo quelli. Poi, però, doveva presto lasciarla andare e tra le mani si ritrovava sempre e solo le bacchette.

In bagno si lavò la faccia e rassettò i pochi, lunghi capelli all’indietro. C’era da ritingerli al piú presto. Poi, di scatto, tornò in camera a recuperare il telefonino. Gli si accelerò il respiro mentre selezionava il nome di Diana e scriveva mi ha già scritto. I nuovi guai non finiscono mai. Rimase un po’ a leggere il messaggio, poi si avvicinò al mangiadischi, schiacciò il pulsante di espulsione e spinse di nuovo il disco all’interno per farlo ripartire. Si mise seduto sul letto e guardò ancora lo schermo del telefonino. Come tante altre volte con lei, toccò l’opzione cancella. Mancano tredici giorni al prossimo, pensò.

Faticò non poco a parcheggiare il ducato. Trovò a quasi un chilometro dal Quintino. Aveva venti minuti di ritardo e cercò di accelerare il passo piú che poteva. Era un ristorante aperto da circa un anno di cui aveva sentito parlare soprattutto per i prezzi assurdi. Suo fratello non perdeva occasione di ricordargli il proprio successo. Trovò conferma di tutto quello che pensava nell’opulenza del finto minimalismo dell’ingresso e nello sguardo di chi lo accolse.

– Prego?

Dovette appoggiarsi a una poltrona e cercare di riprendere fiato. L’apprensione di quell’altro sembrava piú per il timore che sporcasse o facesse scene che non per la sua salute.

– Contini, – riuscí a dire con la voce chiusa. – Dovrebbe essere già al tavolo.

– Ah, certo. L’accompagno.

– No, mi scusi, mi scusi. Potrebbe prima indicarmi dov’è il bagno?

– La prego di seguirmi.

Fece appena in tempo a chiudersi la porta alle spalle che la crisi di tosse lo assalí piú violenta del solito. Si sentiva soffocare, l’aria proprio non passava. Diede un paio di manate al muro e poi, quattro cinque volte, si colpí forte con il pugno sullo sterno. Alzò le braccia in aria e le spalancò di lato nella speranza che qualcosa si allargasse assieme a loro. Si lasciò cadere sulle ginocchia, la testa sul water. Con un altro colpo di tosse sputò una boccata di sangue. Pian piano riprese un respiro quasi normale. Guardò il liquido rosso scuro e colloso scivolare sulla parete della tazza. Un paio di grumi densi e nerastri scendevano molto piú lentamente. Vaffanculo, disse con una voce passata per un canale ostruito in piú punti e tirò l’acqua. Si lavò la faccia, cercò di ricomporsi come poteva e uscí.

– Venga pure, suo figlio la sta aspettando, – il tipo sembrava avere fretta di chiudere la pratica.

Mio figlio… ma vaffanculo anche te, va’, pensò Anchise.

Anche se doveva ammettere che non era la prima volta che scambiavano suo fratello – con quei diciotto anni in meno – per suo figlio. Senza contare poi come ognuno dei due li portasse, i propri anni, e lí, lo sapeva, la forbice si allargava. Eccolo là, tronfio nel suo completo griffato, il dom pérignon nel secchiello e il calice mezzo vuoto.

Guardalo, pensò, guarda come mi guarda.

– Ciao Filippo, scusa, – disse il batterista sedendosi.

– Buongiorno, – il fratello teneva i gomiti sul tavolo e una mano dentro l’altra. Ne approfittò per esibire un’evidente occhiata all’orologio.

– Cos’è? Pausa pranzo veloce? Devi rientrare presto? – chiese il fratello maggiore.

– Non piú del solito. Ordiniamo?

– Fai tu per favore.

– Non guardi nemmeno il menú? – piuttosto contrariato.

– Mi fido di te, dài, – non ti do la soddisfazione di leggere i prezzi, pensò.

Filippo scosse la testa con un sorriso di compatimento e ordinò piatti a cui Anchise non prestò alcuna attenzione. Poi con lo stesso ghigno gli si rivolse:

– Ti devo chiedere come va?

– No, no. Non devi fare un bel niente.

– Be’ qualcosa dovrò pur fare visto quello che vieni a pretendere.

– Ti ripeto che non devi fare niente. Solo quello di cui hai voglia.

– Ho l’aria di uno che ha cosí voglia di darti ancora soldi? Eppure sono qui.

Anchise ingoiò la saliva e le parole che era meglio non dire.

– Avrò il diritto di preoccuparmi per te, no?

– Ne hai il diritto ma è stupido farlo.

– Dici, eh? – Filippo non risparmiò la nota di sarcasmo. Il cameriere gli riempí il calice. Anchise mise la mano aperta sul suo.

– Quanto questa volta?

– Quello che ti va di prestarmi, – il batterista lasciò andare un sospiro senza tentare in nessun modo di coprirlo. Suo fratello, come sempre, pretendeva quel tipo di umiliazione.

– Prestarmi, dici. Facciamo che per una volta diciamo pane al pane? Non parliamo di prestiti, ok? Io te li do ma, per favore, non prendiamoci in giro.

– Quanto hai deciso di prestarmi? – Anchise si morse il labbro di sotto per trattenere altro.

– Ti do duemila, – sottolineò la somma alzando indice e medio della mano destra. Eccolo lí, pensò il batterista, sembra che mi stia donando un rene mentre per lui sono le briciole delle briciole.

– Grazie, – disse comunque.

– Mi dici cosa faresti se non ci fossi io? – chiese mentre estraeva il portafoglio e contava vistosamente le banconote.

– Ma per fortuna tu ci sei, – Anchise parlò a bocca quasi chiusa.

Filippo allungò con lentezza i contanti:

– Sai, avrei sempre voluto un fratello maggiore…

– Non è la prima volta che me lo dici. Come sta Sabrina? – mise via in fretta la somma. Pensò che mancavano tre quarti d’ora al rientro al lavoro del fratello. Si preparò a subire ancora. Ce la poteva fare.

– Noi stiamo tutti bene. Di’ un po’ tu, piuttosto, da quanti anni è morta la Lory, tredici, quattordici?

– Sedici.

– E non ti sei messo piú con nessuna? Dovresti avere qualcuno di fianco. Anche solo per darti una mano se avessi bisogno. Come fai a non sentirti solo?

Il batterista non rispondeva.

– Settantadue anni. Hai settantadue anni, Anchise. Mi dici come fai?

– Esattamente come ho sempre fatto. A modo mio.

– Come occupi le tue giornate? Devono essere lunghissime a non fare niente e startene da solo nel tugurio in cui abiti.

Anchise lo guardò negli occhi imponendosi altra calma.

– Hai qualche amico?

– Scusa ma mi sembra che stiamo esagerando.

– Settantadue anni e giochi ancora al bohémien. In quanti pensi che siamo rimasti a poterci o volerci preoccupare per te?

– Quello che tu ti ostini a non capire è che non c’è bisogno che nessuno si preoccupi per me.

Filippo muoveva su e giú la testa:

– Sicuro, come no? Basta guardarti. Chiunque noterebbe il tuo aspetto eccellente.

Fu quasi impossibile non rispondergli, ma ce la fece ancora.

– Una vita votata alla musica. E non hai nemmeno lo stereo. E la batteria? Dove la tieni?

– Sul furgone. Sono al terzo piano, non la porto mica su.

– Quindi non la suoni mai.

– La suono ai concerti. Credi che abbia ancora bisogno di esercitarmi?

Il fratello minore lasciò andare un sorriso di sufficienza, spinse rumorosamente indietro la sedia, si alzò, passò il tovagliolo sugli angoli della bocca, lo lasciò svolazzare sul tavolo, diede una pacca sulla spalla del batterista e uscí dal ristorante.

Un posto in cui esercitarmi. Se solo ne avessi mai avuto uno chissà come sarebbero andate le cose. Di sicuro avrei fatto funzionare meglio il gruppo. Una casa mia, in cui allestire un mio studiolo – anche piccolo – e lí suonare. Suonare quanto potevo, dovevo e volevo. E poi era meglio se non cantavo. Ho accettato all’inizio perché nel gruppo non lo faceva nessun altro ma nel tempo avrei dovuto assumere uno apposta. Dovevo concentrarmi sulla batteria. E tu Lory, scusami se puoi, meritavi di piú e di meglio. Continuavi a dirmi che eri un ripiego e io a un certo punto ho smesso di dirti di no. Eri troppo comprensiva per non tirarmi fuori la parte peggiore, avresti dovuto incazzarti molto di piú. L’avevi capito che ce l’avevo con me e non con te, vero? Comunque quello che potevo dare l’ho dato. Abbiamo avuto anche momenti belli. Se solo fossimo andati a tempo insieme.

Steso sul letto, fissava il soffitto. La macchia giallastra a forma di mela. Prese dal cassetto del comodino la solita vecchia rivista porno, indossò gli occhiali, si abbassò calzoni e mutande. Provò a masturbarsi. Non ci riuscí. Si mise seduto in direzione della casa di Diana, dall’altra parte della città. Tolse gli occhiali. Teneva lo sguardo fisso con gli occhi stretti. Gli si inumidirono. L’erezione arrivò.

La mattina dopo si svegliò di buon umore. Rimase per un po’ incantato sulla solita macchia. Aprí la finestra riparandosi gli occhi. Il sole era forte e il cielo pulito. Aveva fame, decise di fare colazione subito; si sarebbe lavato e rasato piú tardi. Attraversando il soggiorno vide, sbucata dalla porta d’ingresso, una busta sul pavimento. Provò un sobbalzo.

La schiena gli doleva; dovette lasciarsi cadere su un ginocchio per raccoglierla.

Non c’era scritto niente, né sul fronte né sul retro. Si precipitò in camera a recuperare gli occhiali, li mise e aprí maldestramente la busta. Non appena poté scorgere la calligrafia, capí che era una lettera di Diana. La lanciò sul letto come se scottasse. Erano tre fogli. Guardò in alto. Sospirò. Vuoi vedere che è finita?, pensò. Vuoi vedere che stavolta è davvero finita? La riprese. Si fece forza. Cominciò a leggere.

Caro Anchise,

c’è stato un momento.

C’è stato un momento in cui siamo stati un po’ famosi. È vero: solo il tempo di due quarantacinque giri, ma in quell’anno e mezzo…

Il Cantagiro… ti ricordi che roba? Sembrava di essere su un red carpet lungo come tutta l’Italia. E noi, belli come il sole, sulla macchina scoperta. È stato il momento delle promesse che sembravano non finire. Rivedendolo adesso è stato davvero un momento.

Eccola qua. È finita. È davvero finita.

Poi c’è stato un momento – secco, secchissimo – in cui la scudisciata di un incidente assurdo come quello capitato a Michele non sembrava reale, ma solo lo scherzo di peggior gusto che la vita potesse giocare. Quanto tempo c’è voluto per realizzare tutte le cose che aveva cambiato quell’unico momento?

Me lo stai chiedendo o me lo stai dicendo?

C’è stato un altro momento in cui credevo che non mi sarei mai ripresa dalla sua perdita. Era troppa la confusione in cui versavo e non sapevo se quello che provavo per te, durante quell’altro momento che conosci bene, non fosse dettato dal bisogno di provare meno dolore, ma c’è stato un momento ancora, e di questo sono certa, in cui ho pensato che io e te avremmo dovuto stare insieme tutta la vita.

Lasciò cadere la lettera sul letto. Si mise una mano sulla fronte.

Deglutí un paio di volte.

Poi c’è stato il momento in cui le cose hanno preso la piega che hanno preso perché, evidentemente, doveva andare cosí.

E poi ancora il momento, dopo il mio matrimonio, in cui mi sembrava che la mia vicinanza non ti facesse bene e avrei dovuto abbandonare il gruppo ed evitare di produrre altra sofferenza. Come vedi è stato un momento breve che non ha lasciato tracce.

E, ti chiedo scusa ma voglio dirti tutto, c’è stato piú di un momento in cui ho avuto l’impressione che il tuo, di matrimonio, non fosse felice quanto, piuttosto, un dispetto nei miei confronti. Probabilmente era solo una mia sensazione ma non sai quanto mi facesse stare male.

C’è stato un momento – anzi tanti momenti – in cui, confessiamolo, siamo stati sicuramente patetici a suonare rock progressivo o pop anni ottanta o elettronica o addirittura punk. Conservo parecchie foto di quei diversi periodi e le riguardo quando ho voglia di farmi qualche risata, o di provare un po’ di tenerezza, rivedendoci in quei costumi assurdi.

Poi, buffo no?, abbiamo fatto il giro e ci ritroviamo a suonare il beat degli inizi.

Sei stufa, lo capisco. Ma pensavo che non lo saresti stata mai.

C’è stato un altro momento in cui mi avevano quasi convinta a smettere di suonare. Ma poi è bastato un solo altro concerto in cui ho lasciato succedere quello che succede quando suono con il mio batterista. Cosa ne possono sapere loro? Come si fa a spiegarglielo?

Infine c’è stato un momento, un momento che è durato cinquant’anni e che dura ancora. E durante tutto questo momento tu eri sempre lí, a non perdere mai un colpo, a cantare, a trovare gli ingaggi, a tenere insieme il gruppo… la lista sarebbe ancora lunghissima.

Ecco, ti scrivo questa lettera perché ho sentito il bisogno di dirti grazie per tutto questo momento.

E anche se lo specchio mi restituisce quella che sono e i dolori alle mie ossa pure e il basso si fa sempre piú grande e pesante, io ci sono e continuerò a esserci e continuerò a girarmi verso di te sapendo di poter contare sulla tua solidità, su chi da una vita mi sorregge mentre mi «tiene il tempo».

Con infinita riconoscenza.

Diana

Si pettinò con cura controllandosi nello specchietto retrovisore del ducato. Ripensava alle parole che Bertini gli aveva detto nel pomeriggio. Sembrava sinceramente mortificato nel comunicargli che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui li poteva pagare. Era anche la prima, in cinquant’anni, in cui I nuovi guai non avevano un ingaggio successivo.

Si sentí pronto. Era il cantante, il batterista e il responsabile di quel gruppo e c’era uno show da tenere. A testa alta e con passo spedito entrò nel locale, attraversò il salone e si sedette sullo sgabello di fronte ai suoi tamburi. Alcune coppie di quelli dall’altra parte erano già abbracciate e pronte per un lento. Piero lo accolse con un’alzata di sopracciglia, Diana con un sorriso. Sulla mano malata il solito nastro adesivo gli teneva bloccata la bacchetta.

Alzò le braccia e toccò le bacchette l’una sull’altra quattro volte.

Dalla sua postazione poteva vedere tutto. Vide la pista piena di ragazzi gioiosi, scatenati e sudati. Ballavano e strillavano naturalmente fiduciosi nei propri corpi e nella bellezza possibile. Vide Piero, scattante, che sembrava fare sesso con la propria chitarra oppure mettersela fra le gambe a esibire la piú incontenibile delle erezioni in una ridicola, ma neanche poi cosí tanto, imitazione hendrixiana. Vide Lory cercare di tenere il ritmo con le mani ma, come sempre, non riuscire ad andare a tempo. Felice per lei, per lui, per tutto, era bella piú del solito. Vide il marito di Diana salire in piedi sulla sedia a rotelle e ballare, serio e concentrato come a inventare passi nuovi per mode imminenti. Vide la candela sull’altarino spegnersi e contemporaneamente vide Michele, che su quella candela aveva soffiato, accomodarsi su un organo a canne e dare al sound il solito tocco celestiale. Ora ancora di piú. Vide Diana e, che fossero le luci o no, ne vedeva l’aura in uno spettacolo difficile da sostenere. Vide Diana ancora una volta.

Sentí che non stava suonando la batteria, ma ne faceva parte. Era come se stesse suonando se stesso e le pelli erano la sua pelle e i tamburi erano perfettamente accordati e lo era lui e i suoi piedi erano pedali e i suoi denti il charleston e non c’era piú confine fra corpo e parti meccaniche e poi lí, sul suo petto, dove il battente picchiava sulla cassa, sentiva tatuata con un glorioso lettering anni sessanta la scritta I nuovi guai.