Illustrazione decorativa

IL GRANDE CAPO

Il corpo di Kat svanisce mentre attraverso l’uscita. Non sono sicuro di cosa aspettarmi adesso: sono abituato a sentirmi staccare il disco da dietro la testa e spero che questa esperienza si dimostri un po’ meno dolorosa. Oltrepasso la porta e mi trovo in una calda stanza luminosa, una specie di atrio tra due mondi… tutto quello che devo fare è continuare a camminare. Ma non sono solo. C’è mio nonno sul mio cammino. È più giovane stavolta, e a parte il vestito pacchiano stile anni Sessanta, mi assomiglia moltissimo.

«Andiamo a salvare la damigella in pericolo?»

«E anche un po’ di altre persone, si spera. Per cui non ho tempo per chiacchierare.»

Lui sorride. «Hai fegato, l’avrai di certo preso da me.»

«Davvero?»

«Perché no?» ribatte. «Una volta ero come te. Però… lo vuoi un piccolo consiglio?»

«Cosa?» chiedo, infastidito che mi stia trattenendo dal raggiungere Kat.

«Non pensare di aver capito tutto. Sembra che tu abbia individuato un problemino, là nel pazzo mondo, ma quelli come noi, anche quando hanno tutte le rotelle che funzionano, spesso finiscono sul fondo di un canale.»

Mi aspettavo dei complimenti e invece ricevo un cazzo di avvertimento. Lo oltrepasso e attraverso la luce. Quando riesco a sentire le mie mani, mi tolgo il visore. La prima cosa che vedo è il soffitto di una capsula, che dista la bellezza di dieci centimetri dalla mia faccia. Alla fine mi hanno trovato, e mi sa che uscire non sarà così facile. Mi spingo verso il fondo e incastro la punta della scarpa sotto la leva che apre lo sportello. Ma quando tiro, non si muove.

Qui dentro ci saranno almeno quaranta gradi, il che sarebbe fantastico, forse, se fossi nudo. Il sudore dalla fronte mi sta colando negli occhi ed è impossibile asciugarlo. Provo di nuovo a spingere la maniglia, e di nuovo non si muove. Il cuore comincia a battere più veloce. Probabilmente è la mia immaginazione, ma sento che comincia a mancarmi l’aria. Sono sull’orlo di un grave attacco di panico, quando sento lo sportello aprirsi e nella capsula entra un soffio di aria fresca.

Qualcuno tira fuori il ripiano. La sua faccia appare sopra di me.

«Eaton» dice.

«Ehi, Wayne» ribatto, cercando di alzarmi a sedere. «Spero non ti dispiaccia se ti chiamo Wayne.»

Lui fa qualche passo indietro appoggiandosi alla parete di capsule di fronte alla mia, dove solo due loculi sono accesi. «Non stare ad alzarti» dice, indicando il ripiano di metallo su cui sono sdraiato. «Tornerai dentro presto, non appena mi avrai detto dove hai preso i dischi.»

«Sai cosa? Penso che resterò nel mondo reale per un po’» ribatto, mentre scivolo giù dal ripiano e mi metto in piedi. Sento le gambe instabili, ma faccio del mio meglio per nasconderlo. «Ho giocato troppo ultimamente. Ho bisogno di passare più tempo all’aria aperta. E per quanto riguarda i dischi, vai all’inferno.»

«Temo che questa non sia la risposta giusta, figliolo.» Estrae una pistola e io quasi scoppio a ridere.

«Non è un po’ all’antica?» gli chiedo.

«Io sono un uomo all’antica, uno che va dritto al sodo. Immagino che potrei andare a caccia dei miei nemici in qualche mondo virtuale, ma preferisco piantare proiettili in testa o far crollare qualche pavimento marcio.»

«Eri tu quella sera alla fabbrica?»

«Già, e ora sai esattamente fin dove sono disposto a spingermi se non fai quello che ti chiedo.»

«Lasciami indovinare, mi ucciderai?»

«Esatto, e lascerò vivere i tuoi amici.»

Non capisco, finché lui non fa un passo di lato, scoprendo le capsule accese alle sue spalle. In una c’è del movimento. Le mani di una ragazza sono premute contro l’interno del vetro come se stesse cercando di forzare lo sportello per uscire. Ma non c’è spazio per muoversi, nessun posto in cui andare. Conosco quel panico, la sensazione di essere sepolti vivi, e mi sento quasi venir meno quando mi rendo conto che la ragazza è Kat. I miei occhi si spostano di scatto sulla capsula accanto. Vedo delle dita dei piedi muoversi spasmodicamente e intravedo delle gambe maschili. Dev’essere Milo Yolkin.

«Immagino non avessi previsto questa svolta negli eventi, eh?» mi irride Wayne Gibson con un sorrisetto soddisfatto. «Le capsule non si aprono dall’interno, me ne sono assicurato personalmente. Katherine e Milo sono usciti da Otherworld, ma credo che in questo momento si stiano pentendo di quella decisione. Ho interrotto il flusso dei medicinali, perciò non sono più paralizzati, ma non andranno comunque da nessuna parte. E così resteranno, a meno che tu non mi dica dove hai preso i dischi. Se fossi in te, non li farei aspettare. Quanto tempo pensi resisteranno prima di impazzire?»

Ho visto gente morire in innumerevoli modi, ma nessuno è paragonabile all’orrore appena descritto da Wayne Gibson. «Sei un maledetto mostro» ringhio.

«Niente affatto. Vi sto dando la possibilità di tornare in Otherworld. L’uscita d’emergenza di Milo però dovrà sparire. Lui potrà tornare qui, di tanto in tanto; invece, tu dovrai restare nel suo piccolo e sgradevole mondo. Ma diamine, è meglio delle alternative, non ti pare?»

«Perché lo fai, Wayne?» chiedo, cercando di guadagnare tempo. «Sono curioso. Che cosa muove un uomo come te? I soldi?»

«No, è il progresso, figliolo. Be’, anche una grande quantità di soldi; ma soprattutto il progresso. Ha sempre richiesto dei sacrifici. Sai quanti uomini sono morti per costruire il ponte di Brooklyn? O il canale di Panama? Alla gente come il signor Yolkin qui piace pensare che sia il loro cervello a mandare avanti il mondo. Ma quelli come me sanno che è il sangue il vero motore. Ora dimmi quello che mi serve sapere, Eaton. Ne ho abbastanza di chiacchiere.»

«Anche io» rispondo. «Spara pure.»

Aspetto il colpo di pistola, invece le mie orecchie vengono aggredite da un altro suono. È partito un allarme e una luce rossa sta lampeggiando sopra la capsula di Milo. Wayne Gibson ha l’espressione di chi si è appena preso un pugno in faccia. Rimette la pistola nella fondina e guarda attraverso la finestra della capsula, poi sfila il chiavistello e tira fuori il corpo.

Rimango impietrito. Milo Yolkin non sembra quasi più umano: il suo corpo è così emaciato che si vede ogni singolo osso dello scheletro; scuri cerchi viola gli circondano gli occhi e la testa rasata è coperta da strane chiazze marroni. Sul monitor del battito cardiaco dentro la capsula si forma una linea piatta.

«Aiutami, dannazione!» grida Wayne. «Ci serve vivo!» Ha cominciato la compressione del petto e la rianimazione cardiopolmonare. Ma ormai è tutto inutile, persino io me ne rendo conto.

Sfruttando il momento, gli strappo la pistola dalla fondina con la mano sinistra mentre con la destra lo colpisco in faccia. Altri tre pugni e Wayne è a terra. Sollevo il piede e mi sto preparando ad ammazzarlo a calci, quando intravedo Kat dentro la sua capsula. Ci vuole tutto l’autocontrollo di cui sono capace per arretrare davanti al baratro. Metto giù il piede e punto la pistola contro il patrigno di Kat.

«Alzati e sali lì» gli dico, indicando il ripiano di metallo scorrevole da cui sono appena sceso.

Lui guarda la pistola e poi me. «Non sparerai» dice, ansimando.

«Ne sei sicuro?» chiedo, dandogli un veloce calcio nella pancia. «Hai idea di quante persone ho dovuto uccidere per sopravvivere in Otherworld? Credi davvero che una in più farebbe qualche differenza? Sali su quel dannato ripiano.»

«Spara» dice lui.

Si sente un botto assordante e non capisco che cosa è successo finché non vedo Wayne a terra. Guardo la pistola nella mia mano e il dito che ha appena premuto il grilletto. Wayne geme mentre una pozza di sangue si allarga intorno a lui.

Che cazzo ho fatto?

Mi infilo l’arma nella cintola dei pantaloni, apro la capsula di Kat e la tiro fuori.

«Simon!» esclama lei con voce strozzata mentre mi sfilo la maglietta e la aiuto a indossarla. «Che cosa è successo a Wayne? Oddio, quello è Milo?»

«Ti spiegherò tutto quando saremo al sicuro, ma prima dobbiamo uscire da qui.»

Kat lascia scivolare i piedi per terra e grida per il dolore. «Ho qualcosa che non va alla gamba.»

«Aggrappati al mio collo» le dico, sollevandola tra le braccia. Anche lei mostra i segni del tempo trascorso nella capsula. È leggera come una piuma.

«E gli altri?» mi chiede.

«Non possiamo salvarli, se moriamo. Torneremo a prenderli.»

La porto su per le scale e nel corridoio. Quando arriviamo all’ingresso della clinica, diventa chiaro che non riusciremo ad andare oltre. Una colonna di suv neri si è fermata di fronte all’edificio e gli uomini che ne sono usciti stanno già varcando le porte, lanciandosi all’attacco. Io ho la pistola nella cintola, ma dovrei mettere giù Kat per prenderla.

«Vai!» dice lei. «Lasciami qui ed esci da qualche altra parte.»

«No.» Ricordo quando Carole ha detto la stessa cosa. Ma Carole si stava sacrificando per salvare me. Io invece sto salvando me stesso… non avrebbe senso sopravvivere se Kat dovesse morire.

Poi scorgo un movimento nel parcheggio, e capisco che cosa sta per accadere come se in qualche modo fossi riuscito a leggere nel pensiero di Busara. Mi butto in ginocchio dietro uno dei divani della reception una frazione di secondo prima dello schianto. Kat grida mentre il vetro vola in ogni direzione. Grossi frammenti si conficcano nei muri. Un istante dopo, sono già in piedi con Kat tra le braccia. La macchina di Busara è in mezzo all’ingresso. Apro la portiera posteriore e vi butto dentro Kat, poi mi lancio dietro di lei.

La portiera è ancora aperta quando usciamo sfondando la facciata dell’edificio, slittiamo su un tratto d’erba e ci lanciamo giù per il vialetto e poi in Dandelion Drive. Busara ignora tutti i semafori rossi sulla strada che esce da Brockenhurst. Io riesco a chiudere la portiera, ma nessuno pronuncia una parola finché non raggiungiamo l’interstatale I-95. Non so neanche se siamo diretti a nord o a sud.

«Quindi?» chiede infine Busara.

Potrei passare le prossime tre ore a raccontare ogni dettaglio, ma tutto si ridurrebbe a due frasi. «Milo è morto» mormoro «ma tuo padre no.»

Busara sussulta e la macchina sbanda per un momento. «Cosa?»

«L’abbiamo visto in Otherworld, è intrappolato nel ghiaccio dentro la grotta di Magnus» dice Kat.

«E il suo corpo?»

«Dev’essere alla clinica» rispondo.

«Quella da cui siamo appena venuti via?» geme Busara.

«Mi spiace, prometto che torneremo a prenderlo. E anche Gorog. E tutti gli altri.»

«Non saranno più là» dice Busara. «La Compagnia farà sgombrare quell’edificio prima del tramonto.»

«E ci cercheranno dappertutto» aggiunge Kat.

«Non abbiamo soldi e non possiamo usare le carte di credito» fa notare Busara. «E nessuno di noi può tornare a casa.»

Ma io so cosa fare.

«Credo sia ora di andare a trovare il mio amico Elvis.»