UNA VISITA
Deve essere appena passata la mezzanotte. Sto tornando da Kat quando, a metà corridoio, le mie gambe si bloccano prima che io sappia il perché. Il cervello si mette rapidamente al passo e allora capisco: la porta della camera è socchiusa. Forse è solo un’infermiera che dà un’occhiata, ma non lo so per certo. Per cui mi avvicino in punta di piedi e sbircio dentro. C’è qualcuno chino sopra il letto. È magro e indossa jeans e una felpa col cappuccio. Assomiglia molto alla sagoma che ho visto alla Elmer’s appena prima che il pavimento collassasse. Lascio cadere il caffè e faccio un balzo in avanti, afferrando l’intruso per la felpa. Il grido che sento è inconfondibilmente femminile. Il cappuccio cade indietro, scoprendo un collo elegante.
«Busara?» domando, anche se la vedo chiaramente. È solo difficile credere che sia lei.
«Scusa, pensavo fossi andato a casa. Non volevo spaventarti.»
«È notte fonda. Che cosa ci fai qui?» chiedo. Poi mi torna in mente il video sul suo computer a scuola e la confusione si trasforma rapidamente in rabbia. «Aspetta un momento, stavi filmando?»
«No, no» dice Busara. «Non ho la videocamera con me.» È calma, troppo calma. Forse è davvero un androide, in fondo.
«Stronzate!» È allora che noto il braccialetto di plastica intorno al suo polso. «Cos’è questo?» domando, afferrandola e tirandole il braccio verso di me per guardare meglio. Leggere il suo nome e la sua data di nascita sulla striscia di plastica mi spiazza. «Sei ricoverata qui?»
Lei abbassa il braccio e copre il braccialetto con le dita come se se ne vergognasse. «Ho problemi di cuore. Passo molto tempo in ospedale. Il mio cardiologo è su questo piano.»
«Ah.» Questo spiega tutte le sue assenze a scuola. Mi sento un coglione. «Scusa.»
«Non ti preoccupare» dice lei. «Come stai?»
È una domanda semplice, ma mi scopro incapace di rispondere. La mia bocca è aperta, ma per la prima volta nella mia vita non esce nessuna parola. Rimaniamo in piedi l’uno accanto all’altra a guardare la ragazza nel letto. Quel che rimane dei capelli di Kat è sparso sul cuscino e i suoi occhi sono nascosti dal sottile visore nero della Compagnia.
La vista mi si annebbia e una lacrima mi scivola sulla guancia fino al labbro prima che possa fermarla. Ho passato ore da solo in questa stanza e non sono mai crollato. Poi arriva una ragazza a caso e perdo il controllo. La presenza di Busara mi fa rendere conto di essere completamente solo. Non voglio la sua simpatia… voglio quella di Kat. L’unica persona a cui mi sarei rivolto non c’è più. Io sono qui per lei, ma non c’è nessuno qui per me.
«Il mio dottore dice che Kat ha una cosa chiamata sindrome locked-in» dice Busara.
Sono grato di poter rispondere con un cenno del capo mentre mi asciugo gli occhi sul collo della maglietta.
Busara distoglie lo sguardo da me e torna a fissare Kat. «Sembra si stia propagando.»
Mi schiarisco la gola. «Cosa vuoi dire?»
«Ho saputo che ce l’hanno anche due degli altri ragazzi che sono sopravvissuti all’incidente alla fabbrica. West e Brian. Sono stati trasferiti in una struttura a lunga degenza, nel primo pomeriggio.»
Chissà se è la stessa dove manderanno presto Kat. Un posto dove i corpi difettosi vengono tenuti puliti e in ordine mentre le menti intrappolate dentro aspettano la morte. La mia unica speranza è che la Città Bianca le abbia dato la libertà.
«È sorprendente» continua Busara quando vede che non rispondo. Sembra impaziente di tenere in vita la conversazione. «La sindrome locked-in non è molto comune, sai?»
Non lo sapevo, e mi chiedo come mai lo sappia lei.
La diffidenza deve trasparire sul mio viso, ma la cosa non la ferma. «Anzi, è piuttosto rara. Eppure tre ragazzi dei quattro sopravvissuti all’incidente ce l’hanno. Secondo te, quante erano le probabilità che accadesse una cosa del genere?»
Mi guarda come aspettandosi una risposta, ma tutto quello che posso offrirle è un’alzata di spalle.
«Se fossi il quarto ragazzo mi sentirei piuttosto fortunato in questo momento» aggiunge.
Un’immagine mi balena in testa e mi ricordo che avevo intenzione di indagare su una cosa. «Il quarto ragazzo è Marlow Holm. Lo sapevi?»
Busara annuisce.
«Che altro sai di lui?» chiedo. «Hai scoperto qualcosa di nuovo?»
«Non molto, in realtà. Dai suoi vecchi post sui social media sembrerebbe che lui e sua madre siano stati costretti a lasciare la California all’improvviso. Ma perché lo chiedi? Pensi che Marlow c’entri qualcosa con quello che è successo a Kat?»
È stato Marlow a proporre la festa. È anche l’unico a esserne uscito illeso. E la sua improvvisa partenza dalla California sembra… sospetta. «Non so ancora cosa pensare» rispondo.
La stanza rimane silenziosa più a lungo di quanto vorrei, ma non mi viene in mente niente da dire. Alla fine è Busara a rompere il silenzio: «L’ami molto, vero?»
Amore è una parola troppo piccola per quello che provo. Come faccio a spiegare che prima di Kat niente era reale? Le mie affezionatissime tate erano pagate per esserlo. Il giorno prima mi abbracciavano e quello dopo sparivano. I ragazzi a scuola giocavano con me perché i nostri genitori potessero conoscersi. Molti non facevano neanche finta di trovarmi simpatico. Poi ho incontrato Kat e lei mi ha scelto. Nessuno l’ha costretta o pagata. Io ero la persona con cui lei voleva stare. Quando avevo otto anni Kat è uscita dal bosco e mi ha liberato. E io passerò tutta la vita a ringraziarla di averlo fatto.
«Sì» dico a Busara. «La amo. Kat è tutto il mio mondo.»