LA VERITÀ
Sono seduto sulla sponda di un canale. L’acqua è marrone e in superficie ristagna uno strato di schiuma: ma anche se sembra cappuccino e ha un odore schifoso, avverto lo stesso l’impulso di gettarmici dentro. Che sollievo sarebbe mettere fine a tutto. Passare l’eternità sul fondo calmo e freddo del canale Gowanus.
«Ti stavo aspettando.» Mio nonno è seduto accanto a me, le nostre gambe penzolano dalla sponda. «Quanto tempo è che non dormi?»
«Tu sei morto e io non sono in vena» rispondo. «Vattene.»
«Sono morto, certo. Ma non è che me ne sia proprio andato. Vedi questo?» Allunga una mano e mi dà un buffetto sul naso con il dito medio. «Questo qui significa che sono immortale. Sono dentro ogni tua cellula. Se è la realtà che cerchi, ce l’hai stampata proprio in mezzo alla faccia.»
Non molto tempo fa questo pensiero mi avrebbe fatto sentire meglio, ma stasera non mi conforta affatto. Carole è morta perché era convinta che fossi l’Eletto. Ho visto centinaia di film di fantascienza e ho letto un milione di graphic novel, e in nessuno di loro l’Eletto era il nipote di un gangster dal naso grosso.
«E così… che cosa hai intenzione di fare?» mi chiede.
«Mi vuoi lasciar stare, cazzo? Non merito un minuto di pace?»
«No. Quella donna è morta per aiutarti, glielo devi. Voglio sapere che cosa hai intenzione di fare.»
«Non lo so!» grido.
«Ehi! Perché urli?» sussurra qualcuno.
Mi guardo intorno. Mio nonno è sparito. Sono dentro il fortino che io e Kat abbiamo costruito nel bosco che separa le nostre case. Allungo un braccio e faccio scorrere le dita sul legno.
«Stai bene?» chiede Kat. È seduta a gambe incrociate di fronte a me, il sacco a pelo di Yoda stretto intorno alle spalle. Cerco di memorizzare ogni dettaglio di lei. I capelli color rame, gli occhi nocciola. E se fosse l’ultima volta che la vedo?
«No» rispondo «non sto bene. Ho bisogno di te in questo momento.» Che altro c’è da dire?
«Sono qui. Sono sempre qui.»
Darei qualunque cosa perché fosse vero. «Tu sei un sogno dentro un mondo virtuale.»
«Io sono la bambina che hai incontrato nel bosco quando avevi otto anni. Anche quando non mi vedi, io ci sono. Ho contribuito a fare di te quello che sei.»
È vero, lo so. «Che cosa devo fare?»
«Devi andare avanti.»
«Sono venuto qui solo per te» confesso. «Non sono quello che credono loro.»
«Forse non lo eri prima» mormora Kat «ma lo sei ora.»
«Non funziona così.»
«No? Pensi di venire in un posto come Otherworld e uscirne uguale a come sei entrato? Non è solo il disco a essere pericoloso. È Otherworld stesso. Ti cambia.»
Penso agli avatar che si danno la caccia nella giungla di Nastrond. «La maggior parte della gente che viene qua è disturbata già di suo.»
Kat si stringe nelle spalle. «Molti sì. Otherworld è stato programmato per assecondare qualunque desiderio. Puoi andartene in giro a strafogarti di cibo, uccidere, accumulare ricchezze, scopare, tanto non c’è nessuno che ti giudica o che può costringerti a smettere. Senza dubbio gli psicopatici non mancano… ma cosa credi che succeda a tutti gli altri?»
«Non capisco. È solo realtà virtuale.»
Kat si sporge verso di me. «No. Vedi, è questo il grande segreto» sussurra. «Non è virtuale se cambia le persone. Tutto questo è reale, Simon. È reale.»
La prima cosa che vedo quando mi sveglio è l’Uomo d’argilla. Mi dà le spalle e sta guardando la sepoltura di Carole. Io e Gorog abbiamo fatto del nostro meglio per seppellirla, ma la tomba non è venuta un granché. Il paesaggio tutto intorno si compone di rocce rosse, ricoperte da un sottile strato di polvere scarlatta. Il vento solleva vortici di sabbia che vagano senza meta sopra la landa desolata. Io e l’orco abbiamo passato ore in cerca di pietre per coprire l’avatar di Carole. Chissà se è ancora lì, sotto la pila.
La testa dell’Uomo d’argilla è china in segno di lutto. All’inizio del mio viaggio aveva insistito perché lasciassi perdere Carole e Gorog, insinuando che mi avrebbero distratto dalla mia missione. La verità è che la missione sarebbe finita giorni fa senza di loro.
«Era ora che ti presentassi a renderle omaggio» dico.
«Com’è morta?» mi chiede.
Mi alzo e mi guardo intorno. Anche Gorog è sveglio: ha le braccia strette intorno alle gambe e la fronte appoggiata sulle ginocchia. «Stavo per attaccare l’Elementale di Mammon e per punizione sono stato mandato a Nastrond. Carole mi ha seguito fin lì e si è sacrificata per salvarmi la vita. Aveva questa idea malata che io sarei quello che libererà tutte le persone imprigionate dal disco.»
«Tu sei l’Eletto» mormora tra sé l’orco, e mi rendo conto che ha un disperato bisogno di crederci.
«Non è vero» insisto. «Tu hai guardato troppi film.»
Gorog solleva lo sguardo su di me. «Ah, sì? Be’, lo stesso vale per i nerd che hanno progettato questo posto» ribatte. «Forse l’hanno progettato in modo che ci fosse un Eletto.»
«Non credo ci sia un Eletto» interviene l’Uomo d’argilla.
«Visto?» dico a Gorog.
«Ma ce ne potrebbero essere due» prosegue l’Uomo d’argilla. «Se così fosse, Simon è uno dei due.»
«Chi è l’altro?» Capisco dalla voce che Gorog spera di essere il secondo. Ma non è così. Io so esattamente a cosa sta pensando l’Uomo d’argilla.
Sono troppo esausto e demoralizzato per continuare con questi giochi. «Ho bisogno di sapere chi sei nella vita reale» dico. «Non vado da nessuna parte finché non me lo dici.»
«Capisco» risponde l’Uomo d’argilla. «Ed è ora di mostrartelo. Lascia che ti porti fuori da Otherworld e ti spiegherò tutto.»
«No.» Non esiste. «Non lascio Gorog da solo. Parleremo qui.»
«Gorog è al sicuro, per ora. Non ci sono Bestie o Figli in questa terra disabitata. Veglierà sul tuo avatar mentre tu torni nel New Jersey.»
Sto per rifiutare di nuovo, ma Gorog mi dà una pacca sulla schiena con la sua mano gigante. «Va bene» mormora. «Non ho bisogno della baby-sitter. Mi troverai esattamente qui quando tornerai.»
«Sei sicuro?» chiedo.
Lui alza gli occhi al cielo. «Sì, papà. E prometto di non usare i fornelli mentre sei via.»
Il triste sorrisetto di Gorog è l’ultima cosa che vedo prima di essere abbagliato da una luce accecante. Sono di nuovo alla Elmer’s e il sole entra luminoso dalle finestre senza vetri. C’è qualcuno chino su di me, ma non riesco a vedere altro che il contorno sfocato di una testa. Non è comunque la testa che mi aspettavo.
«Oddio, hai proprio bisogno di un bagno» dice una voce femminile. «Perché non hai usato i pannoloni che ti avevo lasciato?»
Riconosco la voce proprio mentre comincio a mettere a fuoco i lineamenti. «Busara?» balbetto. «Sei tu l’Uomo d’argilla?»
«Già» conferma lei mentre mi sforzo di mettermi a sedere. «Sono stata io a mandarti il disco, e a infilarti in questo casino. Mi dispiace tanto. Ecco.» Tira fuori dallo zaino una bottiglia d’acqua e una barretta energetica, poi si siede accanto a me sul pavimento. «Ne hai decisamente bisogno.»
Bevo l’acqua a grandi sorsi e mangio la barretta mentre il mio cervello si ritara lentamente. Avrei dovuto immaginare che dietro l’Uomo d’argilla poteva esserci Busara, ma ero convinto fosse Martin. «Come hai fatto a procurarti un disco?» chiedo, rendendomi conto mentre parlo che deve averne uno anche lei.
«Mio padre si chiamava James Ogubu. È stato lui a inventarlo… e gli piaceva portarsi a casa il lavoro. Io ho il disco originale, quello che indossava lui. Nessun altro sa neanche che esiste. Mi permette di entrare e uscire ogni volta che voglio. Il disco che ho dato a te è quello che mio papà aveva fatto per me. I due dispositivi sono collegati, è per questo che sono in grado di trovarti dentro Otherworld.»
La notizia mi prende alla sprovvista e smetto di masticare. «Tuo padre lavora per la Compagnia?» chiedo con la bocca piena.
«Non più» risponde Busara. «Sono abbastanza sicura che Milo Yolkin l’abbia fatto uccidere.»
«Milo Yolkin ha fatto… cosa?» Sputo pezzettini di barretta dappertutto. Non so bene perché trovo sconvolgente questa notizia, dopo tutto quello che ho visto in Otherworld e alla clinica. Eppure faccio ancora fatica a credere che il giovane genio in sneaker della Compagnia possa essere personalmente responsabile di così tante morti. È come scoprire che il diavolo ha l’aspetto di un cocker spaniel.
«Scusa» dice Busara. «Mi è scappato. Avrei dovuto arrivarci per gradi. Non volevo dirtelo così.» Fa una pausa come per raccogliere i pensieri, come se stesse cercando di metterli in un ordine che abbia senso per me. «Quando mi è stata diagnosticata la malattia al cuore, i dottori dissero ai miei genitori che non avrei mai avuto una vita normale. Mia mamma pianse per settimane, ma mio padre si rifiutò di accettarlo e cominciò a cercare una soluzione… e lui era il genere di persona che le soluzioni le sa trovare. Dirigeva il laboratorio innovazioni della costa occidentale della Compagnia, per cui aveva accesso a soldi e risorse e ai migliori ingegneri del mondo.»
«Stai dicendo che il disco è stato creato per te?»
«È così che è iniziata, ma poi il progetto diventò un’ossessione per mio padre. Anche dopo che fui operata al cuore e cominciai a stare meglio, la sua squadra continuò a lavorarci. Dopo un po’ finirono con l’inventare il disco e il visore, e crearono il software della Città Bianca. Lo scopo del progetto era aiutare le persone con problemi fisici a vivere una vita migliore. Anche una ragazzina con una malattia cardiaca grave, che nel mondo reale rischiava di finire bloccata a letto, nella Città Bianca avrebbe potuto correre, ballare e giocare.»
Ricordo i prati che circondano la Città Bianca e mi immagino una Busara bambina saltellare tra i fiori e le farfalle. «Sembra fantastico… ma allora come ha fatto a degenerare così?»
Busara sospira. «Due parole: Milo Yolkin. Venne a sapere del progetto durante la fase di sperimentazione. Era abbastanza sveglio da capire che l’idea di mio padre avrebbe potuto cambiare il mondo. E non solo per il disco. La grafica e l’Intelligenza Artificiale erano avanti di decenni rispetto a qualunque cosa realizzata dalla Compagnia. Così Milo trasferì l’intera squadra di mio padre a Brockenhurst… abbastanza vicina a Princeton, dove c’è il quartier generale della Compagnia, ma lontana a sufficienza per poter lavorare sul progetto in assoluta segretezza.»
«È stato allora che ti sei trasferita nel New Jersey?»
«Sì, l’anno scorso. Prima che cominciassero a ingrandirlo, l’edificio di Dandelion Drive era il laboratorio di mio padre.»
I pezzi cominciano a combaciare. «Mi ero domandato come fossi riuscita a farmi entrare nella clinica.»
«Non ero sicura di farcela. Ma ho accesso ai vecchi file di mio padre e, per nostra fortuna, la clinica fa riferimento ancora alla stessa agenzia di reclutamento. A loro piace ingaggiare ex militari per tutti i lavori di routine. Mio padre l’ha sempre trovato strano. Ora è perfettamente chiaro. Vogliono persone che eseguano gli ordini e tengano la bocca chiusa. Papà non faceva mai nessuna delle due cose… è questo che l’ha ucciso.»
Ancora una volta, siamo tornati all’argomento omicidio. Quanta gente è morta a causa di questo maledetto disco? «Ancora non capisco perché Milo volesse tuo padre morto. Che diavolo è successo?»
«Durante i test saltarono fuori bug dappertutto. Il software della Città Bianca ne era pieno. Papà voleva che la città sembrasse reale, per cui aveva creato un ecosistema autosufficiente, dove le piante e gli animali crescevano, si riproducevano e morivano. Ma cominciarono a comparire strane specie ibride; e i PNG, che mio padre aveva dotato di quella che lui chiamava Intelligenza Artificiale Emergente, presero ad agire in modi imprevedibili. Lui ebbe la sensazione di perdere il controllo dell’universo che aveva costruito. Ma contava di poterlo sistemare, anche a costo di ripartire da zero. Il problema più grosso però non era nel software. Era nel disco.»
La mia risata è amara. «Già, ammazza la gente. Direi che è un problema piuttosto grosso.»
«Il disco manda segnali al cervello convincendo chi lo indossa che tutto quello che odora, tocca, o assapora nel mondo virtuale è reale. Il che è meraviglioso se cavalchi un pony o mangi una bistecca. Ma è impossibile creare un ambiente virtuale in cui accadono solo cose belle, e papà se ne rese conto un giorno mentre era nella Città Bianca per testare il dispositivo. Gli cadde di mano un tablet e gli finì su un piede, facendogli male. Il suo cervello era assolutamente convinto che il dolore fosse reale. Fu allora che capì che il disco era pericoloso. Se una persona fosse stata ferita seriamente dentro la Città Bianca, il suo cervello avrebbe potuto reagire disattivando la parte del corpo ferita. E poteva essere una parte del corpo senza la quale non è possibile vivere.»
«Che cosa fece tuo padre quando lo scoprì?»
«Fermò il progetto. Alcuni ingegneri della sua squadra pensarono che fosse completamente impazzito, ma lui aveva capito che era troppo rischioso continuare. E a quel punto si presentò a casa nostra Milo.»
«Milo Yolkin è stato a casa tua? L’hai conosciuto?» Persino ora, con tutto quello che so, provo una fitta di invidia. La ragazza vestita con una felpa che siede a gambe incrociate davanti a me sul ruvido pavimento di una fabbrica è stata al cospetto della grandezza.
«Oh, certo. Milo è un tipo supercarino. Davvero affascinante e cortese. Non immagineresti mai che è il diavolo incarnato. È volato qui in elicottero da Princeton. È atterrato nel nostro cortile. Voleva parlare di Otherworld con mio padre. Disse che stava lavorando in segreto sul suo rilancio e che aveva preso in prestito alcune cose dalla Città Bianca.»
«Preso in prestito? Tuo padre gli aveva dato accesso al software della Città Bianca?»
Busara fa una specie di risatina carica di rabbia. «Ovviamente no. Ma Milo possiede la Compagnia, e la Compagnia possedeva il laboratorio. Milo si prese quello che voleva e mio padre non poté farci molto. Non sono neanche sicura che sapesse che il suo capo vi aveva accesso finché il progetto di Milo non cominciò ad andare male.»
«Fammi indovinare. Anche Otherworld era pieno di bug.»
«Già. Letteralmente. Milo aveva preso l’ecosistema autoreplicante creato da mio padre per la Città Bianca e aveva dato ad alcuni PNG, soprattutto Elementali, una vera Intelligenza Artificiale. Quando Milo venne da noi, l’ecosistema di Otherworld era completamente impazzito. Bestie ed Elementali si stavano riproducendo, dando origine a strane creature.»
«I Figli.»
«Già. Immagino che all’inizio Milo abbia cercato di liberarsene, ma c’era un piccolo problema. Mio padre era stato molto attento a non dare ai PNG della sua Città Bianca una vera Intelligenza Artificiale. Milo invece era andato fino in fondo. Aveva cercato di creare un mondo talmente reale che i giocatori non avrebbero mai voluto uscirne. Ora aveva tutte queste creature impreviste con cui fare i conti, creature pericolose che non volevano ospiti umani in Otherworld. E i Figli non erano robot. Erano consapevoli. Milo non sopportava l’idea di sterminarli. Voleva che mio papà lo aiutasse a trovare un modo per rimediare al disastro che aveva provocato.»
Qualcosa non quadra. L’uomo che ha ucciso decine di persone solo per testare la sua nuova tecnologia improvvisamente si intenerisce quando si tratta di uccidere un branco di anomalie digitali?
«Tuo padre l’ha aiutato?»
«Non poteva fare niente. Consigliò a Milo di distruggere tutto, ma lui si rifiutò. Papà disse che era come se non potesse. E fu allora che capì che Milo non aveva solo rubato il software.
Stava usando il disco. Era dipendente da Otherworld.»
«Wow.» Che altro potrei dire? Ricordo quello che mi ha detto Kat nel mio sogno. Otherworld ti cambia. A quanto pare la prima vittima è stata Milo Yolkin.
«Mio padre mi raccontò di aver minacciato di rendere tutto pubblico se Milo non avesse fermato il progetto di Otherworld. La cosa successiva che so è che mio padre è scomparso e Milo si sta preparando a lanciare l’APP di Otherworld per la realtà virtuale. Poi un giorno trovo il coraggio di provare il vecchio apparecchio di mio padre e scopro che la Compagnia sta facendo il beta test del disco, e che hanno collegato la Città Bianca a Otherworld. Immagino siano stati costretti a farlo. Nessuno si sarebbe mai fatto davvero male dentro la Città Bianca, e la Compagnia aveva bisogno che i beta tester si ferissero gravemente per poter studiare l’impatto sul corpo. Evidentemente hanno pensato che valesse la pena sacrificare qualche centinaio di persone per eliminare i bug del disco.»
Rimaniamo per un po’ in silenzio mentre rimugino su queste informazioni.
«E quindi, quand’è che arrivo io nella storia?» chiedo.
«Ormai è un po’ che gironzolo per Otherworld, anche se evito i reami. Il mio cuore è troppo debole, qualunque combattimento potrebbe uccidermi. Ma per il resto entro ed esco dal gioco e nessuno sembra accorgersene. L’attenzione degli ingegneri è tutta focalizzata sull’ottimizzazione degli ambienti per il lancio: non hanno tempo per monitorare la landa desolata o le zone di confine, in questo momento. Inoltre, penso che la mia condizione mi tenga fuori dai radar della Compagnia: ai loro occhi, una ragazza malata come me non rappresenta una minaccia. Lo credevo anch’io… sapevo di non poter fare molto da sola. Poi ti ho incontrato nella grotta di ghiaccio…»
«Come mi hai riconosciuto?» la interrompo.
«Stai scherzando? Hai dato al tuo avatar il tuo stesso naso. E la ragazza con cui eri ti ha chiamato Simon.»
«Era Kat.»
«Sì, l’ho immaginato. Dopo il crollo alla fabbrica, ho intravisto un modo per aiutarci a vicenda. Tu volevi salvare Kat; io volevo che Magnus morisse. Tutto quello che dovevi fare era ucciderlo e portare fuori Kat attraverso l’uscita nella grotta. Una volta disattivato in questo modo il suo disco, sarebbe stata al sicuro finché non avessimo recuperato il suo corpo.»
Mi ci vuole un momento per collocare il nome Magnus. Appartiene alla grossa creatura rossa dentro il ghiacciaio. «Non capisco… perché vuoi che uccida Magnus?»
«È lui quello che chiamano il Creatore.»
Immagino questo chiarisca un po’ di cose, ma ancora non capisco perché Busara lo voglia morto. «Il Creatore non fa parte del gioco?»
«No, Magnus è l’avatar di Milo Yolkin!»
A un tratto mi sento incredibilmente stupido. Avrei dovuto fare questo collegamento molto tempo fa, ma pensavo solo a salvare Kat. Poi mi viene in mente un’altra cosa. «Mi hai mentito» dico a Busara. «Mi hai detto che il Creatore faceva parte del gioco.»
Lei deglutisce nervosamente. Deve sentire la mia rabbia che sale. «A questo punto è così. Milo passa quasi tutto il tempo in Otherworld, non toglie quasi mai il disco. È dipendente dal gioco e trascorre le giornate seduto in quella grotta a cercare di capire come correggere la sua creazione. Uccidere il suo avatar è l’unico modo per fermare il progetto.»
«Ma se lui indossa il disco, uccidere il suo avatar significa…» mi fermo. Le cose si stanno riordinando velocemente nella mia testa e la conclusione a cui sto arrivando è completamente folle. «È per questo che mi hai mandato il disco? Vuoi che uccida Milo Yolkin?»
«Sì» ammette lei, anche se non ne sembra molto orgogliosa.
«Perché sospetti che abbia ucciso tuo padre.»
Busara scuote la testa per la frustrazione. Credo non voglia che il suo piano venga liquidato come una vendetta. «Mio padre non è l’unico che Milo ha fatto fuori. Pensa a tutte le persone che sono state costrette a prendere parte al test del disco. Gente come Kat, Carole e Gorog. Milo li sta usando come cavie umane. Sono convinta che la maggior parte dei pazienti coinvolti in quel test non ha neanche la sindrome locked-in.»
«Poco ma sicuro. Ma hai qualche prova?»
«Secondo i documenti di mio padre, il disco induce uno stato simile alla paralisi nel sonno. Le persone addormentate non hanno un controllo consapevole del loro corpo, ma questo non impedisce del tutto di muoversi o parlare. Ricordi la notte in cui mi hai trovato nella camera di Kat? Avevo bucato il tubo della flebo. Quando il liquido è finito, lei ha cominciato a parlare, giusto? Be’, chi soffre davvero di sindrome locked-in non può farlo. Credo che la Compagnia stia drogando i pazienti. C’è qualcosa mescolato nel liquido della flebo che li paralizza. Ne sono sicura.»
Sollevo una mano. «Aspetta un momento.» Abbiamo appena fatto una deviazione in un territorio molto oscuro e inquietante. «Mi stai dicendo che hai manomesso la flebo di Kat all’ospedale? Sulla base di un’ipotesi? E se ti fossi sbagliata?»
Busara spalanca gli occhi. Non credo si sia resa conto di essersi spinta così all’estremo. «Ma non mi sbagliavo» dice.
«Avresti potuto. E, ora che ci penso, sapevi fin dall’inizio che il disco può uccidere chi lo indossa. Mi hai persino avvertito che forse non avrei avuto una seconda vita in Otherworld. Ma sei andata avanti lo stesso e me l’hai lasciato usare.»
«Mio padre pensava che il disco potesse essere pericoloso. Ma ti giuro, Simon, non lo sapevo per certo fino a oggi.»
Comincio a incazzarmi sul serio. «Per cui hai deciso che io sarei stato la tua cavia. Mi hai fatto correre tutti i rischi mentre tu te ne stavi a guardare. Che cosa esattamente ti rende migliore di Milo Yolkin?»
Rimane a fissarmi sconcertata. È chiaro che una risposta non ce l’ha. «Mi dispiace tanto» dice alla fine. Ha l’aria afflitta, ma sono sicuro che rifarebbe tutto da capo. «Ti ho mandato il disco perché ti ho visto in Otherworld ed ero convinta che saresti sopravvissuto. Era l’unico modo per proteggere Kat. Se ti avessi detto la verità, avresti rinunciato ad andare a cercarla?»
«No» ammetto. Anzi, saperla mi rende solo più impaziente di tirare fuori Kat da quel cazzo di posto. Raccolgo il disco e il visore dal pavimento. «Però avresti dovuto essere sincera con me. Grazie per avermi dato l’opportunità di uccidermi. Credo sia ora che torni dentro e finisca la mia missione.»
«No! Non capisci… non devi farlo» esclama Busara. «È questo il motivo per cui ti ho fatto uscire da Otherworld. Carole è morta. Questo significa che finalmente abbiamo la prova che i dischi uccidono per davvero. Possiamo far chiudere la clinica e distruggere la Compagnia.»
Mi passa un telefono. Il display mostra un articolo del «Morris NewsBee», corredato da una foto di Carole. Sembra un po’ più in carne rispetto al suo avatar, ma per il resto è perfettamente uguale. Avrebbe potuto decidere di essere chiunque, al momento della configurazione, ma ha scelto di essere se stessa. Scorro il testo. È un necrologio. Carole Elliot, quarantatré anni. È morta a causa delle ferite riportate in un incidente automobilistico. Le sopravvivono i suoi quattro figli e il marito. E così si scopre che era davvero una casalinga.
Restituisco il telefono a Busara. Mi ci vuole qualche secondo prima di riuscire a parlare. «E che prova sarebbe questa?»
«Tu hai visto Carole morire in Otherworld ieri. Lo stesso giorno lei è morta nella clinica.»
«Non stai ragionando. Questo non dimostra niente. Sarebbe solo la mia parola contro quella della Compagnia. A chi credi che darà ascolto la polizia? A Milo Yolkin, o a un adolescente idiota con precedenti penali?»
Busara rimane zitta. «Okay, è vero» ammette poi piano. «Ma non voglio che torni in Otherworld. Non ero preparata ad aver ragione. È diventato troppo reale, Simon. Carole è morta… potresti morire anche tu.»
«Non ho scelta, devo farlo. Kat è ancora lì, e anche Gorog. Non uscirò più finché non saranno entrambi liberi. Se questo significa uccidere Milo Yolkin, per me va bene.»
«E che succede se muori?» insiste. «Cosa capiterà a tutti quelli intrappolati nel beta test?»
Sinceramente, non ci ho pensato. Da me non dipendono solo le sorti di due persone, ma di ogni paziente ricoverato alla clinica. La mia vita non potrebbe fare più schifo di così. «E va bene» sbuffo. «Kat forse ha delle informazioni che potrebbero aiutarti a fermare la Compagnia, se ci succede qualcosa. Lei ha visto cosa è capitato alla Elmer’s. Ti passerò quelle informazioni non appena l’avrò trovata e le avrò parlato. Se moriamo, dovrai trovare il modo per usarle.»
«Non capisco. Che genere di informazioni potrebbe avere Kat?»
«Ero alla fabbrica la sera del crollo. Ho visto qualcuno gettare un oggetto attraverso un buco nel pavimento dal secondo piano. Quando è caduto di sotto, tutti gli si sono raccolti intorno. È stato quello a far crollare il pavimento. Forse le assi erano marce, o forse erano state sabotate. Ma qualcuno sapeva che la struttura non era in grado di reggere tutto quel peso in un unico punto.»
«Aspetta… hai detto che qualcuno ha lanciato un oggetto? Che tipo di oggetto?»
«Era piccolo e rotondo. E quando è arrivato a terra, ha preso a brillare. Questo è tutto quello che so, ma Kat l’ha visto. Forse ha persino visto la persona che l’ha lanciato. Scommetto quello che vuoi che c’è un collegamento con la Compagnia.»
«Che cosa ha fatto Marlow quando ha visto l’oggetto?» chiede Busara.
«Marlow?» Cerco di ripensare a quella sera. «Ha gridato qualcosa. Credo abbia detto a tutti di allontanarsi.»
L’espressione sulla faccia di Busara in questo momento è impagabile. Per una volta sono stato io a sorprendere lei. «Questo non me l’avevi detto» mormora.
«Be’, ci sono un sacco di cose che non mi avevi mai detto neanche tu» ribatto. Chino la testa in avanti e faccio per sistemarmi il disco dietro la nuca.
«Aspetta» mi ferma Busara. «Dammi ancora un’ora, per favore. Forse c’è un altro modo.»