IL TERRENO SOTTO I PIEDI
Sono passate da poco le dieci e la festa è in pieno svolgimento. Luci di torce danzano alle finestre prive di vetri. Ancora non so bene che cosa sto facendo qui. Se Kat mi becca, andrà su tutte le furie. Però devo sapere perché sta usando gli sfigati della città come copertura. E, per la mia salute mentale, devo scoprire fin dove si spinge questa copertura.
Dietro la fabbrica, ci sono alcune macchine parcheggiate, e all’interno, al primo piano, poco più di una decina di persone. Faccio un sospiro profondo. È ora di entrare.
Negli anni io e Kat abbiamo esplorato svariate volte questo edificio diroccato, per cui non ho difficoltà a sgattaiolarci dentro senza farmi notare e a trovare le scale. Salgo al secondo piano, utilizzando un trucco che mi ha insegnato Kat: spargo su un gradino una manciata di rametti secchi che ho raccolto fuori. In questo modo, se qualcuno dovesse seguirmi, li sentirei spezzarsi. Mi rendo conto di essere al limite della paranoia, visto che nessuno sale mai al secondo piano della Elmer’s. Gira voce che abbiano trovato un cadavere quassù, anni fa. Non ho idea se sia vero o solo una leggenda urbana, ma che sia saggio stare alla larga dal secondo piano è fuori discussione. È decisamente un luogo pericoloso. Le assi scricchiolano sotto i miei piedi e il pavimento è trivellato di buchi difficili da individuare al buio.
Con cautela mi avvicino a uno di questi buchi e mi inginocchio. Il foro è abbastanza grande da poter vedere bene quello che sta succedendo di sotto. La prima persona che riconosco è uno dei quattro dell’Apocalisse, lo psicopatico di nome Brian. Vive a poche case di distanza dalla mia: si è trasferito quando eravamo entrambi in quarta elementare e per presentarsi ha stritolato un rospo tra le mani. Da allora la sua personalità non è affatto migliorata. Ero sempre stato convinto che a quest’ora sarebbe stato in prigione, invece è capitano della squadra di lacrosse, il che lo rende invincibile da queste parti. Sta fumando qualcosa con West, il tossico. Probabilmente erba, anche se non credo proprio che sia quello il veleno preferito di West in questi giorni. Ha perso quasi venti chili dal primo anno delle superiori e ha l’aria di uno che non ha un attacco di fame chimica da mesi.
Striscio sul pavimento fino a un altro buco e vedo Jackson, Mister Clamidia, che se la fa con una ragazza che non conosco… immagino qualche babbea di un’altra città, visto che a Brockenhurst lo sanno tutti che lui è un appestato. Poi individuo Kat, rannicchiata in un angolo polveroso, le ginocchia tirate al petto. Sorseggia lentamente un drink da un bicchiere di plastica. Accanto a lei c’è Marlow, che la sta rintronando di chiacchiere, anche se non credo che lei lo ascolti: ha lo sguardo puntato lontano, verso qualche posto in cui preferirebbe essere.
Forse sta fantasticando di essere tornata nella grotta di ghiaccio di Otherworld. L’avatar gigante se n’è andato, e ci siamo solo noi due insieme, di nuovo in un mondo tutto nostro. Per un momento è bello immaginare di poter essere dentro la sua testa, così come lei è sempre nella mia.
Un rumore secco mi fa sobbalzare. Qualcuno sta salendo le scale e ha appena messo il piede sui rametti che ho lasciato. I passi si fermano per un istante, poi riprendono. Ma quell’intervallo di tempo mi basta per correre nel buio in fondo alla stanza. Finisco in una nicchia che non sapevo ci fosse. Non vedo molto, ma sento qualcosa di morbido sotto le suole. Mi chino a toccarlo e mi pare di riconoscere un sacco a pelo di piumino. Mi sa che qualcuno contava di avere fortuna quassù, stasera.
Sbircio dietro l’angolo e vedo una sagoma in cima alle scale. È solo un’ombra scura con braccia e gambe. Non riesco a capire neanche se è maschio o femmina. Per un momento rimane immobile. Sembra stia pensando… o aspettando. Poi stende un braccio e lancia un piccolo oggetto rotondo, che disegna un arco nell’aria e si infila dritto in un buco al centro del pavimento.
«Ehi!» strilla una voce da sotto. Qualunque cosa fosse quell’oggetto deve aver mancato di poco qualcuno. La musica si ferma e segue un silenzio inquietante.
Un ragazzo ride. «Che diavolo?»
«Che cosa sarebbe quello?» chiede qualcun altro.
La festa si è interrotta e la sagoma che ha lanciato l’oggetto è sparita. Esco con circospezione dalla nicchia e mi sposto verso il buco. Voglio vedere con i miei occhi che cosa sta succedendo; ma quando sbircio di sotto, l’oggetto è nascosto alla vista dai ragazzi, che vi si sono tutti raccolti intorno. Tutti, noto, tranne Marlow e Kat.
«Ehi, state indietro!» dice qualcuno. Non riesco a distinguere chi, ma sembrava la voce di Marlow. Comunque nessuno gli dà retta. Tra i corpi si intravede una luce di un blu elettrico.
«Ha ragione! Lasciatelo stare!» Questa volta è Kat.
Proprio sotto di me, Brian lo psicopatico alza la testa verso il soffitto e faccio appena in tempo a scostarmi. «Chi c’è là sopra?» grida. Non sembra arrabbiato. Forse pensa che sia uno scherzo di qualche amico. Ma mi rendo conto che sono comunque seriamente nella merda. A meno di lanciarmi fuori da una finestra, non ho modo di uscire senza farmi vedere. In un uno contro uno potrei battere Brian, ma non posso affrontarli tutti.
Sto correndo a nascondermi quando l’intero edificio geme come un’enorme bestia che sia stata risvegliata. Mi butto di nuovo carponi. Il pavimento è scosso da tremori. I tremori diventano un rimbombo che termina con uno schianto e un rumore assordante. L’urlo di una ragazza si interrompe bruscamente. Non credo sia Kat, ma potrebbe esserlo. Mi precipito a guardare da un buco, ma sotto di me non vedo altro che una nuvola di polvere. Poi sento la cascata di detriti e capisco che cosa è successo: il pavimento del primo piano è crollato.
«Kat!» grido.
Sento un lamento soffocato. Qualcuno laggiù è ancora vivo.
Grazie a Dio la scala è ancora intatta. Mi fiondo di sotto, fermandomi per un istante al primo piano e poi al piano terra per verificare le condizioni dell’edificio. Entrambi i pavimenti sono quasi completamente spariti. Tutto e tutti sono precipitati dritti nel sotterraneo.
Sono stato in questa fabbrica un centinaio di volte e non sapevo neanche che ci fosse un sotterraneo. Non c’è tempo per cercare la porta, per cui mi aggrappo al bordo di quello che fino a poco fa era il pian terreno e mi lascio cadere nel buio. È più alto di quanto mi aspettassi e l’impatto mi toglie il fiato. Provo ad alzarmi ma il terreno cede sotto i miei piedi e, improvvisamente, mi ritrovo a surfare sopra una montagna di legno e mattoni. Scivolo fino a fermarmi in fondo, e per un istante rimango immobile, cercando di orientarmi. Intorno a me è nero come la pece, a parte la luce di una torcia che filtra da sotto le macerie. La tiro fuori e mi guardo in giro, illuminando un ammasso di detriti gigantesco. Vedo il braccio di qualcuno sporgere dal mucchio e mi ci precipito, chiudo le dita intorno al polso ma, per quanto prema, non sento alcuna pulsazione.
Lascio andare il braccio e trattengo i conati di vomito. Il cuore sta prendendo a pugni la mia cassa toracica e l’aria piena di polvere mi ostruisce i polmoni. Poi il fascio della torcia illumina una ciocca di capelli color rame e in un istante sono lì, a scavare come un cane, lanciandomi assi, tubi e mattoni dietro le spalle finché finalmente dissotterro la testa e il busto di Kat. O è svenuta o è morta, e la sua espressione angelica mi spaventa più di qualunque altra cosa abbia visto stasera. Chiudo gli occhi e le premo le dita sulla giugulare. Il cuore batte ancora. Scavo più in fretta e, quando l’ho liberata del tutto, mi accorgo che è gravemente ferita. Il sangue le esce a fiotti dalla gamba sinistra e mi schizza sulla faccia. Mi sfilo di corsa la cintura e gliela lego più stretta che posso intorno alla coscia. Quando il flusso di sangue si è ridotto a un filo, cerco il telefono e comincio a comporre il numero del pronto intervento.
Poi riattacco.
Sento delle ambulanze. Molte ambulanze. Qualcuno ha già chiamato i soccorsi. Mi guardo intorno. Non si muove nessuno nell’edificio, a parte me.