Illustrazione decorativa

INTRAPPOLATA

Kat ha aperto gli occhi. Mi ero appisolato un attimo e quando mi sono svegliato l’ho trovata che fissava il soffitto come se stesse contando le crepe nell’intonaco. Sono saltato in piedi e l’ho presa tra le braccia, ma ho subito capito che c’era qualcosa che non andava. Kat non ha risposto all’abbraccio, né mi ha spinto via. Non ha neppure detto niente, anche se sono sicuro che io invece parlavo e piangevo. Quando l’ho lasciata andare, ha emesso una specie di gorgoglio ed è risprofondata sui cuscini. La sua testa è caduta in una strana angolazione e i suoi occhi, che prima fissavano così intensamente il soffitto, sono passati a esaminare la coperta.

Un’infermiera ha infilato la testa nella stanza e poi ha chiamato un esercito di dottori, che mi ha immediatamente sbattuto fuori.

È trascorsa un’ora. Gli infermieri hanno continuato a entrare e uscire dalla stanza di Kat, portando attrezzature mediche. Finalmente la neurologa di turno viene a parlarmi. Riconosco la dottoressa Ito per averla vista al country club di Brockenhurst. Aiuta il fatto che il camice è bianco come il suo completo da tennis.

«Tu sei il figlio di Irene Eaton» mi dice.

Ecco lo svantaggio principale della kishka. Al pari di un’enorme voglia, o di una seconda testa, mi rende indimenticabile.

«Sì» rispondo. Non ha senso negare. Sono sicuro che al country club spettegolano sulla mia famiglia in continuazione. Povera Irene Eaton, devono dire. Come ha fatto a ritrovarsi per figlio un criminale informatico squilibrato? «Sono amico di Kat. Può dirmi che cos’ha che non va?»

Lei sembra un po’ riluttante, per cui le mostro il foglio firmato dalla madre di Kat. «Sono un amico di famiglia.»

La dottoressa Ito annuisce. «Katherine ha subito un danno significativo a una parte del tronco encefalico chiamata ponte di Varolio. La sua condizione viene definita disconnessione cerebro-midollo-spinale e…»

«Scusi. Cerebro cosa?»

Lei sorride con pazienza. «Il termine non scientifico è “sindrome locked-in”.»

Guardo la stanza alle sue spalle, dove Kat giace immobile nel letto. «È una specie di coma?»

Questa volta la dottoressa scuote la testa. «Solo nel senso che Katherine non è in grado di muoversi. Ma il suo elettroencefalogramma mostra un’attività cerebrale normale. Vuol dire che è totalmente cosciente, ma la sua mente è intrappolata dentro un corpo incapace di funzionare. La scienza medica ha raggiunto buoni risultati nell’aggiustare i corpi, ma non abbiamo fatto altrettanti progressi quando si tratta di riparare la mente.»

Non riesco a respirare, le gambe mi cedono e crollo su una sedia accanto alla postazione infermieri. «Si riprenderà?»

«Temo che sia altamente improbabile» mi informa la dottoressa. «Vorrei poterti dare notizie migliori, mi spiace molto. Dovevo essere in sala operatoria dieci minuti fa. Vuoi scusarmi, per favore?»

Cerco di prenderla per il braccio mentre se ne va, ma sbaglio i tempi e afferro solo l’aria. Cado in ginocchio e vi rimango, mentre ogni cosa crolla intorno a me.

Ci vuole tutto il coraggio che riesco a racimolare per rientrare nella stanza di Kat. Lei giace perfettamente immobile, gli occhi sollevati a fissare un diverso pezzo di soffitto. Se ciò che ha detto la dottoressa Ito è vero, la Kat che ho sempre conosciuto è prigioniera di un corpo rotto. Per una ragazza che è cresciuta correndo libera nei boschi non potrebbe esserci niente di peggio. Le creature come Kat non sopravvivono confinate in una gabbia.

Mi chino sul suo viso. «Ehi» sussurro, sfiorandole l’orecchio con le labbra. «Starai meglio. Io resterò qui finché non migliori.» Ma le parole che mi escono dalla bocca suonano false. Sono costretto a uscire di nuovo dalla camera finché non riesco a trovare un modo per crederci.

È ora di pranzo e mia mamma è seduta di fronte a me nella mensa, nel seminterrato dell’ospedale. La sua amichetta Ito deve averle detto dove trovarmi. Quaggiù la luce è così scarsa che è difficile distinguere la gente sana da quella malata. Persino mia mamma sembra verde. Stacco un morso gigantesco dal sandwich al tonno. La puzza mi ricorda il cibo per gatti.

«Torno di sopra non appena ho finito di mangiare questo» la informo. «Dov’è papà?»

«In viaggio per Londra. Sarei con lui a quest’ora se non fosse per te.»

Mi sono chiesto a lungo se mia madre abbia idea di quanto orribili suonino stronzate come questa. Ora non m’importa più.

«Sono certo che fai ancora in tempo a prendere il volo notturno» rispondo. «Non voglio trattenerti.»

Mi ignora. «La ragazza che si è ferita è la stessa? Quella per cui sei tornato dal collegio?»

Che domanda stupida. «Ho altri amici?» chiedo, come se potesse davvero sapere la risposta.

«Mi dispiace per quel che è successo, Simon. Ma mi hanno detto che la tua amica potrebbe non migliorare per parecchio tempo. Non puoi restare qui in ospedale e perdere la scuola.»

Rido, anche se è solo per riflesso, visto che non ci trovo proprio niente di divertente. «Ho diciotto anni. La scuola è opzionale.»

«Forse, ma non fai parte della famiglia della ragazza. L’ospedale non ti lascerà restare con lei.»

Mi sottovaluta fin dai tempi dell’asilo, e sì che a quest’ora avrebbe dovuto imparare la lezione. «Sembri dimenticare che sono la progenie di due avvocati. Di sicuro conosci le linee guida degli ospedali pubblici sulle visite.» Tiro fuori dalla tasca posteriore dei jeans la liberatoria firmata dalla mamma di Kat e la metto sul tavolo.

Mia madre rimuove delicatamente una goccia di maionese dal foglio con un tovagliolo prima di aprirlo e leggerlo. Quando alza lo sguardo e mi restituisce la pagina, capisco che non si è ancora resa conto di avere perso. «Va bene, quindi la legge ti consente di restare. Ma io no. Tu torni a casa con me, Simon.»

«Altrimenti?»

Le sue graziose piccole narici fremono mentre fa un respiro profondo. «Che cosa significa “altrimenti”?»

«Significa che faresti meglio ad avere qualcosa di sorprendente con cui minacciarmi se vuoi che venga via.»

«Posso chiamare il tuo responsabile della libertà vigilata in questo istante e informarlo che hai esteso il tuo repertorio criminale alle frodi sulle carte di credito.»

«Fai pure… e io dirò a tutti gli abitanti di questa elegantissima città chi sei veramente.»

Lei solleva le sue sopracciglia perfettamente disegnate e scoppia a ridere. Non immagina che il suo segreto è stato scoperto. «E chi sarei, Simon?»

«La figlia del Kishka» dico, fissandola negli occhi.

Lei ammutolisce. Ce l’ho in pugno. Questo è letteralmente uno dei momenti migliori della mia vita e voglio assaporarne ogni singolo secondo. La luce fluorescente sopra le nostre teste sfarfalla al momento giusto, aggiungendo alla scena un delizioso tocco da film dell’orrore.

«Pensi che ti ammireranno ancora dopo che avranno visto le foto del tuo naso originario? Pensi che spettegoleranno su come ha trovato i soldi tuo padre per pagarti gli studi a Harvard? O forse si chiederanno addirittura se avevi diritto di entrarvi?»

«Ora basta» risponde lei di scatto. La sua espressione è passata dallo shock alla rabbia. «Sei una piccola carogna, Simon.»

«No, sono un Kishka» rispondo. «Proprio come mio nonno.» Mi sporgo sopra il tavolo finché il mio naso è a pochi centimetri dal suo. «Pensavi davvero di farla franca?»

Sono di nuovo seduto nella stanza di Kat, con una coperta tirata sopra la testa, a fingere di fare il sonnellino del dopo pranzo. Sento entrare qualcuno ma quando apro gli occhi vedo solo una luce dorata filtrare attraverso un reticolo di lana bianca. Sono in tre nella stanza, la dottoressa Ito e due uomini. Non riconosco le voci dei maschi. Abbasso piano la coperta quanto basta per guardare. Sono tutti chini sopra il letto di Kat come se stessero giocando all’Allegro chirurgo. I due uomini non sono molto vecchi, saranno intorno ai trent’anni, e hanno entrambi la camicia fuori dai pantaloni, jeans e sneaker.

«Hai ragione. È una candidata ideale» sta dicendo uno.

«Sarà un vero peccato rasare una testa così bella» scherza l’altro.

«Non toccatele i capelli.» Getto via la coperta e i tre visitatori fanno un salto.

«Sei sveglio» dice con un sospiro la dottoressa Ito. Sono sicuro che sperava che mia madre avesse trascinato il mio culo fuori dall’ospedale.

«Ehi.» Uno degli uomini si avvicina per salutarmi con un sorriso amichevole e la mano tesa. «Mi dispiace disturbarti. Mi chiamo Martin…»

«Che cosa sta succedendo?» domando.

«Stiamo facendo del nostro meglio per aiutare la tua amica» interviene la dottoressa Ito. «Abbiamo finito qui?» domanda poi a loro.

«Sì, credo di sì» risponde l’uomo accanto al letto di Kat, mentre prende qualche appunto veloce su un tablet. «L’infermiera ci farà sapere quando sarà stata preparata?»

«Certamente» dice la dottoressa Ito. «Ora, volete scusarci, signori? Devo scambiare una parola con questo giovanotto.»

Non se lo fanno ripetere due volte, ed escono dalla stanza, evitando il mio sguardo. Quando se ne sono andati, la neurologa si volta verso di me.

«Chi sono quei tizi?» chiedo.

Lei incrocia le braccia e sorride, un gesto contraddice l’altro. «Katherine è una ragazza molto fortunata. Quegli uomini sono ingegneri della Compagnia, che hanno progettato un dispositivo in grado di aiutare le persone nelle sue condizioni. Stanno cercando pazienti per un beta test.»

«Un momento.» Ho sentito bene? «Sta dicendo che quei tizi sono di quella Compagnia?»

«Ne esistono altre? Lavorano per Milo Yolkin.»

Una volta ho guardato un documentario girato nel quartier generale della Compagnia a Princeton, in cui Milo raccontava la storia del nome della sua azienda. Credo fosse cominciata come una battuta tra amici. Tutte le grandi aziende tecnologiche avevano nomi stupidi, stucchevoli o incomprensibili, così Milo fece il contrario quando fondò la sua piccola startup. Per un paio di anni la stampa finanziaria ne parlò con disprezzo, ma la società di Milo continuò a espandersi fino a diventare il colosso che è oggi. Ora c’è un sacco di gente che non trova più così divertente quel nome. Non appare più così assurda l’idea di un futuro controllato da un’unica onnipotente Compagnia.

Non avevo idea che la Compagnia producesse attrezzature mediche, ma non dovrei sorprendermi. Fanno già tutto il resto. Ho persino sentito dire che Milo Yolkin ha scritto personalmente la maggior parte del codice del nuovo Otherworld, nel tempo libero. Se lui è capace di fare una cosa del genere da solo, la Compagnia è capace di qualunque cosa.

«Che genere di dispositivo hanno inventato?» domando alla dottoressa. «Come funziona?»

«Questo dovrai chiederlo agli ingegneri» risponde lei con una risatina. «Anche se sono un chirurgo del cervello, temo che sia tutto troppo complicato per me.»

Lancio un’altra occhiata a Kat, e quando torno a voltarmi, vedo la dottoressa infilare rapida la porta, il camice bianco che le svolazza dietro come un mantello.

Forse stava scherzando, ma io prendo il suo suggerimento molto seriamente e mi metto subito in cerca degli ingegneri della Compagnia. Per la prima volta dopo un’infinità di tempo provo qualcosa che assomiglia alla speranza. Il cuore mi batte forte e ho le mani sudate. Se Milo Yolkin ha dedicato le sue energie mentali a cercare un modo per aiutare le persone come Kat, forse lei ha davvero una possibilità.

Per fortuna, gli ingegneri non sono andati molto lontano. Stanno chiacchierando accanto alla postazione infermieri, appena fuori della camera. Quello che si chiama Martin ha in mano una valigetta di plastica nera. Chissà cosa c’è dentro… Pillole, aghi, dispositivi meccanici: non fa alcuna differenza per me. Se c’è anche solo una minima possibilità che possa aiutare Kat, mi prostrerò ai suoi piedi infilati nelle sneaker.

Loro non hanno motivo di fornirmi alcuna informazione per cui mi preparo a implorarli in ginocchio. Ma quando Martin mi vede avvicinarmi, sorride.

«Ciao. Scusa per prima» dice, e sembra sincero. «Non intendevo mancare di sensibilità. È che gli ospedali mi rendono sempre nervoso. A proposito, questo è il mio collega, Todd.»

«Ciao» mi saluta l’altro, sollevando una mano.

«Simon» dico. «Posso parlare con voi un momento?»

Loro si consultano con una rapida occhiata. «Certo» risponde Martin, e io gli faccio segno di seguirmi di nuovo dentro la camera di Kat.

«E così… stai insieme a Katherine Foley?» chiede Todd quando siamo dentro.

«Sì» rispondo. Poi mi ricordo che lei sente quello che diciamo. «Voglio dire, siamo amici… e io sono qui.»

«Evidentemente» dice Todd in un tono che non mi piace.

Martin si limita ad annuire. «Ci dispiace molto per quello che le è successo.»

Sembra pensarlo davvero, ma io non ho tempo da perdere in convenevoli o attestazioni di simpatia. «Questa terapia che avete studiato per i pazienti nelle condizioni di Kat… mi piacerebbe saperne di più.»

Martin appoggia la valigetta sul tavolino pieghevole in fondo al letto e la apre. L’interno è imbottito con materiale espanso nero, con scomparti sagomati. Se questo fosse un film, dentro ci sarebbe un fucile smontato. Invece, la valigetta contiene un visore scuro e sottile e un cerchio di plastica color carne.

Mi avvicino. A loro non sembra dar fastidio. «Che cos’è?» Il visore è interessante, ma non ho mai visto niente di simile al cerchio di plastica.

«L’hardware non ha ancora un nome ufficiale» spiega Martin. «Per dirti quanto è nuovo. Per ora lo chiamiamo semplicemente “disco”. Il tizio che l’ha programmato chiama il software “Città Bianca”. Se installi il suo software sul nostro hardware avrai la realtà virtuale di prossima generazione.»

Mi viene lo sconforto. La realtà virtuale è fantastica per giocare, ma non cura niente.

«Hai appena detto prossima generazione?» lo prende in giro Todd. «Ma fammi il piacere! È un passo da giganti.» Si volta verso di me. «I nostri laboratori sono sempre tra i cinque e i sette anni avanti rispetto ai prodotti offerti ai consumatori. In genere scaglioniamo le novità per massimizzare i profitti. Ma questa volta si tratta di un’innovazione troppo importante. Il capo non vuole che motivazioni di natura commerciale la sottraggano alla gente che ne ha bisogno.»

«Il capo. Intendi Milo Yolkin?» Non è neanche qui e ugualmente tutto a un tratto mi sento come se fossi in presenza di un essere divino.

«Di quale altro capo potrei parlare?» ribatte Todd con una risata che sembra quasi amara. «La Compagnia è il regno di Milo. Anche se penso che preferisca Otherworld in questi giorni.»

Ho la sensazione che Todd non sia un grande fan di Milo. Deve essere duro lavorare con uno dei più grandi geni del mondo, soprattutto quando si parla di un famigerato manager che ha l’abitudine di supervisionare personalmente ogni singolo progetto della Compagnia.

«Ho giusto giocato a Otherworld con Kat lo scorso fine settimana» dico. Era davvero lo scorso fine settimana? Sembra una vita fa.

«E sei riuscito a uscire dalla tua stanza?» scherza Martin. «Ho sentito dire che il nuovo visore provoca una dipendenza tale che ci sono ventenni che stanno comprando intere confezioni di pannoloni per non dover perdere più neanche un minuto nel mondo reale.»

«Già.» Todd annuisce. «Dicono che anche le vendite dei sostitutivi del pasto stanno andando alle stelle. Pensi che sarebbe insider trading se comprassi qualche azione dell’azienda?»

Martin si stringe nelle spalle. «Non è il mio campo. Chiedi all’ufficio Risorse Umane.»

Io batto un dito sulla valigetta, cercando di riportare la conversazione sui binari. «E così questo è l’hardware della realtà virtuale di prossima generazione. State dicendo che è più avanzato del nuovo visore di Otherworld?»

«Anni luce» conferma Martin.

«È il nostro capolavoro. Io e Martin ci lavoriamo da secoli» specifica Todd. Poi cambia tono, il che mi ricorda che, al di là della sua arroganza da confraternita universitaria, lavora per una delle aziende più potenti del pianeta. «Farà davvero la differenza nella vita delle persone. Le libererà dalla prigione del corpo e darà loro la possibilità di esplorare un mondo reale tanto quanto questo.» Se non la sapessi più lunga, mi chiederei se sta recitando il testo del sito web della Compagnia.

«Posso provarlo?» chiedo.

Todd ride. «Dovremmo raderti la nuca prima.» Tira fuori il disco color carne e lo solleva. «È l’unico svantaggio di questo dispositivo. Il disco deve aderire alla pelle perfettamente.»

Pensavo di essere abbastanza aggiornato sulle più recenti novità legate alla realtà virtuale, ma non ho idea di come potrebbe funzionare questa. «Aderire alla pelle? Perché?»

«In parole povere? Comunica con il cervello di chi l’indossa.» Registra lo sguardo esterrefatto sulla mia faccia. «Non hai notato che nella scatola non ci sono né guanti né scarpe? Ci siamo liberati del tutto dei dispositivi aptici. Questa è vera realtà virtuale. Non sono coinvolti solo la vista, l’udito e il tatto: questo dispositivo si collega al cervello e coinvolge tutti e cinque i sensi.»

«E forse anche altri sensi che non hanno ancora neanche un nome» aggiunge Martin.

Allungo la mano verso il disco e Todd me lo passa. Sembra una versione ingrandita dei cerotti alla nicotina color carne che usava Linda quando cercava di smettere di fumare. «Davvero comunica con il cervello della gente?» Gli ingegneri hanno ragione: questa roba è pazzesca. Quello che ho tra le dita è una scienza rivoluzionaria.

«Già» dice Todd, e indica il visore ancora nella valigetta. «Il visore ti mostra un altro mondo, ma il disco lo rende reale

«Che cosa vede la persona che l’indossa?»

«Il futuro» spiega Todd con orgoglio. «Mostragli il video» aggiunge, rivolto a Martin.

Martin prende il telefono e seleziona un video, poi me lo passa. Sul display appare un campo di erba verde e dorata che ondeggia nella brezza. Nuvole simili a cotone fluttuano nel cielo azzurro. Capisco che deve trattarsi di un parco. Bianche torri luccicanti che grondano foglie e fiori lo circondano su tutti i lati.

«Che cos’è?»

«È dove vanno i nostri pazienti, la Città Bianca.»

Avvicino l’immagine agli occhi. È realistica al cento per cento dal punto di vista della fotografia. «Non è un’immagine generata al computer» dico. «Deve essere un posto reale.»

«Che cosa è reale ormai?» ride Martin con orgoglio. «Riferiremo il tuo complimento ai nostri colleghi del software.»

«Sembra il Paradiso.» Non lo dico in senso metaforico. Sembra davvero un paesaggio che si potrebbe trovare sul sito web di un gruppo religioso.

«Dicono che del Paradiso abbia anche il profumo» osserva Martin.

«Be’, non so. Nel mio Paradiso ci sarebbero meno fiori e più ragazze scollacciate» dice Todd. Poi mi strizza l’occhio. «Scusa, questa era poco professionale. Non dire a nessuno che l’ho detto.»

Non so perché, ma la stupida battuta di Todd mi scatena una tempesta nel cervello. «Un momento… quante persone ci sono già nella Città Bianca?»

«Al momento, stanno prendendo parte al beta test circa trecento individui» mi informa Todd.

«Possono parlare tra di loro?»

«Certo, e non solo.» Todd inarca un sopracciglio. A quanto pare è un pensiero fisso, il suo.

«Allora d’accordo. Potete radermi la testa. Vorrei provare il disco.» Mi lascerei radere ogni centimetro del corpo pur di avere la possibilità di parlare con Kat.

Improvvisamente Todd comincia ad agitarsi, come se fosse a disagio. Credo non si aspettasse che io accettassi l’offerta. «Stavo solo scherzando. Il disco è un prototipo e non ne abbiamo di riserva. Inoltre, il capo è piuttosto selettivo nel concedere i tour della Città Bianca.»

«Ho bisogno di parlare con Kat» dico, pienamente consapevole che ora la mia disperazione sta diventando evidente. «Per favore. Faccio qualunque cosa.»

Martin mette una mano sulla spalla del collega. «Forse il ragazzo potrebbe passare alla clinica. Se non lo dice a nessuno, non vedo che male potrebbe fare.»

Chiaramente Todd non ci sta. «Non è stato autorizzato niente del genere» ribatte in tono severo.

«Sì, ma immagina che feedback potrebbe darci» ribatte Martin.

«No» insiste Todd, facendo un passo indietro così che la mano di Martin gli cade dalla spalla. «Immagina quante cose potrebbero andare storte.»

Andare storte. Non mi piace il suono di questa frase. «Che cosa intendi? È già successo che le cose andassero storte?» chiedo.

«Naturalmente no» mi assicura Martin. «Il nostro indice di soddisfazione è del cento per cento.»

«Esatto» gli fa eco Todd, con gli occhi fissi in quelli del collega. «Perché siamo molto cauti nello scegliere i pazienti.»

Martin si volta verso di me e si stringe nelle spalle come per scusarsi. «Mi dispiace» dice mentre Todd riordina la valigetta. «Ci ho provato.»

E a queste tre parole la mia scintilla di speranza si spegne.

Passano cinque ore prima che qualcuno torni in camera. A un certo punto, mentre ero seduto a pregare che accadesse qualcosa, la madre di Kat deve aver dato il consenso a che sua figlia prenda parte al test della Compagnia, perché l’infermiera che arriva alla fine ha con sé un paio di forbici e un rasoio chirurgico con cui le rade la nuca. I capelli sono la firma di Kat, ne è sempre andata orgogliosa. Quando l’infermiera le rimette la testa sul cuscino, la differenza non si nota. Ma c’è una busta di plastica trasparente piena di riccioli color rame, e vederla mi dà la nausea.

È tutto per il suo bene, mi assicura la donna. A Kat non importerà dei capelli. Vorrei poterle credere, ma so che non è vero.

«Mi dispiace tanto» mormoro a Kat quando è tutto finito. Spero davvero che ne valga la pena.