LA CLINICA
I PNG di Gina ci hanno chiuso in una specie di cella, così piccola che quasi non c’è spazio per muoversi. Il corpo di Gorog irradia calore, e la fronte di Carole è imperlata di sudore, ma chissà perché io invece sto morendo di freddo.
«Non ci posso credere! Perché non me l’avete detto prima?» piagnucola Gorog. Sta facendo fatica ad accettare la notizia che il suo viaggio in Otherworld potrebbe risultare fatale.
«Non lo so» rispondo. «Mi dispiace.» Cercherei di consolarlo se ci fosse qualcosa da dire, ma non vedo risvolti positivi nella situazione in cui ci troviamo.
«Dai, concentriamoci sul presente» taglia corto Carole. «Che cosa facciamo ora?» Sembra ancora abbastanza sicura che troveremo un modo per uscire da questo pasticcio. Vorrei avere la sua stessa convinzione.
«Non ne ho idea» ammetto. «Sto cercando di farmi venire in mente qualcosa.»
«Perché batti i denti?» mi chiede. «Ci sono quasi quaranta gradi qui dentro.»
Mi stringo nelle spalle. Non so cosa rispondere neanche a questa domanda.
«Be’, meglio escogitare qualcosa in fretta» dice Carole. «È quasi ora di cena.»
«Zitta!» grida Gorog. Poi la sua voce si riduce a un lamento. «Non voglio nemmeno pensare di essere mangiato. Sono stato colpito da nove frecce nel canyon e ho provato più dolore di quanto ne abbia mai provato in vita mia. Riuscite a immaginare che effetto farà essere tagliati a pezzetti o arrostiti su uno spiedo o…»
«Smettila di agitarti!» ordino. «Non finiremo…» Ma non riesco a completare la frase, perché mi sta succedendo qualcosa. Qualcosa che non sono in grado di fermare. È come se Gorog e Carole mi venissero strappati via e, di colpo, mi trovo immerso in un’oscurità assoluta. Fa un freddo porco e una brezza gelida mi soffia sulla pelle. Il cuore mi batte all’impazzata e per istinto le mie braccia si sollevano di scatto fendendo l’aria, come ad allontanare un pericolo invisibile. Ma so che cosa sta succedendo. L’Uomo d’argilla ha detto che avrebbe trovato il modo di farmi entrare nella clinica. Ora sta tenendo fede alla sua promessa… e io vorrei non averlo mai chiesto. Mi ha trascinato fuori da Otherworld nel peggior momento possibile. Senza il disco, sono al sicuro, e questa è l’unica cosa che gli importa. Non gliene frega niente di Gorog e Carole. Ma a me sì, e non vado da nessuna parte se non riesco a garantire la loro incolumità.
Confuso e disorientato, mi infilo una mano nella tasca dei jeans. Lo smartphone che ho rubato a mia mamma c’è ancora. Avvio l’APP della torcia elettrica ed esploro le ombre intorno a me. Non c’è nessuno… ma qualcuno c’è stato, questo è sicuro. Il mio visore e il disco sono a distanza di sicurezza, in modo che agitandomi non li distruggessi. Sono appoggiati sopra una borsa di tela che non ho portato io, e lì accanto c’è una confezione di pannoloni. Potrei correre all’inseguimento di chi li ha lasciati, ma non lo faccio.
Incredibile, ma mia mamma non ha disattivato la connessione del telefono e forse ho appena trovato il modo per salvare i miei amici. Scrivo un messaggio a Elvis.
qualcuno a Everglades, in Florida, sta giocando a Otherworld. Puoi staccargli la spina?
Lui sta scrivendo. Io sto morendo.
vuoi dire Gina?
Quel ragazzo non smette mai di sorprendermi.
come diavolo fai a saperlo?
il suo ultimo video di Otherworld ha avuto 1 milione e mezzo di visualizzazioni
puoi tirarla fuori dal gioco?
non posso hackerare l’APP ma probabilmente posso staccarle la connessione
quanto ci metti?
5 min
sicuro?
fottiti
scrivimi quando hai fatto
ok, magari stavolta un grazie?
fottiti
Improvvisamente mi ricordo che potrei davvero essere debitore di un grazie a Elvis. Quando ero al country club, gli ho scritto per chiedergli un favore: trovarmi l’indirizzo della clinica dove è stato portato il corpo di Kat. Faccio scorrere la cronologia dei messaggi e scopro che ha effettuato la consegna.
non trovo il nome. Dandelion Drive 1250, Brockenhurst NJ. non è la tua città?
Non so bene cosa mi aspettassi, ma credo me lo sentissi che la clinica sarebbe stata da qualche parte nel mio Stato. Ma addiruttura Dandelion Drive? Ci si arriva a piedi da casa mia!
Arriva un nuovo messaggio da Elvis.
fatto. Gina è fuori
così veloce? Come ci sei riuscito?
ho spento la centrale elettrica locale
che cazzo hai fatto?
hai detto di farla uscire dal gioco. ora non potrà rientrare per un po’
cazzo, Elvis
attento a quello che desideri, stronzo
È peggio che avere a che fare con un robot, a volte. Ma con Gina – e probabilmente un buon pezzo di Florida sud-occidentale – fuori dal gioco, almeno sto tranquillo che Carole e Gorog rimarranno al sicuro per un po’. Per cui frugo nella borsa che mi è stata lasciata: la prima cosa che trovo è un’uniforme blu. Sotto ci sono due badge di servizio. Uno porta il nome MIKE ARNOLD e come mansione TRASPORTO PAZIENTI. Il secondo è di john driscoll, manutenzione. Sul fondo trovo un pezzo di carta. Ordine di trasporto. Ospedale di Brockenhurst per Dandelion Drive 1250. Ore 8:00.
Dandelion Drive 1250. È lo stesso indirizzo che ha rintracciato Elvis. L’Uomo d’argilla mi sta davvero mandando alla clinica. È quello che avevo chiesto ed è quello che ho ottenuto, ma in qualche modo mi sento come se la decisione non sia stata del tutto mia. Chiunque ci sia dietro l’Uomo d’argilla mi ha manovrato come una marionetta dal momento in cui mi ha fatto avere il disco. Dice di essere collegato alla Compagnia, e allora perché mi sta aiutando? So che non dovrei fidarmi di lui. E non lo farei… se avessi scelta.
Sono le otto di mattina e c’è un furgone con la scritta TRASPORTO PAZIENTI davanti al pronto soccorso dell’ospedale di Brockenhurst. A parte i finestrini oscurati, non ha proprio niente degno di nota. E non c’è nulla di particolarmente interessante neanche nel tizio che vi è appoggiato e che sorseggia caffè da un bicchiere di polistirolo. È sulla cinquantina, direi, a giudicare dai capelli brizzolati e dalla trippa notevole che trabocca dalla cintura.
«Sei tu che sostituisci il mio assistente?» chiede quando mi avvicino.
La risposta parrebbe ovvia, dal momento che indosso una tuta blu identica alla sua. «Sissignore» esclamo. «Sono Mike.»
«Don Dunlap. Grazie per esserti reso disponibile nonostante il breve preavviso» dice, soppesandomi mentre mi stringe la mano.
«È un piacere, signore.»
«L’agenzia di collocamento ha detto che hai fatto il corso di Medicina d’urgenza nell’esercito. Al capo piace la gente che ha fatto il servizio militare. Deduco che sei tornato da poco, visto che non ti sono ancora ricresciuti i capelli.»
«Esatto, signore» dico, sperando che non mi chieda alcun dettaglio. Le uniche cose che so di militare le ho imparate giocando a Metal Gear Solid.
«Se vediamo che funziona bene per entrambi, potrebbe esserci un posto fisso per te, sai? Abbiamo avuto molto lavoro di recente. La nuova clinica sta diventando molto richiesta. Andiamo a prendere pazienti da tutta l’area metropolitana. Alla lunga però potrebbe farsi un po’ noioso per te… la gente che trasportiamo è tutta in condizioni stabili. Non avrai molte occasioni di sfruttare le competenze che hai acquisito nelle forze armate.»
«Dopo quello che ho visto, la noia è benvenuta, signore.»
«Già, ci scommetto» risponde con simpatia Don.
Se solo sapesse.
Le porte dell’ospedale si aprono e un ausiliario spinge fuori una barella. Il mio nuovo capo getta il bicchiere del caffè nel cestino. «Eccoci. Apri il retro del furgone. Io prendo la paziente.»
Faccio come mi dice e poi lo aiuto a spingere la barella. La paziente scivola dentro il furgone. Non riesco a vederla bene, ma è impossibile non notare che indossa un visore della Compagnia.
«Cos’è quella roba sulla faccia?» chiedo a Don, domandandomi quanto ne sappia.
Lui mi guarda in modo buffo. «Se fossi un dottore, pensi che sarei qui a scorrazzare vegetali alle otto del mattino? Non è il nostro lavoro fare domande. Il nostro lavoro è prelevare, consegnare e assicurarci che i pacchi giungano a destinazione vivi.»
«Sissignore.»
«Tu stai nel retro. Bada che il visore non si sposti e che non si sfili la flebo. È successo la settimana scorsa con un paziente e il tipo ha cominciato a urlare come se lo stessero ammazzando. Per cui facciamo in modo che non si ripeta oggi, chiaro?»
Sta aspettando la mia risposta, ma io sono ancora bloccato su ciò che ha appena detto. Quando si è sfilata la flebo, il paziente ha cominciato a gridare… proprio come Kat quella notte in ospedale. Ora che ci penso, l’infermiera aveva detto che si era interrotto il flusso della flebo. Questo significa che nel liquido deve esserci qualcosa. Ai pazienti viene somministrata una droga che impedisce di muoversi e di parlare.
«Chiaro, Mike?» ripete Don e io mi riprendo di scatto.
«Sissignore. Cristallino.»
C’è un silenzio inquietante nel retro del furgone. La donna distesa davanti a me non può avere più di venticinque anni. Ha un braccio ingessato, ma non vedo altre ferite. Quando il furgone si mette in moto, mi guardo intorno in cerca di una cartella clinica, ma non trovo neanche quella. Non c’è modo di sapere chi è o da dove viene.
Chissà dove si trova in questo momento. È uscita dalla Città Bianca? Sta gironzolando per Imra, o sta lottando per salvarsi la vita in qualche reame? Di colpo il senso di colpa mi travolge. Sono solo con questa donna nel retro di un furgone, senza nessuno a controllarmi: potrei toglierle il disco e trovare un modo per distruggerlo; o potrei staccarle la flebo. Però non posso correre questo rischio. Se lo facessi, potrei perdere la possibilità di aiutare altre cento donne come lei. Ma siamo sinceri… non me ne frega niente di quelle cento donne. In questo momento mi importa soltanto di una. E non è questa signora. No, portare lei fuori da Otherworld potrebbe costarmi troppo caro. Spero con tutto il cuore che non le capiti niente di brutto, ma deve restare.
Il furgone si ferma e sento Don parlare con un altro uomo. Sbircio fuori dal finestrino e vedo che siamo davanti al cancello del numero 1250 di Dandelion Drive. Le porte posteriori si aprono e una guardia di sicurezza infila dentro la testa. Lancia un’occhiata alla paziente e poi a me. Quando si è assicurato che non stiamo introducendo di nascosto qualunque cosa sia classificata come materiale di contrabbando in questo posto, sbatte la portiera. «Potete andare» lo sento dire a Don. Pochi secondi dopo il furgone riparte.
Guardo dal finestrino, stiamo attraversando un parco pieno di alberi ornamentali e disseminato di stagni artificiali decorati da ninfee. Vedo un cervo correre a nascondersi mentre passiamo davanti all’ingresso principale della clinica, che sembra quello di una spa esclusiva.
La facciata dell’edificio è tutta di vetro. È impossibile non cogliere il messaggio che vuole trasmettere: non c’è niente da nascondere nelle attività che si svolgono all’interno. È ancora mattino presto, ma a quanto pare ci sono già alcuni famigliari in visita. Scommetto che si reputano fortunati a essere circondati da tanta bellezza. L’ingresso della clinica è grande e luminoso; niente a che vedere con le orribili sale d’aspetto illuminate da tubi al neon dei tipici ospedali del New Jersey.
Il furgone svolta bruscamente e fiancheggia l’edificio. Mi rendo conto che la clinica è molto più grande di quanto sembri a prima vista: è abbastanza lunga da contenere una decina di Boeing 747 e anche qualche campo da football professionale. A differenza della facciata, in questa parte dell’edificio le finestre sono poche e distanziate. Le uniche che vedo sono piccole e hanno i vetri a specchio.
Don si ferma davanti a un garage, a circa metà lunghezza. Fa inversione e, quando la saracinesca di metallo si solleva, entra in retromarcia nell’edificio. Il motore si spegne e Don viene ad aprire le portiere posteriori.
«Come si chiama questo posto?» chiedo. «Non ho visto nessun cartello all’entrata.»
«Non lo so. Tutto quello che so è che loro pagano il mio capo e il mio capo paga me.» Non sembra per niente curioso.
«Davvero non lo sai?» provo a sondare.
«Non lo so e non me ne frega niente.» Afferra l’estremità della barella e fa scivolare la paziente fuori dal furgone. «Okay, portiamola dentro.»
Non ho intenzione di discutere, ma mi sorprende un po’ che tocchi a noi portare dentro il corpo. In un posto così grande ci si aspetterebbe di trovare migliaia di persone al lavoro, invece non vedo nessuno in giro. Aiuto a spingere la barella dalla pedana di carico in un corridoio anonimo che termina in quello che, a prima vista, sembra un ufficio. C’è una scrivania, ma non c’è nessuno seduto dietro. Conto tre porte scorrevoli nella parete davanti a noi.
«Ehi, Don» dice qualcuno. La voce proviene da uno schermo appeso al muro. Un’attraente donna di mezza età con grandi occhi azzurri e labbra di un rosa acceso ci sta guardando. A giudicare dall’espressione incantata sulla faccia di Don, la signora sullo schermo è la ragazza dei suoi sogni.
«’ngiorno, Angela» la saluta con voce sognante, dimostrandomi che ho indovinato. «Hai un aspetto incantevole per una che probabilmente è in piedi dall’alba.»
«Mmm, sei uno che ci sa fare tu» flirta di rimando Angela. «Chi è il tuo amico?»
Don si volta verso di me come se si fosse completamente dimenticato della mia presenza. «Ah, giusto. Si chiama Mike Arnold. Phil si è di nuovo dato malato, per cui l’agenzia di collocamento mi ha mandato un sostituto. Ma se Phil continuerà ad ammalarsi ogni volta che c’è la partita, Mike qui potrebbe diventare permanente.»
«Benvenuto, Mike» dice Angela. «Posso controllare il tuo badge? Fai solo un passo avanti e sollevalo verso lo schermo.»
Ubbidisco all’ordine, e spero non si accorga che mi trema la mano. Non c’è modo di sapere se il badge funzionerà davvero. Lei si sporge in avanti per guardare. «Benissimo, tutto a posto» conferma, anche se non l’ho vista controllare lo schermo di un computer. È come se avesse fatto la scansione del badge con gli occhi. «Bentornato dall’Afghanistan, Mike. Spero che avremo modo di vederti più spesso!»
«Grazie, signora» dico. C’è qualcosa in questa donna che non mi torna del tutto. Come ha avuto accesso alle informazioni? Se ne sta seduta in una stanza che sembra uguale a questo ufficio, ma allora perché non è qui di persona?
Poi capisco. Non è reale! La protagonista delle fantasie erotiche di Don è un robot. Non è proprio a livello di Otherworld, ma è avanzata almeno quanto i PNG della Città Bianca. C’è un unico posto da cui può essere uscita: solo la Compagnia è in grado di produrre Intelligenza Artificiale così sorprendente.
«Allora, quale porta facciamo attraversare a questa giovane signora?» chiede Don ad Angela, parlando della paziente che è in mezzo a noi. È evidente che non sospetta che la ragazza dei suoi sogni non è umana.
«Porta numero uno, come al solito» risponde Angela.
Il battente si apre silenziosamente, mostrando un interno di metallo che sembra l’ascensore più anonimo del mondo. Don vi infila la barella e la paziente svanisce dietro la porta scorrevole. Un istante dopo, è andata.
«C’è altro che posso fare per te oggi?» chiede Don ad Angela.
«In effetti, qualcosa c’è. Abbiamo una consegna per l’agenzia di pompe funebri Bosworth, a Hoboken. Riesci a inserirla nella tua tabella di marcia di questa mattina?»
«Certo!» esclama Don come se niente potesse renderlo più felice.
«Benissimo. Troverai il carico dietro la porta numero tre.»
La porta si apre. Dentro c’è un’altra barella con sopra qualcosa di lungo chiuso in un sacco di plastica blu. Faccio del mio meglio per impedire alla mascella di cadere a terra. È un corpo. Un corpo morto.
«Sanno che sta arrivando?» chiede Don con la noncuranza di uno che parla di un addobbo floreale.
«Sì, sono stati avvisati. I dati della consegna ti sono stati inviati sul telefono. Ricordati di controllare prima di partire. E grazie ancora per il tuo aiuto!»
«È sempre un piacere» dice Don. «Ci vediamo la prossima volta?»
«Assolutamente sì» risponde allegra Angela. «Io sono sempre qua.»
Mi costringo a soffocare una risata.
Lo schermo si spegne. Don mi fa segno di seguirlo alla terza porta; poi spingiamo il corpo fino al furgone.
«Non è meravigliosa?» mi chiede in tono estatico quando siamo in corridoio e fuori portata d’orecchio.
«Angela?» Lui annuisce. «L’hai mai incontrata di persona?»
«No. Ma uno di questi giorni troverò il coraggio di invitarla fuori.»
«Sarebbe interessante» dico. Quanto mi piacerebbe sentire la risposta. Come farà un robot a schivare un appuntamento?
«Non me ne parlare.» Don sta praticamente sbavando al pensiero. Siamo arrivati al furgone e le portiere sono aperte. «Te la senti di andare fino a Hoboken? Il traffico a quest’ora può essere micidiale. Potremmo metterci molto. Alcuni si sentono un po’ a disagio a stare con un cadavere per così tanto tempo.»
«Non io. Starò bene» lo rassicuro.
«Ah, ora che ci penso! Secondo la procedura dobbiamo confermare che il pacco sia quello giusto prima di accendere il motore. Controllo le informazioni che ha mandato Angela.» Prende il telefono e apre un file. Vedo l’immagine di un ragazzino. Dev’essere una foto vecchia, perché non può avere più di quindici anni. Poi Don tira giù la cerniera del sacco e quasi mi manca il fiato. Il corpo è così giovane che è difficile credere che si tratti di un morto. Com’è successo? È morto per le ferite che ha subito nel mondo reale, o è stato il disco a ucciderlo?
Poi noto qualcosa di strano nella parte superiore del cranio. C’è un’incisione appena sopra l’attaccatura dei capelli, che va da un lato all’altro della testa. Sto cercando di immaginare che cosa potrebbe averla provocata quando la risposta mi colpisce con la violenza di un pugno allo stomaco. Il ragazzino è stato sottoposto ad autopsia e il suo cervello è stato analizzato. Sento le ginocchia farsi molli e la testa comincia a girarmi mentre la mia mente ripete in continuazione la stessa frase.
Mio Dio, potrebbe essere Kat.
«Okay, stesso tizio» conferma Don e tira su di nuovo la cerniera. «Partiamo.»
Spingo nel furgone la barella con il cadavere del ragazzino, poi Don si dirige al posto di guida. Io faccio finta di entrare nel retro, ma quando chiudo il portellone rimango fuori. Il furgone esce dall’area di carico e io rubo un passaggio sul paraurti posteriore. Appena prima di passare davanti all’ingresso principale, salto giù. Devo raggiungere il corpo principale dell’edificio e immagino sia escluso che Angela mi lasci passare. La mia unica speranza è entrare dal davanti.
C’era un secondo tesserino d’identità nella borsa lasciata dall’Uomo d’argilla alla Elmer’s. JOHN DRISCOLL, MANUTENZIONE, dice. Sotto c’è un codice. Lo tiro fuori dalla tasca e me lo appunto all’uniforme blu. Il livello di rischio di questa avventura continua a salire. In questo momento si aggira tra “mi stai pigliando per il culo” e “tanto vale suicidarsi”. Ma ho visto che cosa succede ai pazienti e, ora come ora, del pericolo non me ne potrebbe fregare di meno.
Non ho neanche varcato la porta d’ingresso che mi si piazza davanti un tipo, bloccandomi il passaggio. Sembra un vero essere umano in carne e ossa. Se non lo è, ne è un’ottima imitazione. È vestito con una polo blu, jeans scuri e sneaker bianche. Ha un’espressione disinvolta e cordiale che fa pendant con l’ambiente disinvolto e cordiale.
«Buongiorno» mi saluta. «Sono Nathaniel. Posso aiutarti?»
«John, della manutenzione» dico, indicando il badge e sperando che sia sufficiente.
Nathaniel fa la scansione del mio badge con un dispositivo che ha in mano e io intanto guardo dentro l’atrio. Nell’area reception ci sono alcune persone dall’espressione afflitta, probabilmente famigliari dei degenti. Un uomo in piedi sta parlando con la donna dietro il bancone. Non riesco a sentire la conversazione, ma sembra tesa. Quando riconosco la voce, tutto il mio corpo si irrigidisce. Appartiene a Wayne Gibson, il patrigno di Kat. È qui in visita.
«Vieni con me» dice Nathaniel. Quasi tremo per l’agitazione quando mi conduce oltre gli addetti alla sicurezza. Tengo la testa voltata mentre passiamo davanti a Wayne. «C’è un gabinetto intasato nella saletta delle visite numero tre. Qualcuno deve averci buttato qualcosa di troppo grosso. Sarebbe fantastico se venisse sistemato il prima possibile. Abbiamo un numero limitato di salette e, come puoi vedere, ci sono diversi famigliari in visita.»
«Vedrò cosa posso fare» prometto. Questo posto deve essere attrezzato con la più avanzata tecnologia mai realizzata, eppure nessuno è capace di sturare un gabinetto. Tipico.
Seguo Nathaniel in un corridoio su cui si affaccia una mezza dozzina di porte. Lui appoggia il palmo contro uno scanner di vetro nero sul muro, facendo scattare la porta davanti a cui ci siamo fermati. La stanza sembra più una suite di un albergo di lusso che la camera di una clinica per casi disperati. La televisione è gigante, l’arredamento di design e il pavimento è di un elegante legno massello. Vorrei che la sedia in cui ho dormito all’ospedale fosse stata morbida almeno la metà di quella che c’è qui. Vado verso il letto e strofino un lembo di lenzuolo tra le dita. Persino mia madre approverebbe la qualità del filato.
«Il gabinetto è lì dentro» dice Nathaniel, indicando il bagno. «La porta si chiuderà dietro di me appena uscirò. Premi il pulsante sul muro quando hai finito e io verrò a prenderti.»
Nathaniel non sembra essersi accorto che non ho attrezzi con me, e che quindi è altamente improbabile che io sistemi qualcosa. Quando esce, mi rendo conto di essere bloccato. Ci sono due porte di metallo, quella da cui sono entrato e un’altra sul lato opposto. Ma non posso uscire da nessuna delle due. Al posto delle maniglie, hanno entrambe sistemi di riconoscimento biometrici inseriti nel muro. Attraverso la stanza per andare a esaminare lo scanner della seconda porta. Mi sto chinando per guardare più da vicino quando il battente si apre e io faccio un salto indietro per la sorpresa. Di fronte a me c’è un dottore con un camice bianco da laboratorio, altrettanto spiazzato di vedermi. I suoi occhi si spostano verso il letto vuoto e poi si socchiudono tornando su di me.
«Chi sei?» mi chiede guardingo, come se potessi essere chiunque, da una spia russa a un killer professionista.
«Manutenzione» gli dico, battendo il dito sul tesserino. «Il gabinetto è intasato.»
Il suo atteggiamento passa all’istante dal sospetto al fastidio. «Ancora? Devo incontrare una famiglia qui tra…» Controlla il dispositivo che porta al polso. Riconosco che è uno smartwatch, ma non ne ho mai visto uno uguale prima. Scommetto qualunque cosa che è un modello della Compagnia. «…due minuti.»
«Temo che dovrà trovare un’altra camera.»
«Ho un’idea migliore» risponde lui con tono altezzoso. «Invece di chiacchierare, perché non fai il tuo lavoro in modo che io possa fare il mio?»
Sto per suggerirgli che potrei usare la sua faccia come sturacessi quando dall’apparecchio al suo polso escono tre bip in rapida successione e la sua espressione cambia. Sa che cosa significa il segnale senza dover guardare l’orologio. «Hai appena guadagnato un po’ di tempo» mi dice. «Metti a posto quel dannato gabinetto prima che ritorni.»
Preme il palmo contro lo scanner e la porta si apre di nuovo. Lui si fionda in un corridoio anonimo senza accorgersi che io gli sono scivolato dietro e sono uscito dalla camera.
La porta si chiude e i suoi passi si fanno sempre più deboli. Mi trovo chiaramente in una parte dell’edificio interdetta ai visitatori. Da un momento all’altro, mi aspetto che compaiano gli addetti alla sicurezza e mi trascinino via, ma non succede. Controllo il soffitto e i muri, ma non vedo neanche una telecamera, il che è molto insolito. Lentamente, mettendo con circospezione un piede davanti all’altro, mi incammino nella direzione in cui è appena scomparso il dottore. Porte di metallo tutte uguali sono allineate lungo il muro alla mia sinistra: altre camere per le visite, immagino… ma ne conto solo sei, dove sono i pazienti? Martin e Todd hanno detto che trecento persone stanno prendendo parte al beta test. Molte saranno qui alla clinica, ormai. Dove le tengono tutte quante?
Svolto un angolo e mi accorgo che sono uscito dal corridoio. Davanti a me c’è una balaustra di metallo, e sulla sinistra delle scale che scendono. Mi avvicino alla ringhiera, che si affaccia su un’area grande come un’aviorimessa.
Non capisco bene che cosa ho davanti: di sicuro so soltanto che è ancora in corso di realizzazione e solo una piccola sezione appare già in funzione. Nella parte già completata numerosi corridoi disegnano percorsi tra enormi pareti di metallo profonde almeno sei metri e alte due e mezzo. In ciascuna parete si aprono tre file di finestre esagonali illuminate. A guardarlo dal punto sopraelevato in cui mi trovo, sembra un alveare supertecnologico.
Vedo il dottore sotto di me fermarsi davanti a una finestrella e digitare un codice, per farla aprire. Subito dopo tira fuori un ripiano scorrevole con disteso sopra il corpo di un uomo nudo, a parte uno slip di carta stagnola e il visore nero sulla faccia. Tubi di plastica trasparente gli escono dalla bocca, dall’avambraccio e dall’inguine, mentre sottili fili metallici neri lo collegano all’interno della capsula. Di colpo mi rendo conto di trovarmi di fronte a una specie di enorme sistema di supporto vitale, con intere file di capsule impilate su tre livelli come container. Ognuna contiene un essere umano. Le eleganti camere per le visite all’ingresso della clinica servono solo come facciata per le famiglie. In realtà, è qui che sono tenuti i pazienti.
Probabilmente il tizio sopra quel ripiano sta combattendo per rimanere in vita in Otherworld. Ma qui, in questo mondo, non è altro che un sacco di carne con un cuore che batte. Il nutrimento gli viene pompato direttamente nelle vene mentre i suoi rifiuti liquidi vengono rimossi attraverso un catetere inserito nella vescica. Sono sicuro che il pannolone di carta stagnola che indossa si prende cura del resto, ma preferisco non indagare.
Il mio intero sistema nervoso è in fibrillazione per l’ansia. Kat è laggiù da qualche parte, chiusa dentro una di quelle capsule. E ci sono anche Carole e Gorog. L’orrore di tutto questo mi fa quasi venire i conati di vomito. Non posso abbandonarli qui, e non lo farò. Non c’è tempo per riflettere. Devo agire.
Mentre il dottore esamina il paziente, io schizzo giù per le scale e corro alla prima capsula che trovo. Dietro la finestra, una donna afroamericana di mezza età giace sul ripiano d’acciaio, i piedi nudi a pochi centimetri dal vetro. In fondo alla capsula, la sua testa è leggermente sollevata. Posso vedere la faccia chiaramente e non la riconosco. Indietreggio e mi sposto lungo la fila di finestre, controllandole una per una, in cerca di Kat. Non ho idea di che aspetto abbiano Carole e Gorog nella vita reale, ma spero lo stesso di riuscire a riconoscere anche loro in qualche modo. Forse, come me, assomigliano ai loro avatar.
Mi accovaccio per guardare le capsule della fila in basso e salto per controllare quelle in alto. I moduli sono tutti uguali: interno di acciaio inossidabile, monitor verdi lampeggianti, fili e tubi. I corpi, invece, non potrebbero essere più diversi. Ce ne sono di ogni corporatura, età e carnagione, e sono tutti quasi completamente nudi. Ognuno è avvolto da una strana luce arancione, che deve avere qualche ruolo nel tenerli in vita. Tutti indossano il visore nero.
Mi rendo conto che questa è la prova che stavo cercando. Prendo lo smartphone di mia mamma e comincio a scattare fotografie. C’è in ballo qualcosa di grosso e la Compagnia ne è coinvolta in pieno. Persone inferme ricevono false diagnosi di sindrome locked-in e le loro famiglie vengono persuase con l’inganno ad accettare la terapia offerta dalla Compagnia. Poi i pazienti vengono portati qui… e usati per testare il disco ed eliminare i bug. E, per quanto sia difficile crederci, dietro tutto deve esserci quello stronzo di Milo Yolkin. Non è un segreto per nessuno che è un maniaco del controllo. Non succede mai niente senza il suo diretto…
Un suono perforante quasi mi spacca il cranio. Appena dietro l’angolo è partito un allarme e sopra la mia testa lampeggiano luci rosse. Sento una porta aprirsi da qualche parte e passi che si avvicinano frettolosi. Mi paralizzo e mi schiaccio contro una parete, facendo del mio meglio per rendermi invisibile. Non ho idea di che cosa accadrebbe se venissi scoperto, ma so che cosa accadrebbe ai miei amici. Niente. Rimarrebbero qui. E alla fine sarebbero i loro cadaveri a essere portati con il furgone all’agenzia di pompe funebri.
Diverse persone corrono lungo un corridoio vicino, poi si fermano di botto. Qualcuno sta abbaiando ordini. Si sente un forte tonfo, seguito da un segnale acustico uniforme, e poi un secondo tonfo.
Mi avvicino in punta di piedi al punto in cui sta succedendo tutto e sbircio dietro l’angolo. Alcuni metri più avanti, in un corridoio identico al mio, un secondo dottore e una squadra di infermieri si sono raccolti intorno al paziente che ho appena visto venire esaminato. Un infermiere si allontana dal suo fianco e finalmente riesco a guardarlo bene. Credo abbia poco più di trent’anni e, a parte tutti i tubi a cui è attaccato e a parte il fatto che un dottore sta cercando di far ripartire il suo cuore con un defibrillatore, sembra in ottima forma fisica. Da quel che posso vedere, non ci sono ferite visibili sul suo corpo, per cui è strano assistere all’attività frenetica che lo circonda.
Sollevo lo smartphone e faccio partire la registrazione. Devo riconoscere che ognuno si sta impegnando al massimo per salvare la vita del paziente. Ma solo pochi minuti dopo è già tutto finito. I dottori si tolgono i guanti e scompaiono nel labirinto; un infermiere spinge via il carrello del defibrillatore e due colleghi lo seguono. Alla fine rimane solo un’infermiera insieme al cadavere. Mentre metto via il telefono, sento porte aprirsi e chiudersi da qualche parte in lontananza, e di colpo mi rendo conto di essere in trappola. L’infermiera probabilmente è la mia unica via di fuga e dubito che vorrà aiutarmi. Preferirei non forzarla, ma potrei non avere scelta. Ho il filmato che potrà salvare i miei amici e distruggere la Compagnia… ma solo se riesco a uscire vivo di qui. In questo momento, è un se davvero gigantesco.
Rimango ad aspettare mentre l’infermiera stacca dall’uomo i vari tubi e fili che lo collegavano al sistema di supporto vitale e trasferisce il cadavere su una barella. Poi mi avvicino, facendo più rumore che posso perché voglio che mi senta arrivare. E mi sente. Mi lancia un’occhiata senza traccia di paura. Da vicino è insolitamente pallida, con cerchi scuri sotto gli occhi. Il corpo sulla barella appare decisamente più in salute.
«Ciao» la saluto, cercando di sembrare allegro. «Sono John, della manutenzione. Temo di essermi perso quaggiù. Pensi di potermi mostrare l’uscita?»
«Nessuno si perde» dice l’infermiera, continuando a fissarmi. Sa che non dovrei essere qui, ma non sembra preoccupata. Semmai, sembra completamente rassegnata. Se tirassi fuori un machete e minacciassi di farla a pezzi, credo che non batterebbe ciglio.
«Immagino ci sia una prima volta per ogni cosa.»
«Che cosa vuoi?» chiede, rimettendosi al lavoro. «Dimmelo prima che arrivi qualcuno.»
Mi rendo conto che è la mia occasione. «Sto cercando di fermare tutto questo, ma prima ho bisogno di uscire di qui.»
Aspetto con impazienza. Potrebbe andare in due modi. Uno dei due finisce con me che prendo a pugni un’infermiera. Dovrò semplicemente fare pace con questo pensiero quando e se arriverà il momento.
«Allora infilati sotto» mi suggerisce, indicando la barella. C’è un lungo ripiano di metallo a metà altezza, tra il materasso e le ruote.
Mi guardo intorno. «Ci sono telecamere che possono vedermi?»
«I sistemi di sorveglianza possono essere hackerati, perciò niente telecamere qui sotto. Preferiscono tracciare noi.» L’infermiera batte un dito sullo smartwatch che ha al polso. «Questi cosi non si possono togliere. Sanno tutto quello che faccio. Non posso sfuggire. I miei movimenti sono monitorati ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette.»
E ci credo. La Compagnia non vorrà che escano notizie sulla sua fattoria di corpi.
«Che cosa succede se fai qualcosa che non dovresti?» Tipo aiutare un intruso a scappare.
«Non lo so.» La sua voce trema un po’. Ancora una volta, indica il ripiano sotto il paziente morto. «Sali. Fai in fretta, prima che passi un dottore.»
Schiaccio il mio corpo gigantesco sul ripiano, sdraiandomi sul fianco e rannicchiando le gambe. L’infermiera stende un lenzuolo sopra il cadavere. La stoffa è lunga giusto quanto basta per nascondermi. Il cervello mi rimbalza nel cranio mentre le ruote della barella scorrono sul pavimento di cemento. Spero tanto di sapere che cazzo sto facendo.
Il viaggio dura meno di tre minuti e termina in una stanza gelida. L’infermiera tira via il lenzuolo.
«Puoi uscire. Non ci sono telecamere neanche qui.»
Scivolo fuori dal nascondiglio e capisco perché non ce ne sono. Siamo in una sala autopsie. Ci sono tre cadaveri di diverse corporature adagiati su tavoli di metallo, fortunatamente tutti coperti da lenzuoli. Sulla mia sinistra c’è una parete di cassetti di metallo; sulla destra un frigorifero enorme con sportelli di vetro. Sui ripiani del frigorifero sono allineati barattoli pieni di cervelli umani galleggianti.
Prendo lo smartphone e comincio a scattare altre foto. Il mio sguardo passa sopra i cervelli e poi si ferma su uno dei corpi che attendono di essere sottoposti ad autopsia. Un dreadlock biondo scuro spunta fuori dal lenzuolo. West, il tossico con cui andava in giro Kat, aveva capelli uguali a questi. Non ho bisogno di vedere la faccia per sapere che è lui. È sopravvissuto al crollo alla fabbrica solo per finire qui. Non mi è mai piaciuto, ma non gli avrei mai augurato questo.
«Cristo santo.» Guardo l’infermiera. «Che cosa state facendo a queste persone?»
«I pazienti muoiono nelle capsule. I patologi cercano di scoprire che cosa li ha uccisi» risponde lei. «Questo è tutto quello che so.»
Sembra così piccola e fragile, là accanto alla barella, ma io so che quello che sta facendo richiede una forza incredibile. «Perché mi stai aiutando?»
Lei scuote la testa con espressione impotente. «Io non posso uscirne.» Tocca il dispositivo al suo polso. «Ma tu sì. Metti fine a tutto questo.»
«Ci proverò.» Non posso promettere altro. Mi rinfilo in tasca il telefono di mia madre. «Ma prima devo andarmene.»
«Questa è l’unica via d’uscita» dice l’infermiera, sollevando un lungo sacco nero.
La mia barella entra nell’ascensore, e sento le porte chiudersi. Non avverto la cabina salire e nemmeno fermarsi, ma sento le porte aprirsi e la voce di Angela sullo sfondo. Si direbbe che sta flirtando con un altro autista di un’altra compagnia di trasporto pazienti. Cerco di rimanere perfettamente immobile quando il tizio prende in consegna la mia barella e la spinge per il corridoio. A un certo punto aprirà il sacco e controllerà di aver preso il pacco giusto. L’infermiera ha suggerito un modo per aggirare questo ostacolo, ma si è anche premurata di avvisarmi che non c’era niente di sicuro.
Sento la cerniera abbassarsi. «Signore, hanno messo un lenzuolo sulla faccia di questo» dice una voce maschile dal timbro giovanile. «Devo toglierlo?»
Mi tengo pronto a saltare fuori e correre, perché la mia faccia non corrisponde alla foto nel loro file.
Un uomo più anziano grugnisce. «Solo se sei forte di stomaco. Lo fanno con quelli che non ne sono usciti molto bene. Una volta ho tolto il lenzuolo e giuro che non lo farò mai più.»
«Allora credo che passerò, se lei è d’accordo, signore» dice il giovane. Dalla sua voce tremante si capisce che non ha le palle per questo tipo di lavoro.
«Il cadavere è maschio?»
«Sì, signore. È decisamente troppo grosso per una femmina.»
«Allora per me è okay se salti l’ispezione.»
La cerniera risale. Vengo spinto dentro il furgone e sento il giovane salire dietro la barella. A un tratto provo pena per il ragazzo. Sarà seduto proprio accanto a me quando il cadavere che lui è troppo impressionabile per controllare deciderà di risorgere dalla morte.
Sento il furgone svoltare a destra in Dandelion Drive e ricostruisco mentalmente il percorso che dovrebbe seguire. Se continuiamo dritto, presto incontreremo un tratto di bosco a lato della strada, sulla sinistra. Se riesco a raggiungerlo, posso dileguarmi. Con il dito sopra la cerniera del sacco, aspetto che il furgone si fermi a un semaforo; poi, con un unico movimento veloce, apro il sacco. Le grida cominciano nell’istante esatto in cui mi alzo a sedere sfilandomi la plastica dalle spalle. Per quando me ne sono liberato del tutto, la mia scorta è già rannicchiata in un angolo del furgone, il corpo raggomitolato in una piccola palla contratta e le mani a coprire la faccia.
«Sammy! Sammy! Che diavolo sta succedendo là dietro?» grida l’uomo dal posto di guida.
Il ragazzo risponde con un grido acuto che sembra non finire mai.
Apro di scatto le portiere. C’è una macchina dietro di noi, ferma al semaforo rosso, e vedo la reazione dell’uomo alla guida quando emergo dal furgone, nudo dalla vita in su. Quella testa di cazzo solleva la macchina fotografica per scattare una foto appena prima che io schizzi verso gli alberi sul margine del bosco. A meno che non sia un esperto di foto in movimento, è improbabile che mi abbia preso. In pochi secondi sono nel folto della foresta.
Sfortunatamente, mi rendo presto conto di essere a chilometri di distanza dalla Elmer’s. Il panico e la rabbia mi danno la carica, e comincio a camminare verso la mia meta. I rami mi sbattono contro i fianchi e ogni insetto del New Jersey sembra attirato dall’odore della mia pelle nuda. Mi trascino nel bosco e attraverso di corsa le innumerevoli strade che lo tagliano. Sono ricoperto di graffi e di punture, quando tiro fuori il telefono per controllare la mia posizione sulla mappa. Sul display compare il mio numero di casa. Invece di rispondere, lascio scattare la segreteria. Quando controllo, trovo una decina di chiamate perse dallo stesso numero. Cinque arrivate negli ultimi dieci minuti. Ascolto il messaggio più recente.
«Che cos’hai fatto?» sussurra rabbiosamente mia madre nel microfono. Il che cattura immediatamente la mia attenzione. Irene Eaton non sussurra mai. «C’è qui la polizia e sta perquisendo la tua camera. Dicono che ti hanno visto entrare senza autorizzazione in qualche struttura medica, e sospettano che tu possa essere in possesso di beni rubati. Simon, devi consegnarti immediatamente. Se ti prendono, potresti finire in prigione per anni. E ti prenderanno. Quando scopriranno che hai il mio smartphone, tutto quello che dovranno fare sarà tracciarlo.»
Non ascolto il resto del messaggio. Forse mi sbaglio, ma ho la sensazione che mia madre mi abbia appena salvato il culo. Credo sapesse che qualcuno poteva essere in ascolto, e stava suggerendomi di distruggere il telefono. Lo farò tra un secondo, ma prima devo mandare le foto e i video che ho fatto alla clinica al mio indirizzo e-mail, per tenerli al sicuro. Apro la cartella delle foto, sto selezionando le immagini da spedire… e a un tratto non ci sono più, sono sparite! La Compagnia ha crackato il telefono. Butto a terra il dispositivo ormai inutile e lo faccio a pezzi sotto il tacco della scarpa.