capitolo 13
†
Urali meridionali, 7 settembre, ore ì 1.00
Con un fucile in spalla, Monk risalì l'ultimo tornante. Il complesso minerario era aggrappato a una parete di granito. Le strutture metalliche e la vecchia centrale elettrica si erano tutte ossidate. I tetti e le grondaie erano rosi dalla ruggine, le finestre rotte o frantumate, e a terra giacevano attrezzature abbandonate decine di anni addietro: pale, picconi, carriole.
Lontano dalle rupi s'innalzavano grandi cumuli di materiale sterile e terreni di scarico dei detriti. In mezzo ai mucchi di pietre si ergeva la torre di un impianto di scarico a vagoni, coi bracci di carico, paranchi e vari scivoli usati per scaricare il minerale sui camion.
Mentre arrancava sulla gamba bendata alla meglio, Monk si domandò come faceva a sapere tutte quelle cose sulle miniere. Che la sua famiglia avesse a che fare con...
D'improvviso, una serie d'immagini gli balenò alla mente come flash: un vecchio con indosso una tuta, coperto di polvere di carbone... lo stesso uomo in una bara... una donna in lacrime...
Una fitta lancinante di dolore interruppe gli sprazzi di memoria.
Con una smorfia, guidò i bambini e Marta in mezzo a un labirinto di nastri trasportatori, rotaie e scivoli di scarico fino alla loro destinazione. Un paio di binari conduceva a una bocca spalancata in una parete rocciosa. Era l'entrata principale della miniera.
Mentre la varcavano, Monk si guardò alle spalle.
Il lago Karacaj sì estendeva sotto di loro. Secondo Monk, era largo almeno tre chilometri e lungo il triplo. Perlustrò i monti ricoperti di boschi sulla sponda opposta, cercando un segno di dove avevano cominciato quel viaggio.
«Dobbiamo sbrigarci», intervenne Konstantin.
Monk annuì. Il bambino più grande camminava tra i due più piccoli, seguito da Marta. Li condusse all'entrata.
Avvicinandosi, scoprì un problema. Una grande barriera di legno, eretta con tronchi accatastati e cementati, bloccava completamente il pozzo della miniera.
A giudicare dalle condizioni esterne del complesso, sembrava che fosse abbandonato da secoli. Ma Monk notò una pila di mozziconi di sigaretta e bottiglie di vodka vuote ai piedi della barriera. Il suolo sabbioso era coperto di impronte di stivali recenti. La miniera non era così abbandonata come sembrava. Qualcuno si era fermato in quel luogo di recente.
Non c'erano camion parcheggiati né solchi recenti di pneumatici nel complesso, perciò chiunque si fosse preso un po' di riposo lì se n'era andato con un altro mezzo.
Un treno passava sotto il lago dal Complesso Minerario 337 fino a Celjabinsk 88. Chiunque lavorasse nelle miniere doveva uscire di solito dall'altra parte.
Monk pregò che non aspettassero visite alla porta di servizio. Si avvicinò al rettangolo d'acciaio rivettato attaccato alla barriera. «E ora che facciamo? Bussiamo?» Konstantin si avvicinò al portone, alzò il chiavistello e spinse. La barriera si spalancò.
Monk imbracciò in fretta e furia il fucile e lo puntò verso l'entrata. «Avverti prima di farlo!» «Nessuno viene qui», si giustificò Konstantin. «È troppo pericoloso. Perciò le chiavi non servono. E chiuso solo per tenere alla larga gli orsi e i lupi.» «E le tigri», borbottò Monk.
Konstantin gettò a terra lo zaino, lo aprì e tirò fuori la torcia elettrica. La porse a Monk, che si mise in spalla il fucile. Entrando nella galleria principale con fare guardingo, Monk puntò la torcia. Grosse travi di legno sostenevano il passaggio che scendeva in profondità. Un paio di rotaie s'inoltrava nell'oscurità, oltre la portata della torcia. Poco lontano, due vagoncini erano fermi sui binari a ridosso della barriera.
Monk notò tunnel bui che si diramavano. Sospettava che la montagna fosse crivellata di pozzi e gallerie. Non c'era da stupirsi se i minatori uscivano ogni tanto da quella miniera buia e tetra per andare a prendere un po' di luce, anche se all'ombra di un lago avvelenato. «Allora, dove andiamo?» Konstantin tacque.
Monk si girò verso di lui.
Il bambino si strinse nelle spalle. «Non lo so. So solo che si va giù.» Monk sospirò. Be', quella era un'indicazione.
Con la torcia in pugno, scese nell'oscurità.
Savina osservò i volti sorridenti. I bambini più grandi chiacchieravano traboccanti di entusiasmo, mentre i più piccoli scorrazzavano di qua e di là, cercando di scaricare il nervosismo. Quelli che avevano meno di cinque anni ed erano troppo immaturi per gli impianti restavano muti e distaccati, rivelando vari gradi di autismo non curato: erano seduti in silenzio, gli sguardi vuoti, afflitti da gesti ripetitivi.
Quattro insegnanti cercavano di organizzare la sessantina di bambini a loro affidati.
«Restate coi vostri gruppi!» II treno attendeva oltre le porte blindate sul retro di Celjabinsk 88. Avrebbe trasportato i bambini per una breve gita di piacere. Ai piccoli era concesso ogni tanto un simile lusso, ma quel giorno sarebbe stato un viaggio senza ritorno. Si sarebbe fermato nel cuore dell'operazione Saturno.
Alle spalle di Savina, i palazzi industriali dell'epoca sovietica fissavano i bambini dall'alto con occhi scavati. Anche gli insegnanti avevano la stessa aria spaurita, nonostante le voci allegre.
«Avete tutti preso la medicina?» domandò a gran voce una donna dall'aspetto austero.
La medicina era un sedativo combinato con un composto radiosensibile. Benché fossero elettrizzati, di lì a un'ora i bambini sarebbero scivolati in un sonno dissociato. Avrebbe alleviato l'ansia quando le cariche fossero esplose in fondo alla galleria, dando inizio all'operazione. La prima ondata d'acqua del lago nel cuore della galleria e la conseguente scarica di radiazioni avrebbero trasformato il composto radiosensibile nel flusso sanguigno dei bambini in una neurotossina letale, che li avrebbe uccisi all'istante.
Il gruppo aveva pensato di limitarsi a sopprimere i bambini con un'iniezione letale, ma ciò comportava un coinvolgimento emotivo tale da mettere a dura prova anche il professionista più distaccato. Per di più, sarebbe stato necessario raccogliere, caricare e trasportare tutti quei corpicini senza vita. Secondo il piano, l'esposizione per settimane alle radiazioni del lago che si prosciugava avrebbe bruciato i corpi e denaturato il DNA tanto da rendere impossibile le analisi... Sempre che qualcuno avesse avuto il coraggio di recuperare i cadaveri. I livelli di radiazioni nella galleria avrebbero impedito l'accesso per decenni.
Perciò, in definitiva, il piano era stato giudicato efficace, il meno disumano, e offriva ai bambini un ultimo momento di felicità e spensieratezza.
Tuttavia Savina stava con le mani giunte dietro la schiena, strette così forte da farsi venire le nocche bianche. Era necessario per trattenersi dall'afferrare i bambini e tirarli giù dal treno.
Ma ne aveva salvati dieci.
Doveva consolarsi.
1 dieci migliori.
Erano rimasti nel palazzo alle sue spalle, dove si trovava la stazione di controllo dell'operazione Saturno. Poi i dieci soggetti Omega sarebbero stati trasferiti in una nuova struttura a Mosca. Era giunto il momento di svelare il progetto.
Sarebbe stata la sua eredità.
Ma un simile successo aveva un prezzo.
Risate e grida di allegria seguirono gli ultimi bambini. Discutevano su chi sarebbe salito sui vagoncini aperti e chi sulla carrozza anteriore o posteriore. Solo alcuni dei più grandi si chiedevano perché stessero partendo senza nessun adulto, ma anche loro sembravano più eccitati che preoccupati.
Quando fu salito l'ultimo bambino, il treno sibilò, i freni idraulici gemettero e con un crepitio elettrico si avviò nel tunnel. Le risate e le grida echeggiavano. Un secondo dopo le porte blindate si chiusero lentamente in fondo alla galleria, interrompendo le loro voci allegre.
I quattro insegnanti se ne andarono, senza parlare, senza quasi guardarsi.
Tranne per una donna matura dai fianchi larghi con indosso un grembiule lungo fino alle caviglie. Quando passò, sollevò una mano consolatoria verso Savina, poi ci ripensò e l'abbassò di nuovo. «Non era necessario che venisse.» Savina andò via senza dire una parola, non fidandosi della propria voce.
Sì che lo era.