capitolo 5

 

Pripjat, Ucraina, ore 09.32

 

Nikolaj salì sulla limousine con Elena. Una colonna di veicoli defluì dal piazzale di fronte all'hotel Polissia. Da mezzanotte, le troupe televisive di tutto il mondo erano impegnate a sistemare le telecamere e a preparare i furgoni che montavano enormi antenne satellitari. Sin dalle prime luci dell'alba, sul luogo erano arrivate frotte di celebrità e dignitari, per rilasciare interviste, fare un giro o per essere al centro della scena per un momento.

Nelle ore successive, gli occhi del mondo sarebbero stati puntati sulla chiusura di Cernobyl, l'atto finale per porre fine alla vecchia era nucleare e iniziare un nuovo importante vertice per affrontare la questione.

Ma Nikolaj era preso da un problema personale. Non appena la portiera della limousine si chiuse con uno scatto, si trovò finalmente a tu per tu con Elena. «Mi dispiace. Avrei dovuto dirti di Sasa e Pètr.» Lei scosse appena la testa, furibonda. Non gli aveva detto una parola dall'interrogatorio degli americani. Si accostò al finestrino e guardò fuori della limousine. Sasa e Pètr avevano sempre occupato un posto speciale nel suo cuore. Era qualcosa di più dell'affetto abituale. Anche lei aveva un legame personale con loro. Era stata la sorella maggiore di Elena, Natasa, a darli alla luce, morendo durante il parto.

«Conosci la prassi del Vivaio», insistette Nikolaj mentre la limousine percorreva la strada. «Gli atti di nascita sono segreti.» Era stata una direttiva generale del Vivaio sin dal primo momento. Le discendenze familiari erano tenute in gran parte segrete. I bambini conoscevano i fratelli e le sorelle, per scoraggiare rapporti affettivi inopportuni, ma tutto finiva lì. La riproduzione era dettata e controllata dai genetisti.

Ma Nikolaj non era un comune discendente. In quanto figlio della fondatrice, intorno a lui era stato costruito un mito, a partire da Ekaterinburg, dove sua madre lo aveva partorito sotto il falso cognome di Solokov. Sua madre avrebbe voluto usare il cognome Romanov, ma sarebbe stato troppo evidente. Sin dalla nascita, Nikolaj era stato preparato per un destino speciale. Come tale, gli erano concessi determinati privilegi.

«Un giorno ho controllato gli archivi della clinica della fertilità. Ero curioso di sapere se avevo dei figli. È stato allora che ho scoperto che Sasa e Pètr erano miei. Ma mi è stato vietato di rivelarlo.» Allungò una mano verso il ginocchio di lei, ma rimase a mezz'aria, timoroso di toccarlo. «Inoltre, è stato a causa della generazione di bambini così dotati che mia madre ha incoraggiato la nostra unione. Nel tentativo di ripetere un incrocio genetico così fortunato.» Elena non si girò. Una parte di lui amava la sua freddezza. Voleva toccarla, ma lei non gli aveva dato il permesso.

«Ti prego, milaja moja, perdonami.» Lei lo ignorò.

Con un sospiro, Nikolaj rinunciò.

Attraverso il vetro oscurato, scorse il profilo di Cernobyl. Un'altissima torre di ventilazione, cinta da ponteggi di manutenzione, svettava nel cielo. S'innalzava da un'accozzaglia di edifici di cemento. Addossata su un lato c'era una grande e tozza cripta d'acciaio e cemento nero. Sembrava bagnata, come se sudasse. Non era un mistero il motivo per cui la struttura era detta il sarcofago. Sembrava una tomba nera, nel cui centro giacevano i resti del reattore numero quattro.

Nikolaj aveva visto le fotografie dell'interno, un paesaggio devastato di cemento bruciato e acciaio contorto. In una stanza c'era un orologio, carbonizzato e mezzo fuso, che segnava per sempre l'ora dell'esplosione. All'interno del sarcofago erano seppellite tra le macerie oltre duecento tonnellate di uranio e plutonio, in gran parte sotto forma di lava solidificata, formatasi dalla fusione radioattiva di cemento e duemila tonnellate di combustibile. Pezzi del nucleo esploso erano sparsi ovunque, alcuni conficcati nelle pareti esterne. Ai livelli inferiori dell'impianto, le infiltrazioni di acqua piovana e le polveri si raccoglievano in una melma radioattiva.

C'era da meravigliarsi che fosse necessaria una nuova soluzione?

Aveva diversi nomi: la cupola, l'arco della vita, il nuovo sarcofago. L'arco a forma di hangar s'innalzava trenta piani nel cielo. Con un peso di oltre ventimila tonnellate, si sviluppava per duecentocinquanta metri in larghezza e per la metà in lunghezza. Sotto la volta, gru a ponte robotiche attendevano di smontare il vecchio sarcofago pezzo per pezzo, azionate da tecnici al sicuro all'esterno della cupola.

Ma le cose erano già in moto.

L'intero arco poggiava su rotaie d'acciaio lubrificate, sulle quali era trasportato piano piano proprio in quel momento, tirato da una coppia di enormi martinetti idraulici. Era la più grande struttura mobile mai costruita dall'uomo. E, per le undici di quel mattino, la cupola avrebbe coperto il vecchio sarcofago e sigillato l'edificio di cemento, seppellendo completamente una brutta pagina della storia russa e annunciando un nuovo inizio.

Era giusto che un tale evento segnasse l'inizio dell'imminente vertice. l)n vertice che non si sarebbe mai tenuto.

La limousine si diresse verso le tribune allineate sul lato sud del vecchio sarcofago. I posti si stavano già riempiendo di personalità importanti. I discorsi erano già cominciati sul palco: si sarebbero conclusi con la chiusura finale di Cernobyl. L'intera serie di eventi era sincronizzata sul preciso spostamento del grande arco.

Come il piano di Nikolaj.

Un brivido di paura lo attraversò. Non diverso da quello che aveva provato quando era sul podio mentre un assassino prendeva la mira per sparare un colpo mortale. Solo che il rischio quella mattina era mille volte più grande.

Una mano si posò sulla sua appoggiata sul sedile. Elena guardava fuori del finestrino, ancora arrabbiata, facendogli capire che non era ancora finita. Piegò le dita e affondò le unghie nel palmo di lui: la promessa che più tardi sarebbe stato punito.

Nikolaj si appoggiò allo schienale mentre lei affondava più in profondità.

Il dolore lo aiutò a concentrarsi.

Più avanti, l'arco si chiudeva lentamente sopra Cernobyl.

Sapeva che cosa stava per accadere.

E lui meritava certamente di essere punito.

 

Ore 10.04

 

Gray andava su e giù nella cella quando udì un tonfo contro la porta. Kowalski si tirò in piedi e Luca si raddrizzò dal muro cui era appoggiato.

«E ora che diavolo succede?» domandò Kowalski.

Risuonò lo stridore di una sbarra di metallo e la porta si aprì.

Una figura scavalcò i piedi con gli stivali di una guardia lunga distesa sul pavimento «Presto», disse l'uomo, agitando un bastone da passeggio col becco d'avorio. «Dobbiamo filarcela da qui.» Gray lo fissò, incredulo.

Era il dottar Hayden Masterson.

Confuso, Gray restò fermo immobile, indeciso se prenderlo a pugni o stringergli la mano.

«Comandante, lavoro per l'MI6.» «Servizi segreti britannici?» Masterson annuì con un sospiro esasperato. «Dovrà aspettare per le spiegazioni. Dobbiamo andarcene, subito.» Si avviò nel corridoio, seguito dagli altri.

Gray si fermò il tempo necessario per raccogliere l'arma della guardia, una pistola Yarygi PYa. L'uomo era stato tramortito, il naso rotto. A quanto sembrava, il bastone di Masterson era qualcosa di più di un accessorio. «Lei è un agente dell'M16?» Kowalski borbottò alle sue spalle: «Non è proprio James Bond, eh?» Masterson continuò a camminare con passo claudicante, ma lanciò un'occhiata a Gray. «A riposo, a dire il vero.» Si strinse nelle spalle. «Se lei lo chiama riposo, questo...» Gray rimase cauto, ma non riuscì a immaginare quale vantaggio potesse ottenere quell'uomo dalla loro liberazione.

Masterson proseguì a passo spedito, ansimando. «Sono stato reclutato dopo la laurea a Oxford e assegnato in India durante l'occupazione russa dell'Afghanistan. Mi sono ritirato dieci anni fa, ma sono incappato in questo pasticcio quando qualcuno mi ha offerto un sacco di soldi per spiare Archibald. Non ci ho messo molto a scoprire che dietro c'erano i russi. Perciò ho contattato l'MI6 e l'ho messo al corrente. Gli è stata assegnata una bassa priorità. Nessuno riteneva il lavoro di Archibald una minaccia alla sicurezza mondiale. Nemmeno io, a dire il vero. Finché non è stato rapito e trovato morto a Washington. Ho cercato di sollecitare l'MI6 ad agire, ma chi da retta a un vecchio di questi tempi? Non potevo stare con le mani in mano. Lo chiami intuito. Sapevo che stava succedendo qualcosa di grosso. Perciò, mi dispiace, dopo aver perso Archibald, ho dovuto usare tutti voi per fare più in fretta.» «Usare tutti noi?» fece eco Kowalski. «Hanno ucciso Abe!» «Ho cercato di fermarli, ma il vostro amico era troppo svelto con quella spada flessibile.» Scosse la testa, amareggiato. «Forse questo è un gioco per uomini più giovani, dopotutto.» «Un momento!» Kowalski si rese improvvisamente conto di qualcosa. «Lei intendeva spararmi» Gray lo zittì. «Faceva finta.» II professore annuì. «Dovevo essere convincente.» «Ha convinto me, cazzo!» «Sì, per fortuna.» Masterson si girò verso Gray. «Quel maledetto bastardo ha in mente di far fuori metà dei leader del mondo oggi.» «Cosa?» L'anziano li condusse al vano delle scale accanto al posto di guardia e abbassò la voce. «Ci sono altri uomini di sotto. Hanno bloccato quassù anche me. Sono un prigioniero come voi. Vado a liberare Elizabeth e la dottoressa Rosauro. Se riesco ad avere un aiuto da quella sua bella collega, proveremo a raggiungere un telefono e cominciare l'evacuazione.» «Prenda anche Luca.» Gray voleva mettere il più possibile al sicuro i civili. Inoltre la presenza del capo romano avrebbe aiutato parecchio a convincere Shay che il professore era sincero.

«Bene. Potrebbe servirmi il suo aiuto.» Masterson tirò fuori una ricetrasmittente dalla giacca e la porse a Gray, per mantenersi in contatto. «Ma nel frattempo...» Gray lo interruppe. «Devo fermare il senatore Solokov.» «Le resta meno di un'ora. Non so quale sia il suo piano, è qualcosa che ha a che fare con la cerimonia che si tiene a Cernobyl.» «Quale cerimonia?» Masterson estrasse un foglietto dalla tasca della giacca. «Stanno chiudendo il vecchio sarcofago di Cernobyl. Sotto un grande hangar d'acciaio.» Mentre Gray studiava il foglio, Masterson elencò i dignitari e i leader che avrebbero partecipato all'evento e riassunse brevemente il programma della mattinata. «Quanto al piano di Nikolaj, sono riuscito a scoprire solo il nome: operazione Urano.» «Operazione Il tuo ano?» fece Kowalski. «Chissà che male...» Gray lo ignorò e si diresse alle scale. «Dov'è Solokov ora?» «È diretto a Cernobyl.» Mentre Gray scendeva con Kowalski, ripensò all'alta torre di ventilazione. Qualunque cosa avesse in mente quel bastardo, doveva coinvolgere per forza il reattore. Ma perché quel nome? Gray aveva studiato quell'operazione durante le lezioni di strategia del corso di addestramento per ranger. L'operazione Urano era un'offensiva russa lanciata durante la seconda guerra mondiale che era sfociata nella più cruenta battaglia della storia dell'umanità, la battaglia di Stalingrado.

Qualcosa preoccupava Gray, qualcosa di opprimente, ma la tensione lo bloccava.

Due guardie sorvegliavano l'uscita della prigione. Gli davano le spalle.

Puntò la pistola Rook rubata.

Avrebbe rimandato le preoccupazioni a un altro momento.