capitolo 6

 

Washington, 5 settembre, ore 21.30

 

«Cernobyl? Che ci faceva mio padre in Ucraina?» Elizabeth fissò i due uomini dall'altra parte del tavolino, seduta in una poltrona con le spalle rivolte a una finestra panoramica che dava sul bosco del Rock Creek Park.

Si erano diretti lì in macchina dopo la fuga dal museo. Gray aveva usato i termini «rifugio sicuro», che non erano serviti molto a farla sentire al sicuro. Sembrava un romanzo di spionaggio. Ma la bellezza del rifugio, un bungalow Craftsman di due piani fatto di clinker e rivestito di pannelli di quercia levigata, contribuì a calmarla.

Almeno un po'.

Non appena arrivati, lei si era lavata, sfregandosi per parecchi minuti le mani e spruzzandosi l'acqua sul viso. Ma i capelli puzzavano ancora di fumo e le unghie erano ancora sporche di pittura. Poi si era seduta cinque minuti sul mobiletto col viso nascosto fra le mani, cercando di dare un senso alle ultime ore. Non si era accorta di stare piangendo finché non si era sorpresa con le mani umide. Erano troppe le cose da assimilare. Non aveva ancora avuto modo di prendere atto della morte di suo padre. Sebbene non avesse dubbi sulla verità di quella storia, non aveva ancora accettato la realtà.

Non prima di avere delle risposte.

Erano stati quegli interrogativi a tirarla fuori dal bagno alla fine.

Squadrò il nuovo venuto seduto dall'altra parte del tavolino, su cui era stato servito il caffè. L'uomo le fu presentato come il capo di Gray, il direttore Painter Crowe. Lo studiò. Aveva i tratti marcati, la carnagione bronzea. Come antropoioga, riconobbe il retaggio dei nativi americani nella conformazione degli occhi, benché fossero di un gelido colore azzurro. I capelli neri erano percorsi da una stria bianca sopra un orecchio, come se vi fosse stata infilata una penna di airone.

Gray sedeva con lui su un divano, chino sul tavolino a scartabellare una pila di documenti.

Prima che qualcuno potesse rispondere alla sua domanda, Kowalski tornò scalzo dalla cucina. Le sue scarpe appena lustrate campeggiavano sul caminetto spento. «Ho trovato dei cracker Ritz e qualcos'altro che sembra formaggio. Non ne sono sicuro. Ma c'è un po' di salame.» Si chinò per porgere il vassoio a Elizabeth.

«Grazie, Joe», disse lei, grata per quel gesto semplice e sincero in mezzo a tutto quel mistero.

Il gigante avvampò un po' intorno alle orecchie. «Figurati...» Indicò il vassoio e infine scrollò la testa, tornando a controllare le scarpe.

Painter si raddrizzò sul divano, attirando l'attenzione di Elizabeth. «Quanto a Cernobyl, non sappiamo perché suo padre sia andato là. In effetti, abbiamo esaminato il suo passaporto. Non c'è niente che documenti che sia andato all'estero, né, se è per questo, che sia mai rientrato negli Stati Uniti. Possiamo solo supporre che abbia viaggiato con un passaporto falso. L'ultimo spostamento documentato che abbiamo risale a cinque mesi fa. È andato in India.» Elizabeth annuì. «Ci andava spesso. Almeno due volte l'anno.» Gray si raddrizzò di scatto. «In India? E perché?» «Per una ricerca. Come neurologo, studiava le basi biologiche dell'istinto. Collaborava con un professore di psicologia dell'università di Bombay.» Gray lanciò un'occhiata al suo capo.

«Mi informerò», disse Painter. «Ma sapevo già dell'interesse di suo padre per l'istinto e l'intuito. Infatti era il motivo per cui era coinvolto coi Giasoni.» Le ultime parole erano rivolte a Gray, ma Elizabeth s'irrigidì nell'udire nominare quell'organizzazione. Non le riuscì di celare il disgusto. «Quindi sapete di loro... dei Giasoni.» Painter guardò prima Gray, poi di nuovo la donna. «Sì, sappiamo che suo padre lavorava per loro.» «Lavorava per loro? Erano la sua ossessione, se mai.» «Come sarebbe a dire?» Elizabeth spiegò come la collaborazione con l'esercito si era trasformata in una mania estenuante. Ogni estate spariva per settimane, a volte anche per periodi più lunghi. Il resto dell'anno lo dedicava ai suoi doveri di professore del MIT. Pertanto non era quasi mai a casa, dettaglio che aveva messo a dura prova i rapporti tra i suoi genitori. Dalle accuse erano passati ai litigi. La madre si era convinta che il marito avesse una relazione extraconiugale.

La tensione in casa era servita solo ad allontanare maggiormente suo padre. Un matrimonio granitico era andato a pezzi. Sua madre, già a rischio alcolismo, aveva superato il limite. Un giorno, quando Elizabeth aveva sedici anni, si era ubriacata ed era precipititata col SUV di famiglia nel Charles River. Non fu mai stabilito se si fosse trattato di un incidente o di un suicidio.

Ma Elizabeth sapeva a chi attribuire gran parte della colpa.

Da quel giorno aveva parlato di rado col padre. Ora se n'era andato anche lui. Per sempre. Nonostante il lutto, non riusciva a mettere da parte il cocente rancore che gli portava. Anche la sua strana morte lasciava troppi interrogativi irrisolti. «Ritiene che il suo coinvolgimento coi Giasoni abbia qualcosa a che fare con la sua morte?» Painter scosse la testa. «È difficile a dirsi. Le indagini sono appena cominciate. Ma sono riuscito a scoprire a quale progetto militare segreto era assegnato. Era denominato progetto...» «Stargate.» Elizabeth si gustò un po' la soddisfazione di vedere l'espressione sbigottita dell'altro.

Kowalski si raddrizzò accanto al camino. «Ehi, ho visto un film su quello... con gli alieni e cose del genere, vero?» «Non quel Stargate, Joe», chiarì lei. «E non si preoccupi, signor Crowe. Mio padre non ha violato il suo vincolo di sicurezza. Ho sentito citare il progetto un paio di volte. Poi, dieci anni dopo, ho letto i rapporti della CIA non più coperti da segreto," divulgati con la legge sulla libertà d'informazione.» «E su cosa verte questo progetto?» domandò Gray.

Painter accennò alla pila di documenti sul tavolino. «Lì ci sono tutti i dettagli, risalenti alla guerra fredda. Era ufficialmente supervisionato dallo Stanford Research Institute, che in seguito avrebbe contribuito allo sviluppo delle tecnologie stealth. Nel 1973 l'istituto fu incaricato dalla CIA di studiare la possibilità di impiegare la parapsicologia nella raccolta di informazioni riservate.» «La parapsicologia?» Gray inarcò un sopracciglio.

«Telepatia, telecinesi... ma si concentrò perlopiù sulla visione a distanza, impiegando individui per spiare siti e attività con la sola forza del pensiero.» Dall'altra parte della stanza, Kowalski emise un risolino di scherno. «Spie psi.» «Per quanto folle possa sembrare, dovete capire che, nel periodo più cupo della guerra fredda, qualsiasi presunto vantaggio sovietico doveva essere compensato dai nostri servizi segreti. Non si poteva tollerare nessun gap tecnologico. L'Unione Sovietica sfruttava al massimo tutte le sue risorse. Per i sovietici, la parapsicologia era un campo multidisciplinare, comprendente la bionica, la biofisica, la psicofisica, la fisiologia e la neurofisiologia.» Painter annuì in direzione di Elizabeth. «Come gli studi che suo padre stava svolgendo sull'intuito e sull'istinto. La neurofisiologia che è alla loro base.» Elizabeth lanciò uno sguardo a Gray. Dall'espressione diffidente dipinta sul suo volto, lui non sembrava per niente convinto, ma continuò ad ascoltare in silenzio. E così fece lei.

«Secondo i rapporti della CIA, i sovietici avevano cominciato a produrre risultati. Poi, nel 1971, il programma sovietico divenne d'improvviso inaccessibile. Le informazioni cessarono. Potevamo solo constatare che le ricerche proseguivano, sovvenzionate dal KGB. Dovevamo rendere la pariglia o perdere terreno. Perciò fu commissionato lo studio allo Stanford Research Institute.» «E quali furono i risultati?» chiese Gray.

«Controversi, nel migliore dei casi.» Anche Elizabeth aveva letto i rapporti non più coperti da segreto. «In verità, il progetto ebbe scarso successo.» «Questo non è del tutto vero», obiettò Painter. «Secondo i rapporti ufficiali, la visione a distanza produsse risultati utili nel quindici percento dei casi, il che era superiore alle probabilità statistiche. E poi c'erano le eccezioni. Come un artista di New York, Ingo Swann, che era capace di descrivere gli edifici nei minimi dettagli, conoscendone soltanto le coordinate geografiche. I suoi successi, secondo alcuni funzionari, sfioravano l'ottantacinque percento dei casi.» Diede un colpetto sulla pila di documenti. «I risultati dello Stanford Research Institute sono stati ripetuti sperimentalmente a Fort Meade e al laboratorio di Princeton per la ricerca sui fenomeni anomali. Inoltre sono stati riportati importanti successi: uno dei casi più citati riguarda il sequestro e la liberazione del generale James Dozier. Secondo il fisico a capo del progetto, un osservatore a distanza accertò il nome della città dove era tenuto prigioniero, mentre un altro descrisse nei particolari l'edificio, fino al letto su cui era incatenato. E difficile liquidare sbrigativamente risultati del genere.» «Eppure andò così», ribattè Elizabeth. «Da quel che ho capito, le ricerche si fermarono a metà degli anni '90. Il programma fu abbandonato.» «Non del tutto», replicò Painter, criptico.

Prima di poter dare una spiegazione, Gray intervenne. «Ma, tornando all'inizio, che cosa c'entra tutto questo coi Giasoni?» «Ci stavo proprio arrivando. A quanto pare, lo Stanford Research Institute, come i sovietici, aveva cominciato ad ampliare i parametri delle ricerche, estendendoli alle discipline scientifiche.» «Come la neurofisiologia», intervenne Gray. «II lavoro del dottar Polk.» Painter annuì. «Sebbene il progetto fosse coperto da segreto, lo affidarono a due Giasoni impegnati in ricerche parallele. Uno di loro era suo padre, Elizabeth. L'altro era il dottar Trent McBride, un ingegnere biomedico specializzato in fisiologia del cervello.» Elizabeth conosceva quel nome. Ricordava le visite a tarda ora, ilpadre che si ritirava con estranei nel suo studio, compreso il dottar McBride. Era difficile dimenticare la sua voce alta e garrula, ma gentile. Le portava anche dei regali quando era più giovane: prime edizioni di Nancy Drew.

«Ho provato a mettermi in contatto col dottar McBride», proseguì Painter. «Solo per scoprire che nessuno ha sue notizie da cinque mesi.» Un brivido corse lungo la schiena di Elizabeth. Cinque mesi. «Dal viaggio di mio padre in India.» Scambiò uno sguardo preoccupato con Gray.

Che cosa stava succedendo?

 

Ore 21.40

 

Jurij Raev uscì dall'ascensore al piano sotterraneo del complesso di ricerca. Dopo aver ricevuto la telefonata, ci aveva messo quarantacinque minuti a raggiungere il Walter Reed Army Institute of Research, nel Maryland. L'edificio ospitava più di cinquantamila metri quadri di laboratori, quasi tutti progettati per ricerche in condizioni di biosicurezza di livello BL-3, ovvero per ogni genere di malattie infettive.

Jurij aveva usato il codice di emergenza, Pandora, per mettersi in contatto coi Giasoni. C'erano voluti altri dieci minuti per trasmettere un allarme a quelli che cercava, un gruppo segreto dell'organizzazione che aveva collaborato coi russi al progetto: per il bene supremo di entrambe le nazioni. Jurij sperava di ottenere collaborazione per impedire che Sasa cadesse nelle grinfie di Mapplethorpe. I Giasoni sapevano che occorreva la massima cura per trattare la bambina, a livello sia fisiologico sia psicologico.

Mapplethorpe, d'altra parte, pensava solo a correre rischi calcolati, a soddisfare le sue ambizioni e ad agire per interesse personale. Jurij non si fidava di lui.

Con la scomparsa di Sasa, Jurij aveva bisogno di alleati sul suolo americano.

Gli erano state date istruzioni di incontrare il dottor James Chen, un neurologo, nonché membro del gruppo ristretto, per mettere a punto una strategia.

Sarebbero stati raggiunti da un terzo uomo.

Qualcuno che potrebbe aiutarci, gli era stato detto in modo criptico.

A Jurij erano state fornite indicazioni precise e l'autorizzazione per il luogo dell'incontro. S'incamminò lungo il corridoio. A quell'ora, tutte le porte erano chiuse. Pochi laboratori erano situati a quel livello. La candeggina gli irritava il naso e copriva un odore più muschiato. Dietro una porta, udì le familiari grida stridule di qualcosa di scimmiesco. Doveva essere in quel locale che il complesso ospitava gli animali da esperimento, vuoto, a quell'ora.

Controllò il numero della stanza.

B-2 340.

Trovò la porta con un vetro smerigliato e bussò.

Un'ombra passò davanti al pannello e la porta si aprì subito. «Dottar Raev, grazie per essere venuto.» Jurij vide a malapena il giovane asiatico che si allontanava. Indossava un camice da laboratorio bianco sopra calzoni azzurri tipo jeans. Sul capo teneva un paio di occhiali, come dimenticati. Lungo una parete della stanza era sistemato un tavolo da lavoro, mentre sull'altra era allineata una fila di gabbie d'acciaio. Tra le sbarre sporgevano un paio di musi neri. Dalle gabbie giungeva il raspio di unghie minuscole. Topi di laboratorio. Solo che quelli erano glabri, a parte i baffi.

Il dottar Chen lo fece passare da una porta aperta sul retro. Si ritrovò in un ufficio in disordine: una scrivania d'acciaio stracolma di giornali, una lavagna bianca tappezzata di appunti e una libreria gremita di vasi di vetro pieni di campioni.

Jurij si stupì di trovare una figura familiare infilata a fatica dietro la scrivania, un telefono cellulare all'orecchio. L'uomo, più o meno sui cinquantacinque anni, dimostrava le origini scozzesi nella corporatura massiccia, con le gote rubiconde e la barba rossa e grigia ben curata su una mandibola sporgente. Era il capo del gruppo di Giasoni incaricato di assistere i russi, nonché collega e amico di vecchia data di Archibald Polk.

Il dottar Trent McBride.

«È appena arrivato. Ragguaglierò tutti fra un'ora.» McBride chiuse il cellulare, si alzò e porse la mano. «Sono stato messo al corrente della tua situazione, Jurij. Considerate le condizioni della bambina, questo ha la precedenza assoluta. Faremo il possibile per aiutarti a rintracciarla.» Jurij gli strinse la mano e si mise a sedere. Sebbene sbalordito, si sentì sollevato di trovare lì McBride. Dietro la sua bonaria spavalderia, aveva una mente acuta e pratica. «Quindi capisci quanto sia importante che la ritroviamo? E in fretta.» L'altro fece cenno di sì. «Quante ore può sopravvivere la bambina senza medicine?» «Trentadue.» «E l'ultima iniezione?» «Sette ore fa.» Restava solo poco più di un giorno per ritrovarla.

«Allora dobbiamo muoverci in fretta», concluse McBride. «Come puoi immaginare, Mapplethorpe mi ha già chiamato. Infatti è per questo che sono qui anch'io.» «Credevo fossi a Ginevra. Non avevi deciso di startene nascosto?» «Solo fino a che non si fosse risolta la questione di Archibald.» Fissò Jurij indurendo lo sguardo. «Cosa che pare sia avvenuta. Anche se l'esito poteva essere migliore. Era mio amico.» «Sai bene quanto me che Polk non sarebbe sopravvissuto neanche un paio di giorni. Ho dovuto fare il necessario.» McBride non parve molto placato da quelle parole.

«Se ricordi, ho votato contro la decisione di coivolgere Polk.» McBride s'incurvò nella poltrona con un mezzo lamento. «Pensavo davvero che Archibald sarebbe stato più disponibile, soprattutto dopo aver visto il progetto di persona. In fondo, era uno sviluppo del lavoro di tutta la sua vita. E, tenuto conto della minaccia che lui costituiva, l'unica alternativa era...» Si strinse di nuovo nelle spalle, addolorato.

Polk si era avvicinato troppo al cuore del progetto. Più di quanto persino McBride sapesse. Non erano rimaste loro che due alternative: reclutarlo o eliminarlo.

Il reclutamento era fallito miseramente.

Portato nel Vivaio, l'uomo era alla fine fuggito con preziose informazioni segrete. Non avevano avuto altra scelta che dargli la caccia.

«Mi dispiace per Archibald», disse Jurij.

E lo era davvero. La morte di Polk, sebbene una tragica necessità, restava una grave perdita. Per conto suo, il professore aveva ottenuto numerosi risultati, arrivando quasi a rivelare ciò che i russi avevano nascosto agli americani. In definitiva, entrambi i fronti avevano sottovalutato le capacità di Polk.

Sia prima di rapirlo sia dopo.

Jurij proseguì: «Quanto alla bambina scomparsa...» McBride lo interruppe. «Suppongo sia uno dei tuoi soggetti Omega.» «È risultata nel novantasettesimo percentile. È essenziale per il nostro progetto. Per il lavoro di entrambi. Temo che Mapplethorpe non comprenda il delicato equilibrio necessario per mantenere vivo e attivo un soggetto Omega.» «Durante la conversazione telefonica con lui, Mapplethorpe ha suggerito la possibilità di ritrovare la bambina da soli.» «Immaginavo che avrebbe proposto una cosa del genere.» La porta dell'ufficio esterno si aprì. Jurij udì il dottar Chen salutare qualcuno, in modo rigido e formale.

Si girò e rimase sconvolto alla vista del volto cascante di Mapplethorpe. Un brutto presentimento Io assalì.

McBride si alzò. «John, stavamo parlando proprio di te. La tua squadra è riuscita a ritrovare il teschio potenziato?» «No. Abbiamo setacciato entrambi i musei.» «Strano», commentò McBride, corrugando la fronte preoccupato. «E della bambina cosa si sa?» «Gli elicotteri stanno perlustrando tutto il reticolo della città, sezione per sezione, a partire dallo zoo. Ancora nessun segnale dal dispositivo di localizzazione.» Jurij fu colpito dalle ultime parole. «Cosa? Quale dispositivo di localizzazione?» McBride girò intorno alla scrivania. Porse una mano chiusa a Jurij, quindi aprì le dita, rivelando un minuscolo oggetto nel palmo.

Poco più grande della capocchia di uno spillo.

Jurij dovette avvicinarsi per vederlo.

«Miracoli della nanotecnologia», spiegò McBride. «Un microtrasmettitore passivo con un attenuatore d'impulsi di burst, tutto contenuto in una capsula polimerica sterile. L'ultima volta che ho visitato il Vivaio, l'ho fatto iniettare a tutti i bambini.» Jurij non sapeva nulla di quegli impianti, d'altronde non era tenuto aggiornato su ogni cosa. «Savina ha autorizzato l'uso di simili localizzatori?» McBride lo guardò con un sopracciglio inarcato. Savina non sapeva nulla di quella faccenda. Era stato McBride a iniettare il dispositivo ai bambini, in segreto, all'insaputa di tutti. Aveva avuto libero accesso al Vivaio, ma sempre sotto sorveglianza. Jurij esaminò le dimensioni del microtrasmettitore. Era abbastanza piccolo da poter essere introdotto in un centinaio di modi diversi.

Perché McBride avrebbe...

La mente di Jurij prese rapidamente in esame le possibilità, le implicazioni e le conseguenze. McBride aveva inserito i localizzatori in ogni bambino. Una volta eseguito l'impianto, gli bastava creare le condizioni appropriate perché uno o più bambini dovessero lasciare la colonia.

Jurij ripensò al volto di Archibald Polk. L'improvviso aprirsi della mente alla comprensione lo colpì come un pugno allo stomaco. «È stato un inganno fin dall'inizio. La fuga di Polk...» McBride annuì con un sorriso. «Ottimo.» L'ombra di Mapplethorpe calò su di lui come una cappa di piombo.

Jurij era stato manovrato come una marionetta. Fulminò McBride con lo sguardo. «Tu eri nel Vivaio quando Archibald è fuggito. Lo hai aiutato tu a fuggire.» «Dovevamo trovare il modo di far uscire uno dei tuoi soggetti Omega.» «Hai usato Polk come esca. Il tuo stesso amico e collega.» «Una necessità, mi spiace.» «Archibald sapeva di essere manipolato?» McBride tirò un sospiro e con voce stanca e insieme afflitta rispose: «Credo che lo sospettasse... anche se aveva poco da scegliere. Morire o subire. A volte devi essere un patriota, volente o nolente. E devo dire che è stato in gamba. Ha quasi tagliato il traguardo».

«E tutto questo per rapire una sola bambina?» «Sospettavamo che voi russi ci nascondeste qualcosa. Non è forse vero?» Jurij restò impassibile. McBride aveva ragione, ma non aveva idea della portata di ciò che nascondevano.

«Useremo questa bambina per avviare il nostro programma qui negli Stati Uniti. Per studiare più nei particolari ciò che le avete fatto. Nonostante le nostre ripetute richieste d'informazioni, il tuo gruppo non ha fornito nessun rapporto dettagliato. Avete nascosto dati cruciali fin dall'inizio.» Eccome... E non solo quelli, anche i piani futuri.

«E le medicine di Sasa?» chiese Jurij.

«Ce la caveremo. Con la tua collaborazione.» «Mai.» «Temevo che lo avresti detto.» Un guizzo degli occhi di McBride attirò l'attenzione di Jurij sopra la sua spalla.

Mapplethorpe teneva in mano una pistola.

E sparò a bruciapelo.

 

Ore 21.45

 

Gray non era tipo da credere alle coincidenze. Due scienziati coinvolti nello stesso progetto scompaiono nello stesso momento: dopodiché uno riappare a Washington, contaminato radioattivamente e in punto di morte. «Elizabeth, tutto questo deve ricollegarsi in qualche modo alla ricerca di tuo padre.» Painter annuì. «Ma la domanda è: in che modo? Se sapessimo altri dettagli, magari qualcosa che non è presente negli archivi di suo padre...» La domanda rimase sospesa nell'aria.

Elizabeth abbassò gli occhi sul grembo, le mani serrate l'una nell'altra. Alla fine parve notare la tensione generale e sciolse le dita, distendendole un po'. Con voce bassa e monocorde disse: «Non lo so. Negli ultimi anni non abbiamo parlato granché.

Non era contento che mi dessi all'antropologia. Voleva che calcassi le sue...» Scosse la testa. «Non importa.» Gray le porse una tazza di caffè bollente. Lei l'accettò con un cenno di ringraziamento. Non bevve: si limitò a tenerla fra le mani, per scaldarle.

«Tuo padre non doveva essere così scontento della tua scelta professionale», la rincuorò Gray. «Ti ha fatto ottenere quel posto di dottorato in Grecia.» «II suo gesto non è stato altruistico. Mio padre è sempre stato interessato all'Oracolo di Delfi. Quelle sacerdotesse avevano uno stretto rapporto coi suoi studi sull'intuito e sull'istinto. Si era convinto che ci fosse qualcosa di innato in quelle donne, che avessero qualcosa in comune. Una caratteristica genetica, O un'anomalia genetica. Quindi, capisci, mi ha fatto ottenere quel posto a Delfi per poterlo aiutare nelle sue ricerche.» «Ma che tipo di ricerche svolgeva, di preciso?» domandò Gray, incoraggiandola. «Qualunque cosa tu sappia potrebbe aiutarci.» «Posso dirvi com'è nata l'ossessione di mio padre per l'intuito e l'istinto.» Gettò uno sguardo ora all'uno ora all'altro. «Nessuno di voi sa dei primi esperimenti dei russi sull'intuito?» I due scossero il capo.

«Era un esperimento orribile, ma rientrava nel campo di mio padre, la neurofisiologia. Una ventina di anni fa, i russi separarono una gatta dai suoi gattini. Portarono la cucciolata in un sottomarino. Mentre monitoravano i segni vitali della gatta, i sommergibilisti uccisero uno dei gattini. In quel preciso momento, il battito della madre accelerò e l'attività cerebrale registrò un dolore acuto. La gatta si agitò, entrò in confusione. Ripeterono l'esperimento con gli altri gattini nei giorni successivi, ogni volta con gli stessi, identici risultati. Nonostante la distanza, la gatta pareva percepire la morte dei suoi cuccioli.» «Una specie di istinto materno.» Elizabeth annuì. «O di intuito. In ogni caso, per mio padre, era la prova verificabile di un legame biologico. Si concentrò sulla ricerca delle basi neurologiche di questo strano fenomeno. Alla fine collaborò col professore in India, che stava studiando capacità simili fra i maestri di yoga e i mistici del suo Paese.

«Quali capacità?» volle sapere Painter.

Elizabeth bevve un sorso di caffè bollente e scosse il capo lievemente. «Mio padre cominciò a documentarsi su resoconti non verificati di persone dotate di particolari capacità mentali. Eliminò gli svitati e i ciarlatani, e cercò casi con un certo grado di prove dimostrabili, quei rari casi comprovati da veri scienziati. Come Albert Einstein.» Gray non celò la propria sorpresa. «Einstein?» «All'inizio del secolo, una donna indiana di nome Shakuntala fu portata in giro per le università del mondo per dimostrare le sue strane capacità. Non possedeva che l'equivalente di un diploma di scuola superiore, ma aveva un'inspiegabile attitudine per la matematica. Faceva complicati calcoli a mente.» «Una specie di abilità savant?» domandò Painter.

«Qualcosa di più, in verità. Col gesso in mano, la donna cominciava a scrivere la risposta al quesito prima ancora che le fosse proposto. Anche Einstein testimoniò la sua capacità. Le propose un quesito che lui impiegò tre mesi a risolvere, con una serie complicata di passaggi. Nuovamente, non aveva nemmeno finito di porre la domanda che lei scrisse col gesso la risposta, una soluzione che occupava l'intera larghezza della lavagna. Einstein le chiese come fosse stata in grado di farlo, ma lei non seppe rispondere, sostenendo che i numeri avevano cominciato semplicemente ad apparirle dinanzi agli occhi e che lei si era limitata a scriverli.» Elizabeth alzò gli occhi e fissò i due, aspettandosi chiaramente la loro reazione incredula. Ma Gray si limitò a farle cenno di proseguire. La sua accondiscendenza la irritò, come se lui, dando credito a quei racconti, le desse torto in qualche modo. «Ci sono stati anche altri casi, sempre in India. Un ragazzo che tirava un risciò a Madras. Sapeva risolvere problemi di matematica senza nemmeno ascoltare il quesito. Secondo la sua spiegazione, era assalito da un senso di ansia quando era vicino a qualcuno che aveva un problema matematico. E la risposta gli appariva allineata nella mente" 'come una fila di soldati'. Alla fine fu portato a Oxford, dove fu messo alla prova. Per dimostrare la sua capacità, rispose a quesiti di matematica che non erano risolvibili a quel tempo. Oxford registrò i risultati. Decenni dopo, le sue risposte si dimostrarono esatte. Ma nel frattempo il ragazzo era morto di vecchiaia.» Elizabeth appoggiò la tazza di caffè. «Per quanto sbalorditivi fossero questi casi, erano anche motivo di inutile frustrazione per mio padre. Aveva bisogno di soggetti viventi per i suoi studi. Perciò, mentre continuava a raccogliere prove non documentate, trovò molti dei casi più interessanti concentrati in India, fra i mistici. All'epoca, altri scienziati stavano già scoprendo le basi fisiologiche di molte delle straordinarie abilità dei maestri di yoga, come la capacità di sopportare il freddo estremo regolando il flusso sanguigno degli arti e della cute, oppure di digiunare per mesi rallentando il proprio metabolismo.» Gray annuì. Aveva studiato molte di quelle tecniche yoga. Era solo una questione di controllo mentale, di manipolazione delle funzioni fisiologiche che erano ritenute involontarie.

«Mio padre s'immerse nella storia, nella lingua indiana, persino nelle antiche profezie vediche. Cercò maestri di yoga esperti e li esaminò sottoponendoli a elettroencefalogrammi, mappature cerebrali, persino prelevando campioni di DNA da analizzare per stabilire la genealogia degli individui più dotati. In sostanza, cercò di provare scientificamente che esisteva una base organica nel cervello per ciò che i russi avevano dimostrato con la gatta.» Painter si adagiò nel divano. «Non c'è da stupirsi se è stato coinvolto nel progetto dello Stanford Institute. Le sue ricerche coincidevano certamente coi loro obiettivi.» «Ma perché è stato ucciso per questo? Sono passati tanti anni.» Elizabeth incontrò lo sguardo di Gray. «E cosa c'entra quel teschio?» «Ancora non lo sappiamo», rispose Painter. «Ma entro domattina dovremmo saperne di più su quel teschio.» Un'equipe di esperti era stata chiamata alla Sigma per esaminare quello strano oggetto. Gray aveva consentito che il teschio fosse portato al comando centrale con riluttanza. Intuendo che era la chiave per risolvere il mistero, non gli piaceva l'idea di perderlo di vista.

Un colpo alla porta interruppe la discussione.

Kowalski si raddrizzò, una scarpa in mano.

Anche Gray scattò in piedi.

Davanti alla casa erano state appostate due guardie in borghese. Se sorgeva un problema, li avrebbero avvertiti per radio.

Gray slacciò la fondina ed estrasse la pistola semiautomatica. Fece cenno agli altri di stare indietro e si avvicinò alla porta principale. Tenendosi di lato, si diresse verso un piccolo monitor diviso in quattro immagini, ognuna corrispondente a una telecamera esterna. La parte superiore mostrava una visuale del portico.

C'erano due figure, a pochi passi dalla porta.

Un uomo nerboruto in giacca a vento rossa teneva per mano una bambina, che giocherellava con un nastro fra i capelli. Gray non percepì nessuna evidente minaccia nell'atteggiamento dell'uomo. Nell'altra mano teneva uno spesso foglio di carta. Forse una busta. La figura si piegò davanti all'uscio.

Gray s'irrigidì, ma era solo un foglio di carta gialla. L'individuo lo infilò sotto la porta, facendolo scivolare sul pavimento tirato a cera dell'entrata. Sino ai piedi di Gray.

Pierce abbassò gli occhi sul foglio: lo schizzo a carboncino di un bambino. Con tratti grossolani ma decisi, ritraeva la stanza principale del rifugio. Il camino, le poltrone, il divano, tale e quale com'era. Vi erano tratteggiate anche quattro persone. Due sedute sui divano, un'altra in una poltrona. Una figura più grande era appoggiata accanto al camino, con una scarpa in mano: doveva essere Kowalski.

Era il ritratto della stanza disegnato da un bambino.

Gray volse di nuovo lo sguardo al monitor.

Un movimento attirò l'attenzione di Gray sulle altre immagini delle tre telecamere esterne. Comparvero altri uomini, anche loro in giacca a vento. Vide una guardia, poi l'altra, sotto la minaccia di una pistola.

Kowalski andò al fianco di Gray. A piedi scalzi aveva attraversato la stanza senza far rumore. Osservò anche lui il monitor, infine sospirò. «Fantastico. Ma cosa fate? Pubblicate gli indirizzi dei vostri rifugi segreti su internet?» Fuori, le guardie furono costrette a inginocchiarsi. La casa era circondata. Erano in trappola.

All'altro capo del mondo, l'uomo di nome Monk cercava una via di fuga.

Mentre i bambini facevano la guardia alla porta della stanza d'ospedale, Monk s'infilò a fatica in una pesante tuta da lavoro, blu scuro come la camicia a maniche lunghe che indossava. Non era facile con una mano sola. Sulla sedia restavano soltanto un berretto nero di lana e un paio di calze pesanti. Si calcò il berretto sulla testa rasata e s'infilò le calze e, per finire, gli stivali, che erano abbastanza comodi, nonostante il cuoio consumato e screpolato.

Quel momento di tranquillità permise a Monk di riprendere il controllo di sé, sebbene avesse contribuito poco a colmare i vuoti della sua vita. Non riusciva ancora a ricordare nulla a parte il risveglio in quel luogo. Ma se non altro lo sforzo di vestirsi lo aiutava a stare fermo sulle gambe.

Raggiunse il bambino più grande, Konstantin, alla porta, che era di ferro e munita di una sbarra di chiusura all'esterno. La robustezza della porta gli confermò che lui era un prigioniero e quella una fuga.

Il più giovane del trio, Pètr, prese Monk per la mano e lo tirò lungo il corridoio, lontano dalla luce fioca dell'angolo degli infermieri. L'uomo ripensò alla supplica del bambino di poco prima.

Salvaci.

Da che cosa? La bambina, che, aveva scoperto, si chiamava Kiska, fece strada verso il vano di una scala sul retro, illuminata da un'insegna rossa al neon. Passandovi sotto, Monk alzò gli occhi e notò i caratteri.

Cirillico.

Doveva essere in Russia. Nonostante l'amnesia, sapeva di non appartenere a quel posto. Pensava in inglese. Senza accento britannico. Ciò significava che doveva essere americano, giusto? Se riusciva a riconoscere tutto quello, perché non riusciva a...

D'improvviso, una ridda d'immagini lo accecò, istantanee di un'altra vita, che gli balenavano alla mente come i flash di una macchina fotografica...

... un sorriso... una cucina con qualcuno che gli da le spalle... un'ascia d'acciaio che balena nel ciclo azzurro... luci che risalgono da profonde acque scure...

E poi scomparvero.

Le tempie gli martellavano. Cercò di sorreggersi alla ringhiera delle scale e stese d'istinto il braccio mutilato per aggrapparsi. L'avambraccio deturpato scivolò sul corrimano. Ritrovò l'equilibrio per un soffio. Fissò il moncherino e gli si affacciò alla mente uno degli sprazzi di memoria.

... un'ascia d'acciaio che balena nel ciclo azzurro.

Era andata così?

Più avanti, i bambini scendevano le scale di corsa. Tranne il più piccolo. Pètr continuava a tenerlo per la mano sana: alzò il capo e fissò Monk con occhi così azzurri da sembrare quasi bianchi. Dita minute gli strinsero le sue, rassicurandolo. Con un lieve strattone lo spronò a proseguire.

Monk obbedì e scese sulle gambe malferme.

Non incontrarono nessuno sulle scale e uscirono da una porta di servizio in una notte velata e senza luna. L'aria, ferma e umida, pizzicava la pelle. Monk tirò lunghi respiri, rallentando il cuore che batteva all'impazzata.

Il ronzio di un enorme generatore riempiva l'aria. Monk studiò le dimensioni dell'ospedale, che si sviluppava in basse ali e comprendeva due torri di cinque piani.

«Presto, da questa parte», lo sollecitò Konstantin, mettendosi ora alla testa del gruppetto.

Percorsero in tutta fretta un vicolo di acciottolato tra l'ospedale e un muro alto due piani alla loro sinistra. Monk guardò in alto, cercando di orientarsi. Oltre il muro spiccavano alcuni lampioni, che rischiaravano i tetti di tegole di edifici nascosti. Raggiunsero un angolo e girarono di soppiatto intorno al muro di cinta. Il suolo divenne roccia grezza, resa scivolosa dalla rugiada. Non c'erano luci lì, sul lato posteriore. Monk riuscì a scorgere solo il muro che avevano seguito, fatto di blocchi di cemento. Lo seguì col palmo mentre correvano. A giudicare dalla malta grossa e dalla disposizione irregolare dei mattoni, doveva essere stato costruito in fretta e furia.

Monk udì uno strano ululato echeggiare oltre il muro, seguito da latrati smorzati e grida più acute strozzate.

Rallentò il passo. Animali. Era una specie di zoo, quello?

Come se gli avesse letto nel pensiero, Konstantin si volse e disse col solo movimento delle labbra la parola serraglio, quindi gli fece cenno di proseguire.

Serraglio?

Quando raggiunsero l'altro angolo, il sentiero cominciò a scendere ripidamente. Dalla loro posizione elevata, Monk osservò una valle a conca e un pittoresco villaggio di viottoli di acciottolato e casette coi tetti a punta e con le fioriere. Elaborati lampioni scuri a gas diffondevano una luce tremula. Una scuola di tre piani sorgeva in un angolo del villaggio, circondata da campi di calcio e da un anfiteatro aperto. Il piccolo paese abbracciava una piazza centrale, dove gli spruzzi d'acqua di un'alta fontana danzavano e scintillavano.

Sul lato opposto sorgevano file e file di palazzi dall'aspetto industriale. Alti cinque piani, squadrati e disposti con senso pratico, avevano un'aria fatiscente e abbandonata.

A differenza del villaggio di sotto.

Dove la gente correva di qua e di là, gridando in preda all'agitazione. Vide bambini radunati in camicie da notte e pigiama, mescolati a adulti appena buttati giù dal letto. Altri indossavano uniformi grigie e berretti con visiera. Torce elettriche sciabolavano fra le strettissime vie.

Qualcosa aveva messo in subbuglio quel luogo.

Udì chiamare per nome, chi con voce pacata, chi con voce alterata.

«Konstantin! Vétri Kiska!» I bambini.

Un bengala disegnò un arco luminoso nel cielo dal centro della cittadina, illuminando il piccolo villaggio assonnato, facendo stagliare gli edifici più in là, gettando una danza di fuoco sui muri di cemento e sulle finestre profonde.

Monk seguì con gli occhi il bengala fino a che non raggiunse il punto massimo, aprì un piccolo paracadute e scese fluttuando.

Continuò a puntare lo sguardo in alto.

Il cielo non era solo senza luna.

Non c'era affatto.

Il bagliore rossastro del bengala rivelò un'enorme volta di roccia, che si estendeva in ogni direzione, inghiottendo l'intero luogo. Monk restò a bocca aperta, barcollando per lo stupore.

Non erano all'esterno.

Erano dentro una caverna gigantesca.

Forse artificiale, a giudicare dall'aspetto della volta e delle pareti, che sembravano opera di esplosivi.

Abbassò lo sguardo sul piccolo villaggio dall'aria perfetta, conservato nella grotta come il modellino di una nave in bottiglia. Ma non c'era tempo per fare il turista.

Konstantin lo tirò dietro un affioramento di pietra calcarea. Tre jeep stavano salendo in silenzio su per la strada ripida nella loro direzione: li superarono e si diressero verso il complesso dell'ospedale. I veicoli sembravano elettrici e trasportavano uomini in uniforme, le pistole spianate.

Male.

Una volta che le jeep furono scomparse, Konstantin si allontanò dal villaggio, addentrandosi nel buio della caverna. Attraversarono il paesaggio roccioso e s'imbatterono in un sentiero strettissimo, battuto di rado a giudicare dall'aspetto.

Costeggiarono il villaggio sotterraneo, seguendo i pendii più elevati della caverna. Monk notò un tunnel spalancato sul lato opposto, illuminato da luci elettriche e chiuso da enormi porte di metallo abbastanza larghe da far passare due betoniere affiancate. Segnava una strada che usciva dalla caverna.

Ma i bambini lo condussero nella direzione opposta.

Dove lo stavano portando?

Alle loro spalle, una sirena lacerò l'aria, assordante come un allarme aereo in quello spazio chiuso. Si girarono tutti e quattro. Una luce rossa lampeggiava e roteava in cima al complesso ospedaliero.

Gli abitanti del villaggio avevano fatto un'altra scoperta.

Non erano scomparsi soltanto i bambini.

Monk cercò di radunarli sul sentiero, ma il fortissimo rumore li aveva bloccati. Si coprirono le orecchie e serrarono gli occhi. Kiska sembrava avere la nausea. Konstantin era in ginocchio e si dondolava. Pètr abbracciò forte Monk.

Ipersensibilità.

Nonostante ciò, Monk li spronò a proseguire, portando Pètr in braccio e mezzo trascinando Kiska.

Lanciò un'occhiata alla sirena lampeggiante alle proprie spalle. Forse aveva perso la memoria, o meglio, gli era stata tolta con la forza, ma una cosa sapeva per certo.

Avrebbe perso molto più della memoria se fosse stato catturato di nuovo.

E temeva che ai bambini sarebbe toccata una sorte anche peggiore.

Dovevano proseguire... ma per andare dove?