capitolo 13

 

Washington, ore 09.07

 

«DIC», spiegò Lisa, accanto al letto della bambina.

Kat fissava l'esile creatura, così diafana nel suo camice ospedaliero, perduta tra le lenzuola e i cuscini del letto con le sponde. Da sotto le lenzuola uscivano fili collegati a un banco di apparecchiature addossato a una parete, che tenevano sotto controllo la pressione sanguigna e la frequenza cardiaca. Una fleboclisi instillava lentamente una soluzione salina. Nonostante ciò, nelle ultime ore, il volto pallido era diventato più cereo, le labbra livide.

«Coagulazione intravasale disseminata», tradusse Lisa, anche se per Kat era arabo.

Monk, con la sua formazione medica, avrebbe capito di che cosa stava parlando. Kat allontanò quell'ultimo pensiero dalla mente, ancora scossa dal disegno della bambina. Era chiaro che lo aveva disegnato per lei. Si era formato un legame tra loro due. Kat lo aveva visto negli occhi della piccola quando le aveva letto il libro. Aveva modi in gran parte ripetitivi e innaturali, ma ogni tanto alzava quei piccoli occhi. In essi brillava qualcosa, un misto di fiducia e riconoscimento. Avevano sciolto il cuore di Kat. Madre da poco, sapeva che il suo istinto materno e gli ormoni erano alti, che era ancora profondamente scossa dalla recente perdita del marito.

«Che cosa significa?» Painter era in piedi dall'altra parte del letto, accanto a Lisa. Era appena tornato dopo aver preso una telefonata di Gray dall'India. La sua squadra era stata attaccata e adesso era diretta verso le regioni settentrionali. Painter stava già indagando sugli autori di quell'agguato: il tentativo di uccidere il professore non poteva essere stato una coincidenza, qualcuno sapeva che Gray si era recato in volo sin là. Sebbene dovesse indagare su quel mistero, il direttore aveva trovato il tempo di scendere ad ascoltare la relazione di Lisa.

La dottoressa Cummings aveva concluso un gran numero di analisi del sangue.

Prima che Lisa rispondesse alla domanda di Painter, nella stanza entrò Sean McKnight. Si era tolto la giacca e la cravatta, e arrotolato le maniche sino al gomito. Era andato a fare alcune telefonate dopo il rapporto di Gray. Painter si girò verso di lui, un sopracciglio inarcato con aria interrogativa, ma Sean fece cenno a Lisa di proseguire. Si lasciò cadere su una sedia accanto al letto. Vegliava la bambina da un'ora. Anche adesso teneva una mano appoggiata sul lenzuolo. Kat e Sean avevano parlato a lungo. Lui aveva due nipoti.

Lisa si schiarì la voce. «La DIC è un processo patologico durante il quale il sangue del paziente comincia a formare microtrombi in tutto il sistema vascolare. Consuma i fattori della coagulazione e porta a un'emorragia interna. Le cause sono varie, ma è una condizione che si manifesta generalmente come conseguenza di una patologia primaria. Morsi di serpenti, carcinomi, ustioni gravi, choc. Ma una delle cause più frequenti è la meningite. Di solito un'infiammazione settica del cervello. Cosa che, tenendo conto della febbre e...» Accennò con la mano all'apparecchio fissato a un lato del cranio della bambina. «Tutte le analisi confermano la diagnosi. Riduzione delle piastrine, aumento FDP, prolungamento dei tempi di sanguinamento. Sono sicura della diagnosi. Le sto facendo una trasfusione di piastrine, e somministrando antitrombina e drotrecogin alfa. Dovrebbe contribuire a stabilizzare le sue condizioni per il momento, ma la terapia decisiva resta la cura della patologia primaria che ha attivato la DIC. E questa rimane sconosciuta. Non ha nessuna infezione. Sangue e colture del CSF sono tutte negative. Potrebbe essere virale, ma comincio a credere che si tratti di qualcos'altro, qualcosa di cui siamo all'oscuro, qualcosa che ha a che fare con l'impianto.» Kat tirò un profondo respiro, rabbrividendo. «E senza saperlo...» Lisa incrociò le braccia, imitando la posa di Kat. «Si sta spegnendo. Ho rallentato il suo deperimento, ma dobbiamo saperne di più. L'acronimo, DIC, ha un altro significato tra i medici. Sta per 'Death is coming', morte imminente.» «Dobbiamo fare qualcosa», sentenziò Kat rivolgendosi a Painter.

Lui annuì e lanciò un'occhiata a Sean. «Non ci resta altra scelta. Ci servono risposte. Alcuni individui sono al corrente di questa biotecnologia e sanno con precisione cos'hanno fatto a questa bambina.» Sean sospirò. «Dovremo muoverci coi piedi di piombo.» Kat intuì che c'era già stata una discussione tra Sean e Painter. «Che cosa contate di fare?» «Se vogliamo salvare questa bambina», Painter fissò la fragile creatura, «dobbiamo scendere a patti col diavolo.»

 

Ore 09.38

 

Trent McBride percorse a grandi passi il lungo corridoio deserto. Quell'ala del Walter Reed era in corso di ristrutturazione. Le camere dell'ospedale su entrambi i lati erano allo sfascio, le pareti ammuffite, l'intonaco screpolato, ma la sua destinazione erano le celle d'isolamento del reparto psichiatrico. Lì le pareti erano di cemento armato, le finestre munite di sbarre, le porte blindate con finestrelle protette da inferriate.

Trent raggiunse l'ultima cella. Davanti alla porta era piantonata una guardia. Non volevano correre rischi. La guardia si fece da parte e gli porse un mazzo di chiavi tintinnanti.

Lui lo prese e diede un'occhiata attraverso la finestrella. Jurij era disteso sul letto. Trent aprì la porta e il russo si tirò a sedere. Per essere anziano, era forte e arzillo; era chiaro che assumeva un potente cocktail di androgeni e altri ormoni antinvecchiamento. Quei russi andavano matti per le sostanze dopanti.

«E ora di mettersi al lavoro, Jurij.» L'uomo si alzò in piedi, gli occhi fulgenti. «Sasa?» «Vedremo.» A Trent non piacque l'espressione determinata dell'uomo e s'insospettì all'istante. Più che sconfitto, Jurij sembrava temprato, come la lama di una spada battuta e ribattuta per renderne il filo più tagliente. Forse la forza di quell'uomo non derivava soltanto dalle iniezioni nel fondoschiena.

Ma, per quanto determinato fosse, Jurij era alla sua mercé.

Tuttavia Trent fece cenno alla guardia di seguirli con la pistola. Era arrivato con l'intenzione di riaccompagnarlo di persona. Alto più di un metro e ottanta e pesando il doppio del russo, Trent non pensava di avere bisogno di una scorta. Ma lo sguardo di Jurij lo aveva messo in guardia.

«Dove stiamo andando?» domandò il russo.

A piantare l'ultimo chiodo sulla bara di Archibald Folk, rispose lui fra sé. Trent aveva orchestrato la morte del suo vecchio amico, ma ora aveva in mente di porre fine a uno degli splendidi successi di Archibald, la sua creatura, l'organizzazione segreta che aveva inventato quando collaborava coi Giasoni.

Un'equipe di scienziati assassini.

In pratica, Giasoni con la pistola.

Affinchè il proprio lavoro continuasse, la Sigma doveva morire.