capitolo 21

 

Urali meridionali, ore 01.50

 

II corpo era ancora caldo, ma il sangue era freddo.

Era stata uccisa più o meno un'ora prima.

Il tenente Borsakov sollevò il palmo dal fianco della tigre. Afferrò un orecchio e controllò. Era Arkady.

Nell'altra mano impugnava la pistola, una Yarygin PYa. Cercò Zachar. Non c'era traccia dell'altra tigre.

Alle sue spalle, la vecchia isbà bruciava ancora con un pennacchio di fumo senza fiamme.

Tornò all'idroscivolante. A bordo c'erano un pilota e altri due soldati, armati di fucili d'assalto, che gli coprivano le spalle. Il proiettore dell'imbarcazione trafiggeva l'oscurità in profondità. La grande elica a poppa del natante girava lentamente, mentre il pilota teneva il motore al minimo.

Borsakov fece cenno di inoltrarsi nella palude immersa nell'oscurità. Con un sibilo del motore, l'elica prese a ruotare a gran velocità e l'imbarcazione si allontanò dalle rovine fumanti del capanno. La ricerca sarebbe stata più facile se avessero avuto visori a infrarossi e occhiali per la visione notturna, ma Borsakov aveva scoperto che qualcuno si era intrufolato nel magazzino delle scorte e aveva danneggiato i loro già limitati equipaggiamenti.

Opera dell'americano o dei bambini.

Sapevano che sarebbero stati braccati.

«Dobbiamo fare rapporto al maggior generale Martov?» domandò il suo vicecomandante facendo l'atto di prendere la radio.

Borsakov scosse la testa.

Il maggior generale non prendeva bene i contrattempi.

L'imbarcazione sfrecciava sulla palude.

L'avrebbe fatto dopo la morte dell'americano.

Borsakov si girò e puntò lo sguardo sull'isola, sulle rovine fumanti e sulla tigre morta. Ripensò all'americano e a ciò che aveva fatto.

Chi era quell'uomo? E dove aveva ricevuto quell'addestramento?

 

Washington, ore 17.02

 

Trent McBride portò il ricevitore all'orecchio. Gli avevano concesso di chiamare l'ufficio di Mapplethorpe. Trent non s'illudeva che la conversazione fosse privata. Qualcuno la stava di certo ascoltando.

Ma ciò non gli avrebbe impedito di fare un rapporto.

Dopo qualche scambio di convenevoli, Trent disse: «Sembra che la bambina sopravvivrà».

Se fosse morta, non ci sarebbe stato motivo di proseguire.

«Ottimo», commentò Mapplethorpe. Seguì un silenzio breve ma eloquente. «Quando lo sapremo con certezza?» Trent diede un'occhiata all'orologio. «Sei ore.» Nel cuore della notte.

Sarebbe stato necessario un perfetto coordinamento, ma poi avrebbero avuto tutto.

Mapplethorpe sibilò soddisfatto: «E davvero una bella notizia».

 

Punjab, India, 6 settembre, ore 01.04

 

«Più avanti non possiamo andare», sentenziò Abhi Bhanjee.

Il SUV Mercedes era nel fango sino agli assali. Stremato, coi nervi tesi come le corde di un violino, Gray diresse il fuoristrada su un terreno più sassoso.

Nelle ultime due ore, dal cielo era caduta una pioggia torrenziale. Sembrava impossibile che le nubi potessero contenere così tanta acqua. Avevano lasciato il frutteto di mango una cinquantina di chilometri prima e attraversato un paesaggio altrettanto verde, ma incolto. Le colline ondulate avevano ceduto il passo a una scarpata frastagliata di erti colli e dirupi. Con la pioggia, piccoli corsi d'acqua si gonfiavano e irrompevano sui sentieri. Era come se il mondo intero piangesse.

Perlomeno il diluvio aveva scacciato gli elicotteri. Gli inseguitori avevano gettato la spugna dopo aver perso la preda nel vasto frutteto. Abe conosceva bene il territorio e li aveva guidati lungo una valle dalle pareti molto ripide sino a quella terra selvaggia.

«Nessuno viene qui», aveva spiegato. «II terreno non è coltivabile.» A dir poco.

«Non è lontano», assicurò Abe, mentre il SUV rallentava e si fermava. «Meno di un chilometro. Ma da qui dobbiamo procedere a piedi.» Gray nascose il fuoristrada sotto le fronde di un fico baniano. Spegnendo il motore, fissò le rupi e ripensò al tempio sulla moneta greca. Stando alle parole di Abe, quell'edificio sorgeva lì, dove Polk si era recato il giorno della sua scomparsa. Soltanto poche persone sapevano di quel posto. Un luogo riverito e insieme temuto dalla gente di Abe, una terra sacra per gli adulta.

Perché Polk era andato lì? Cosa lo aveva attirato?

La pioggia scorreva sul parabrezza, offuscando la visuale.

«Forse ci conviene aspettare che il tempo migliori», propose Masterson.

Gray diede un'occhiata all'orologio. Era l'una passata. Per l'alba voleva essere il più lontano possibile da lì. Con le prime luci del giorno, gli elicotteri avrebbero ripreso le ricerche. Sarebbe stato facile individuare sulle colline un SUV Mercedes grande come un carro armato. Intanto aveva disattivato il GPS di bordo, nel timore che fosse grazie a quello che i russi li avevano rintracciati e seguiti da Delhi.

Gli frullavano un sacco di domande senza risposta per la testa, ma sapeva per certo una cosa: se avevano intenzione di ripercorrere gli ultimi spostamenti del professore, era meglio farlo subito. «Io vado con Abe. Chi vuole, può restare in auto.» Elizabeth alzò la mano. «Vengo con voi. Se c'è un tempio perduto, forse avrete bisogno del mio aiuto.» Kowalski annuì. «E, dove va lei, vado io.» «Dovremmo restare uniti», aggiunse la dottoressa Rosauro, prendendo lo zaino con l'equipaggiamento.

Luca annuì.

Masterson alzò gli occhi al cielo. «A quanto pare, ci bagneremo tutti.» Scesero dal fuoristrada sotto la pioggia battente. Dopo qualche passo, Gray era bagnato fradicio. Sembrava che i vestiti pesassero dieci chili di più.

Imprecando, Kowalski si volse indietro e buttò un'occhiata nostalgica al fuoristrada, ma, quando Elizabeth s'incamminò, lui la rincorse.

«Da questa parte», disse Abe, indicando una rupe sgretolata che s'innalzava in altopiani frastagliati ricoperti di alberi. Dalle pareti di arenaria spuntavano grovigli di radici, come volti grinzosi di anziani, consumati dalla pioggia e dal vento. Un lampo squarciò il cielo, seguito dal rombo del tuono.

La tempesta peggiorava.

Sfinito, Gray cominciava ad avere altri dubbi sul suo piano. Da quando avevano lasciato Delhi, non era riuscito a contattare la Sigma. Avevano perso il telefono satellitare durante l'attacco nell'hotel e il cellulare che aveva acquistato in città non riceveva in quella zona così remota.

Erano isolati. E, sebbene Gray preferisse normalmente agire con la minor distrazione possibile, c'erano i civili da considerare.

Abe s'incamminò verso una stretta gola incisa nella rupe. Al centro scorreva un piccolo torrente, gonfio d'acqua piovana, costeggiato da un sentiero stretto.

Gray seguì Abe lungo il passaggio. Nella gola, col vento bloccato dalle rocce, le raffiche di pioggia si placarono. Tuttavia l'acqua inondava le pareti. Il rombo del torrente, intrappolato nella gola, si fece più forte.

Proseguirono in fila indiana.

La gola procedeva a zigzag come una saetta, divenendo sempre più stretta e più alta a mano a mano che s'incuneava tra le colline.

«A volte la nostra gente veniva a rifugiarsi qui all'epoca delle persecuzioni», raccontò Abe. «II mio bisavolo ci narrava di stragi in cui interi villaggi erano rasi al suolo. Quelli che fuggivano venivano a nascondersi qui.» Non c'è da stupirsi se gli achuta tengono segreto questo posto, pensò Gray.

«Ma queste pareti non garantiscono protezione», aggiunse Abe criptico. «Non per sempre.» Gray gli lanciò un'occhiata, ma l'indiano proseguì fin dove la gola si biforcava. Abe passò la mano sulla parete, come per assicurarsi di qualcosa... quindi prese il ramo sinistro.

Gray sfiorò il punto che Abe aveva toccato. C'era un'iscrizione, a malapena visibile sotto la pioggia.

Elizabeth si avvicinò. «È un'iscrizione harappa. Dobbiamo trovarci ai margini della Valle dell'Indo. Qui fiorì una grande civiltà un tempo.» Masterson assentì. «Gli harappa vivevano lungo le rive del fiume Indo cinquemila anni fa. Oggi le rovine di città e templi sono sparse per tutta la regione. Forse il nostro giovane amico indù ha scambiato qualche antico edificio harappa per il tempio inciso sulla moneta.» «C'è solo un modo per scoprirlo.» Gray riprese il cammino.

Dopo altre due svolte, la gola s'aprì d'improvviso in una piccola conca. Una cascata precipitava da una bassa rupe finendo in un laghetto che alimentava il torrente.

Abe si fermò e abbracciò la conca con un ampio gesto del braccio. «Siamo arrivati.» La gola era vuota... poi balenò un lampo che illuminò a giorno la valle. Una luce argentea inondò le rupi e si riflesse nel lago centrale.

Tutt'intorno le pareti di arenaria erano scavate a gradoni scanalati. Nella parete rocciosa di ogni livello erano ricavate abitazioni che salivano dalla base fino all'orlo. Nel corso dei secoli, sezioni delle abitazioni si erano staccate, frantumandosi in massi e breccia. A Gray ricordò le dimore scavate nella roccia degli indiani anasazi. Ma dallo stile non erano stati gli indiani, né quelli d'America né quelli d'India, a costruire quelle nicchie.

Le facciate erano di marmo bianco, che contrastava con la pietra più scura. Le rupi, formate da arenaria più dolce, erano state sgretolate da secoli di pioggia e vento. Le abitazioni sembravano sbucare dalla roccia. Il marmo bianco rammentò a Gray scheletri fossili che spuntavano dal terreno.

Sebbene fossero mezzi inghiottiti dalle pareti sgretolate, gli elementi architettonici di base delle strutture di marmo erano ancora visibili. Bassi tetti triangolari sorretti da colonne scanalate. Incisioni e sculture ornavano i frontoni e i cornicioni.

«E greco.» Elizabeth era sbigottita, l'acqua che le rigava il viso.

Masterson si passò le dita tra i capelli canuti inzuppati di pioggia. «Semplicemente straordinario. Archibald, vecchio bacucco, avresti potuto dirmelo...» Anche Gray rimase a bocca aperta, la stanchezza spazzata via dalla meraviglia.

Elizabeth puntò il dito. «Quello è un tempio in antis, una delle unità architettoniche più semplici. Laggiù c'è un prostilo del periodo tardo ellenico. E guardate quella facciata circolare di colonne: quello è un monoptero, scavato nella roccia.» Gray puntò l'attenzione su una struttura in fondo alla conca. Ebbe un tuffo al cuore. A metà della parete rocciosa sorgeva un tempio. Ai suoi piedi erano disseminati massi, a segnare il punto in cui una parte dell'orlo del dirupo si era frantumata ed era precipitata. Dal torrente in alto l'acqua piovana grondava sulla facciata del tempio, dandole un aspetto illusorio.

Ma non si poteva sbagliare.

Sei colonne sorreggevano un tetto triangolare e incorniciavano un antro oscuro.

«Tale e quale alla moneta», osservò Shay Rosauro, notando la sua attenzione.

«C'è ben altro, venite», esortò Abe.

Giunti dinanzi al cumulo di sassi, l'indù vi girò intorno e fece cenno agli altri di seguirlo. A quanto sembrava, conosceva un passaggio fra i detriti.

«Perché crede che i greci abbiano costruito il complesso di templi qui? E in modo così strano?» chiese Elizabeth.

«E chiaro che si stavano nascondendo», rispose Masterson. «E un luogo praticamente inaccessibile. Comunque ho visto strutture simili scavate nella roccia tra le rovine harappa più giù nella Valle dell'Indo. Forse i greci hanno occupato un antico sito harappa, modificandolo secondo i propri gusti.» «Può darsi. Era normale per una civiltà edificare sui resti di un'altra.» Nel frattempo, Gray osservava il tempio. Notò che quelle che gli erano parse ombre scure sulle colonne di marmo erano in realtà strìnature. Emersero dettagli più minuti. La facciata era deturpata da crepe e fenditure: una grossa sezione del frontone superiore si era staccata.

Gray sospettava che quelli non fossero solo i danni del tempo. Sembrava che lì si fosse combattuta una battaglia.

Più avanti, Abe passò tra due colonne. Gray lo seguì sul pavimento di marmo del tempio, finalmente al riparo dalla pioggià. I sei pilastri erano a un metro di distanza dall'edificio, e delimitavano un piccolo portico.

Si spostò per fare spazio agli altri. Kowalski e Luca aiutarono Elizabeth e Masterson. La dottoressa Rosauro salì per ultima, appesantita dallo zaino. Quando furono tutti insieme, Gray si avviò verso l'entrata, ma Abe s'inginocchiò un momento per mormorare una preghiera. Gray allora attese, intuendo che altrimenti sarebbe stato come profanare il tempio.

Abe si alzò e annuì.

Gray estrasse una piccola torcia elettrica e l'accese. Entrò per primo, la lama di luce che tagliava l'oscurità.

La camera era grande, perfettamente quadrata, sei metri di lato e altrettanti in altezza. Le pareti erano fiancheggiate da altre colonne, alcune delle quali ridotte in macerie. Nel centro del pavimento era scavata una buca per il fuoco, nera come la pece. Su ambedue i lati, passaggi ad arco davano adito alle camere laterali, simili alle cappelle di una chiesa.

Gray notò un piccolo cumulo in una delle nicchie più piccole. Si avvicinò per vedere meglio, mentre il resto del gruppo entrava nel tempio. Abe era inquieto. Non li seguì.

Quando Gray puntò la torcia, comprese la riluttanza dell'indù. La camera era gremita di ossa, ammucchiate come cataste di legna e sormontate da centinaia di teschi. Umani. Dall'aspetto putrido e giallastro, gli scheletri erano molto antichi.

Abe ruppe il silenzio. «La storia di una grande battaglia è stata tramandata di padre in figlio, di madre in figlia. Una battaglia avvenuta mille anni fa. Poi i nostri antenati hanno scoperto questo luogo pieno d'ossa. Per onorare i morti, abbiamo raccolto le spoglie e le abbiamo inumate nei templi.» Accennò alla valle. «Là fuori ce ne sono molte di più.» Gray uscì dall'ossario. Qualcuno aveva scoperto quel popolo e lo aveva sterminato. Gli tornarono alla mente le parole criptiche di Abe di poco prima: Queste pareti non garantiscono protezione. Non per sempre.

La sorte degli abitanti originali era un monito per la gente di Abe. Era un buon nascondiglio, ma non si poteva fuggire dal mondo per sempre.

Gray si avvicinò all'altro elemento distintivo della camera e sciabolò la luce sulla superficie. Nella parete di marmo color crema era stata incastonata una pietra nera raffigurante un noto simbolo, alta sei metri.

«Una ruota chakra...» Elizabeth prese una fotocamera digitale e si mise a scattare foto. «Come sul rovescio della moneta.» Luca passò una mano sulla parete.

Era quello l'antico simbolo all'origine dello stemma romano?

Forse anche Archibald Polk si era posto la stessa domanda.

Kowalski sospirò, per nulla colpito dalla camera. «Che delusione.» «Ma che dici?» lo rimproverò Elizabeth. «Questa è la scoperta archeologica e antropologica del secolo.» «Sì, e allora? Dove sono l'oro e i gioielli?» A Gray dispiaceva ammetterlo, ma era d'accordo con Kowalski. Si allontanò e fece un giro completo della camera. Mancava qualcosa, ma non erano l'oro o le pietre preziose.

Shay si avvicinò a lui. «Cosa c'è?» «Qui manca qualcosa.» «Cosa?» Nello spazio limitato anche gli altri udirono lo scambio di battute e volsero lo sguardo nella loro direzione.

Gray fece un altro giro. «Sulla moneta c'era quella grossa E, giusto? La lettera greca epsilon.» «Hai ragione», confermò Elizabeth.

Gray si asciugò le gocce di pioggia dal viso. «Qui c'è tutto quello che è rappresentato sulla moneta, la facciata del tempio, la ruota chakra, ma la lettera greca dov'è?» «È solo un dettaglio di poco conto», rispose Masterson. «Cosa importa?» «Non è ài poco conto», obiettò Elizabeth. «Qualcuno ha meticolosamente riprodotto il complesso di Delfi. Quello che abbiamo visto là fuori, il tempio in antis, è una copia esatta del tempio circolare monoptero costruito in onore di Atena. E questo posto qui... L'esterno e l'interno riproducono la pianta del tempio dell'Oracolo. E la E era uno degli ornamenti più importanti.»

A Gray tornò alla mente la conversazione con Painter, su come la E di Delfi fosse divenuta un simbolo del culto divinatorio, un'allegoria che attraversava tutta la storia dell'arte e dell'architettura.

Luca si avvicinò. «Forse conosco anche il significato di questa lettera. Gray, ti ho raccontato dei bambini che ci sono stati portati via. Quelli che si sono imbattuti per primi nel campo massacrato hanno raccontato che c'era una chiesa. La porta era stata sfondata, ma sulle tavole spezzate hanno rinvenuto una grande E di bronzo. Nessuno conosceva il suo significato. Gli unici che lo sapevano erano stati sepolti nella fossa comune. Il segreto era morto con loro. Che sia la stessa E?» Che indicava i chovihani, pensò Gray. Gli indovini zingari. Un altro culto divinatorio.

«D'accordo», ribadì Masterson, cominciando chiaramente a stancarsi. «Ma cosa importa che qui non c'è la E?» «Forse niente», ammise Gray, ma con tono poco convinto. Si girò verso Abe. «Quando ha accompagnato qui il dottor Polk per la prima volta?» «Circa un anno fa. Si è guardato intorno, ha preso appunti e se n'è andato.» Lo sguardo di Elizabeth era ferito. «Non mi ha raccontato niente di questa scoperta.» «Perché rispettava i nostri segreti», ribattè secco Abe. «Era un uomo onesto.» Gray studiò l'espressione di Masterson. Sulle prime il professore era rimasto sorpreso da quella scoperta, ma, superato lo stupore e non avendo trovato nulla di utile per le sue ricerche, il suo interesse era scemato. Era stato così anche per Polk? Era una scoperta archeologica di grande importanza, ma, poiché non era riuscito a trovare un legame con le sue ricerche, aveva rispettato il segreto degli achuta e taciuto.

Se le cose stavano così, perché la necessità urgente di precipitarsi lì prima di scomparire nel nulla? Doveva aver scoperto per forza un collegamento coi suoi studi. «C'è stato qualcosa che ha fatto scattare il bisogno improvviso di Polk di venire qui? Qualcosa di insolito?» Abe scosse la testa. «È andato al villaggio. Come aveva fatto molte altre volte. Abbiamo parlato dell'imminente elezione a sindaco per la quale era candidato un adulta. Avevo trovato una nuova moneta e gliel'ho fatta vedere, ma mi ha chiesto di vedere di nuovo quella col tempio. L'ha guardata con scarso interesse, facendola persino roteare sul tavolo mentre parlavamo. Poi ha spalancato gli occhi di colpo ed è balzato in piedi. Voleva tornare subito qui, ma io ero impegnato con le elezioni. Gli ho chiesto di aspettare fino al mio ritorno...» La sua voce si affievolì piano piano e per lui proseguì Elizabeth. «Mio padre non era noto per la pazienza.» Masterson annuì. «Era il giorno in cui ho ricevuto la sua telefonata concitata. Sosteneva di aver scoperto qualcosa che, una volta rivelato, avrebbe rivoluzionato le nostre conoscenze della mente umana.» Gray si rivolse a Shay. «Fammi rivedere la moneta.» Lei gliela passò.

Lui la studiò di nuovo: il tempio su una faccia, la ruota chakra sull'altra. «Elizabeth, hai detto che tuo padre ti ha fatto avere quel posto al museo per aiutarlo nelle sue ricerche. Alla fine cosa gli hai raccontato di Delfi?» «Solo le cose fondamentali. La storia gli interessava meno della scoperta del gas etilene nei pressi del sito. Mio padre voleva più dettagli sui rituali dell'Oracolo, sempre alla ricerca di conferme fisiologiche delle capacità intuitive.» «Se non era interessato alla storia, allora quando ha scoperto il significato della lettera greca epsilon?» «Gli ho inviato uno studio.» «Quando?» «Più o meno un mese prima che...» D'improvviso Elizabeth spalancò gli occhi.

Gray s'inginocchiò sul pavimento di marmo, appoggiò la moneta sul bordo e con un colpetto del dito la fece roteare, illuminata dalla luce della torcia.

La moneta roteava formando un globo argenteo sfocato. La E era adesso al centro del globo che vorticava. Gray intuì il simbolismo. Painter aveva detto che l'origine della E risaliva forse ai primi culti della madre Terra, Gaia. Adesso era al centro della sfera argentea, così come Gaia nel mondo reale. Ma la lettera simboleggiava anche la capacità intuitiva dell'uomo, che nasceva dal centro del corpo umano, dal cervello.

Gray cercò di rilassarsi per capire il senso di tutto quello.

Cosa aveva compreso Archibald Polk?

La moneta roteava: un mistero argenteo che nascondeva un antico segreto.

Ma quale...

E infine Gray capì.

Fermò la moneta sul marmo con un colpo della mano.

Ma certo!