MAURICE



Durante le vacanze del quarto anno di collegio, Maurice aspettò come sempre Jules Beluche. Ormai non desiderava più riunirsi alla famiglia e l'unica ragione per tornare a New Orleans era Rosette, anche se la possibilità di vederla era remota. Le orsoline non consentivano visite non concordate e men che meno quelle di un ragazzo incapace di dimostrare una parentela prossima. Sapeva che suo padre non gli avrebbe mai dato l'autorizzazione, ma non perdeva la speranza di accompagnare suo zio Sancho, che le suore conoscevano, perché non aveva mai smesso di far visita a Rosette.

Dalle lettere aveva saputo che Tété era stata relegata nella piantagione dopo l'incidente con Hortense e non poteva non sentirsi in colpa; la immaginava a tagliare canna dall'alba al tramonto e sentiva un pugno chiuso alla bocca dello stomaco. Non solo lui e Tété avevano pagato caro quel colpo di frustino, a quanto pareva anche Rosette era caduta in disgrazia. La ragazza aveva scritto varie volte a Valmorain pregandolo di andarla a trovare, ma non aveva mai ricevuto risposta. «Cos'ho fatto per perdere la stima di tuo padre? Una volta ero come sua figlia, perché mi ha dimenticato?» si lamentava ripetutamente nelle lettere a Maurice, ma lui non poteva darle una risposta sincera. «Non ti ha dimenticato, Rosette, papa ti vuole bene come sempre e ha a cuore la tua felicità, ma la piantagione e gli affari lo tengono occupato. Nemmeno io lo vedo da più di tre anni.» Perché dirle che Valmorain non l'aveva mai considerata una figlia? Prima di essere esiliato a Boston, chiese a suo padre di portarlo a far visita a sua sorella al collegio e lui aveva replicato incollerito che la sua unica sorella era Marie-Hortense.

Quell'estate Jules Beluche non si presentò a Boston; arrivò invece Sancho Garda del Solar con un cappello a tesa larga, al gran galoppo e con un altro cavallo al seguito. Smontò con un salto e si scosse via la polvere dai vestiti a colpi di cappello prima di abbracciare il nipote. Jules Beluche aveva ricevuto una coltellata per debiti di gioco e i Guizot erano intervenuti per evitare dicerie perché, per quanto lontana fosse la parentela che li univa, le malelingue si sarebbero incaricate di associare Beluche con il ramo onorabile della famiglia. Fecero ciò che ogni creole del loro ceto faceva in circostanze simili: pagarono i debiti, lo ospitarono finché fu guarito dalla ferita e fu in grado di arrangiarsi da solo, gli diedero del contante e lo misero su una nave con istruzioni di non scendere fino in Texas e di non tornare mai più a New Orleans. Sancho raccontò a Maurice tutto questo, piegato in due dal ridere.

«Quello avrei potuto essere io, Maurice. Finora ho avuto fortuna, ma un giorno o l'altro ti porteranno la notizia che il tuo zio preferito è stato ferito a pugnalate in una bisca di malaffare» aggiunse.

«Dio non voglia, zio. Viene a portarmi a casa?» gli chiese Maurice con una voce che passava da baritono a soprano nella stessa frase.

«Come ti viene in mente, ragazzo? Vuoi andare a seppellirti tutta l'estate nella piantagione? Tu e io ce ne andiamo in viaggio» gli annunciò Sancho.

«Vale a dire quello che ho già fatto con Beluche.»

«Non paragonarmi a lui, Maurice. Non intendo contribuire alla tua formazione civica mostrandoti monumenti; penso di traviarti, che te ne pare?»

«Cornelio?»

«A Cuba, nipote. Non c'è miglior posto per un paio di imbroglioni come noi. Quanti anni hai?»

«Quindici.»

«E ancora non hai finito di cambiare la voce?»

«L'ho già cambiata, zio, ma ho il raffreddore» balbettò il ragazzo.

«Alla tua età io ero già una canaglia. Sei indietro, Maurice. Prepara le tue cose, perché domani stesso partiamo» gli ordinò Sancho.

A Cuba aveva lasciato numerosi amici e non poche amanti, che si offrirono di accoglierlo durante le vacanze e di tollerare il suo accompagnatore, quel ragazzo strano che si divertiva a scrivere lettere e proponeva temi assurdi di conversazione, come schiavitù e democrazia, sui quali nessuno di loro si era formato un'opinione. Si divertivano a vedere Sancho nel ruolo di bambinaia, che svolgeva con insospettabile dedizione. Si asteneva dalle più allettanti baldorie per non lasciare solo il nipote e aveva smesso di assistere ai combattimenti di animali - tori contro orsi, serpenti contro donnole, galli contro galli, cani contro cani - perché turbavano Maurice. Sancho si era proposto di insegnare al ragazzo a bere ma a metà notte finiva sempre a pulirgli il vomito. Gli rivelò tutti i suoi trucchi a carte, ma Maurice era privo di malizia e a lui toccava saldare i debiti dopo che altri più svegli lo avevano prosciugato. Ben presto dovette anche abbandonare l'idea di iniziarlo alle contese amorose, perché quando ci provò per poco non si prese un bello spavento. Aveva stabilito i dettagli con una sua amica, non giovane ma ancora attraente e di buon cuore, che si era resa disponibile a fare da maestra al nipote solo per il piacere di fare un favore allo zio. «Questo moccioso è ancora molto immaturo...» borbottò Sancho, imbarazzato, quando Maurice fuggì di corsa alla vista della donna in un provocante vestito a vita alta distesa su un divano. «Nessuno mi aveva mai fatto uno sgarbo simile, Sancho. Chiudi la porta e vieni a consolarmi» rise lei. Nonostante quei contrattempi, Maurice passò un'estate indimenticabile e tornò al collegio più alto, forte, abbronzato e con una voce definitiva da tenore. «Non studiare troppo, perché ti rovina la vista e il carattere, e preparati per la prossima estate. Ti porterò in Nuova Spagna» lo salutò Sancho. Mantenne la sua promessa e da allora Maurice attendeva con ansia l'estate.

Nel 1805, l'ultimo anno di collegio, non venne a prenderlo Sancho, come nelle occasioni precedenti, ma suo padre. Maurice dedusse che veniva ad annunciargli qualche disgrazia e temette per Tété o Rosette, ma non si trattava di niente del genere. Valmorain aveva organizzato un viaggio in Francia per far visita alla nonna del ragazzo e a due fantomatiche zie che suo figlio non aveva mai sentito nominare. «E poi andremo a casa, monsieur?» gli chiese Maurice, pensando a Rosette, le cui lettere tappezzavano il fondo del suo baule. A sua volta le aveva scritto centonovantatré lettere senza pensare agli inevitabili cambiamenti che lei aveva subito in quei sette anni di separazione, la ricordava come la bambina agghindata di nastri e pizzi che aveva visto per l'ultima volta poco prima del matrimonio di suo padre con Hortense Guizot. Non poteva immaginarla quindicenne, così come lei non immaginava lui diciottenne. «Certo che andremo a casa, figlio mio; tua madre e le tue sorelle ti aspettano» mentì Valmorain.

Il viaggio, la traversata su una nave che dovette schivare le burrasche estive e sfuggire a fatica a un attacco degli inglesi, poi in carrozza fino a Parigi, non riuscirono ad avvicinare padre e figlio. Valmorain aveva ideato il viaggio per evitare ancora per qualche mese a sua moglie la seccatura di incontrare di nuovo Maurice, ma non poteva rimandare all'infinito; presto avrebbe dovuto affrontare una situazione che gli anni non avevano ammorbidito. Hortense non perdeva occasione di stillare veleno contro quel figliastro, che ogni anno cercava invano di rimpiazzare con un figlio suo, continuando a generare bambine. Per lei Valmorain aveva escluso Maurice dalla famiglia e ora se ne pentiva. Non si occupava seriamente di suo figlio da un decennio, sempre assorto nei suoi affari, prima a Saint-Domingue e poi in Louisiana, e infine con Hortense e la nascita delle bambine. Il ragazzo era uno sconosciuto che rispondeva alle sue rare lettere con un paio di frasi formali sull'avanzamento dei suoi studi e che non aveva mai chiesto di nessun membro della famiglia, quasi desse per scontato di non appartenervi più. Aveva fatto finta di niente anche quando gli aveva raccontato in una sola riga che Tété e Rosette erano state rese libere e non aveva più contatti con loro.

Valmorain temette di aver perso suo figlio in qualche momento di quegli anni agitati. Quel giovane introverso, alto e bello, con gli stessi lineamenti di sua madre, non somigliava in nulla al bambino dalle guance rosse che lui aveva tenuto in braccio pregando il cielo di proteggerlo da ogni male. Lo amava come sempre o forse di più, perché il sentimento era macchiato dalla colpa. Cercava di convincersi che il suo affetto di padre era contraccambiato da Maurice, anche se erano stati temporaneamente lontani, ma nutriva dei dubbi. Aveva meditato progetti ambiziosi per lui, anche se ancora non gli aveva chiesto cosa volesse fare della sua vita. In realtà non sapeva niente dei suoi interessi e delle sue esperienze, erano secoli che non dialogavano. Desiderava recuperarlo e aveva pensato che quei mesi insieme e da soli in Francia sarebbero serviti per stabilire un rapporto tra adulti. Doveva dimostrargli il suo affetto e chiarirgli che Hortense e le sue figlie non modificavano la sua condizione di unico erede, ma ogni volta che cercò di affrontare l'argomento non ebbe risposta. «La tradizione del maggiorascato è molto saggia, Maurice: non si devono ripartire i beni tra i figli, perché a ogni divisione si indebolisce la fortuna della famiglia. Essendo il primogenito, riceverai tutta la mia eredità e dovrai occuparti delle tue sorelle. Quando non ci sarò più, tu sarai la testa dei Valmorain. E ora di iniziare a prepararti, imparerai a investire denaro, a gestire la piantagione e a comportarti in società» gli disse. Silenzio. Le conversazioni morivano prima di iniziare. Valmorain navigava da un monologo all'altro.

Maurice osservò senza fare commenti la Francia napoleonica, sempre in guerra, i musei, i palazzi, i parchi e i viali che suo padre volle mostrargli. Visitarono lo chàteau in rovina in cui la nonna trascorreva i suoi ultimi anni assistita da due figlie zitelle più sciupate di lei dal tempo e dalla solitudine. Era un'anziana orgogliosa, vestita ancora alla moda di Luigi XVI, determinata a disprezzare i cambiamenti del mondo. Era saldamente piantata nell'epoca precedente alla Rivoluzione francese e aveva cancellato dalla sua memoria il Terrore, la ghigliottina, l'esilio in Italia e il ritorno in una patria irriconoscibile. Vedendo Toulouse Valmorain, quel figlio assente da più di trent'anni, gli offrì la mano ossuta con anelli antichi a ogni dito perché gliela baciasse e immediatamente dopo ordinò alle figlie di servire la cioccolata. Valmorain le presentò il nipote e cercò di riassumerle la sua storia da quando a vent'anni si era imbarcato per le Antille fino a quel momento. Lei lo ascoltò senza commentare, mentre le sorelle offrivano tazzine fumanti e piatti di pasticcini stantii, guardando Valmorain di sottecchi. Ricordavano il giovane frivolo che le aveva salutate con un bacio distratto per andarsene con il suo valletto e diversi bauli a passare qualche settimana dal padre a Saint-Domingue e che non era mai più tornato. Non riconoscevano quel fratello dai capelli radi, il doppio mento e la pancia, che parlava con un accento strano. Sapevano qualcosa dell'insurrezione degli schiavi nella colonia, avevano sentito qualche frase isolata qua e là sulle atrocità commesse nell'isola incivile, ma non riuscivano a metterle in relazione con un membro della loro famiglia. Non avevano mai mostrato curiosità per sapere da dove provenivano i mezzi grazie ai quali vivevano. Zucchero insanguinato, schiavi ribelli, piantagioni incendiate, esilio, tutto ciò che il fratello menzionava, a loro risultava incomprensibile come una conversazione in cinese.

La madre, invece, sapeva esattamente a cosa si riferiva Valmorain, ma ormai nulla le interessava più molto in questo mondo; aveva il cuore inaridito per gli affetti e le novità. Lo ascoltò in un silenzio indifferente e alla fine l'unica domanda che gli fece fu se poteva avere più denaro, perché la somma che le inviava regolarmente bastava a malapena. Era indispensabile riparare quella dimora cadente per via degli anni e delle disavventure, disse; non poteva morire lasciando le figlie alle intemperie. Valmorain e Maurice rimasero tra quelle pareti lugubri due giorni, ma a loro sembrarono lunghi quanto due settimane. «Non ci rivedremo più. Meglio così» furono le parole di saluto della vecchia dama al figlio e al nipote.

Maurice accompagnò docilmente suo padre dappertutto, tranne che in un bordello di lusso in cui Valmorain progettava di festeggiare con le professioniste più care di Parigi.

«Che ti succede, figlio mio? È normale e necessario. Bisogna scaricare gli umori dal corpo e liberare la mente, così ci si può concentrare su altre cose.»

«Non ho difficoltà a concentrarmi, monsieur.»

«Ti ho detto di chiamarmi papa, Maurice. Immagino che nei viaggi con tuo zio Sancho... Insomma, non ti saranno mancate le opportunità...»

«È una questione privata» lo interruppe Maurice.

«Spero che il collegio americano non ti abbia fatto diventare religioso né effeminato» fu il commento di suo padre in tono scherzoso, che però gli uscì come un grugnito.

Il ragazzo non diede spiegazioni. Grazie a suo zio non era vergine, perché nelle ultime vacanze Sancho era riuscito a iniziarlo mediante un ingegnoso inganno dettato dalle necessità. Sospettava che suo nipote avesse i desideri e le fantasie tipiche della sua età, ma che fosse un romantico e lo disgustasse l'amore ridotto a una transazione commerciale. Toccava a lui aiutarlo, decise. Si trovavano nel prospero porto di Savannah, in Georgia, che Sancho desiderava visitare per gli innumerevoli divertimenti che offriva, e anche Maurice, perché il professor Harrison Cobb lo citava come esempio di morale negoziabile.

La Georgia, fondata nel 1733, era la tredicesima e ultima colonia britannica in America del Nord e Savannah la sua prima città. I nuovi arrivati intrattennero relazioni amichevoli con le tribù indigene, evitando così la violenza che vessava altre colonie. Ai suoi inizi, non solo in Georgia era proibita la schiavitù, ma pure il liquore e gli avvocati, anche se ben presto ci si rese conto che il clima e la qualità del terreno erano ideali per la coltivazione di riso e cotone e la schiavitù fu legalizzata. Dopo l'indipendenza, la Georgia diventò uno stato dell'Unione e Savannah fiorì come porto d'entrata del traffico di africani per l'approvvigionamento delle piantagioni della regione. «Ciò dimostra, Maurice, che la decenza soccombe rapidamente di fronte all'avidità. Se si tratta di arricchirsi, la maggior parte degli uomini sacrifica l'anima. Non puoi immaginare come vivono i piantatori della Georgia grazie al lavoro dei loro schiavi» proclamava Harrison Cobb. Il ragazzo non aveva bisogno di immaginarlo, lo aveva vissuto a Saint-Domingue e a New Orleans, ma accettò la proposta di suo zio Sancho di passare le vacanze a Savannah per non deludere il maestro. «Non basta l'amore per la giustizia per sconfiggere la schiavitù, Maurice, bisogna osservare la realtà e conoscere a fondo le leggi e gli ingranaggi della politica» sosteneva Cobb, che lo stava preparando perché trionfasse dove lui aveva fallito. L'uomo conosceva i suoi limiti, non possedeva temperamento né salute per lottare nel Congresso, come desiderava in gioventù, ma era un buon maestro: sapeva riconoscere il talento di un alunno e modellarne il carattere.

Mentre Sancho Garda del Solar perfettamente a suo agio si godeva la raffinatezza e l'ospitalità di Savannah, Maurice, divertendosi, si sentiva in colpa. Cosa avrebbe detto al suo professore quando sarebbe tornato in collegio? Che era stato in un hotel stupendo, servito da un esercito di camerieri solleciti e non gli erano bastate le ore per divertirsi come un irresponsabile?

Si trovavano appena da un giorno a Savannah e già Sancho aveva fatto amicizia con una vedova scozzese che abitava a due isolati dall'hotel. La dama si offrì di mostrargli le dimore, i monumenti, le chiese e i parchi della città, che era stata splendidamente ricostruita dopo un incendio devastante. Fedele alla sua parola, la vedova comparve con la figlia, la delicata Giselle, e i quattro andarono a passeggio, iniziando così un'amicizia molto vantaggiosa per lo zio e per il nipote. Passarono molte ore insieme.

Mentre la madre e Sancho giocavano interminabili partite a carte e di tanto in tanto scomparivano dall'hotel senza dare spiegazioni, Giselle si incaricò di mostrare a Maurice i dintorni. Facevano escursioni a cavallo da soli, lontano dal controllo della vedova scozzese, cosa che sorprendeva Maurice, che non aveva mai visto una ragazza godere di tanta libertà. In diverse occasioni Giselle lo condusse in una spiaggia isolata, dove consumavano una leggera merenda e una bottiglia di vino. Lei parlava poco e ciò che diceva era di una banalità così assoluta che Maurice non si sentiva intimidito e gli venivano in abbondanza le parole che normalmente gli si strozzavano in gola. Finalmente c'era un'interlocutrice che non sbadigliava con i suoi discorsi filosofici e che lo ascoltava con evidente ammirazione. Di tanto in tanto le dita femminili lo toccavano come per distrazione e dallo sfiorare a carezze più audaci fu questione di tre tramonti. Quegli assalti all'aria aperta, punti dagli insetti, aggrovigliati negli abiti e col timore di essere scoperti lasciavano Maurice al settimo cielo e lei piuttosto annoiata.

Il resto delle vacanze passò troppo in fretta e, naturalmente, Maurice finì per innamorarsi, da adolescente qual era. L'amore esacerbò il rimorso di aver macchiato l'onore di Giselle. Esisteva solo una forma signorile di emendare il suo errore, come spiegò a Sancho non appena raccolse il coraggio sufficiente.

«Chiederò la mano di Giselle» gli annunciò.

«Hai perso il senno, Maurice? Come ti puoi sposare se non sai nemmeno soffiarti il naso!»

«Non mi manchi di rispetto, zio. Sono già un uomo fatto e finito.»

«È perché sei andato a letto con la ragazza?» e Sancho scoppiò in una fragorosa risata.

Lo zio riuscì a schivare per un pelo il pugno che Maurice gli voleva assestare alla guancia. La questione si risolse poco dopo, quando la dama scozzese chiarì che la ragazza non era sua figlia e Giselle confessò che quello era il suo nome da attrice, che non aveva sedici anni ma ventiquattro e che Sancho Garda del Solar l'aveva pagata per intrattenere il nipote. Lo zio ammise di avere commesso un'enorme sciocchezza e cercò di buttarla sul ridere, ma aveva esagerato e Maurice, distrutto, gli giurò che non gli avrebbe mai più rivolto la parola per tutta la vita. Quando arrivarono a Boston però, c'erano due lettere di Rosette che lo attendevano e la passione per la bella di Savannah si stemperò; allora potè perdonare suo zio. Salutandosi si abbracciarono con la familiarità di sempre e la promessa di rivedersi presto.

Nel viaggio in Francia Maurice non raccontò a suo padre nulla di quanto accaduto a Savannah. Valmorain insistè ancora un paio di volte perché si divertissero con le dame della notte, dopo aver ammorbidito suo figlio col liquore, ma non riuscì a fargli cambiare opinione e alla fine decise di non toccare più l'argomento fino a quando non fossero tornati a New Orleans, dove avrebbe messo a sua disposizione un appartamento da celibe, come quello che avevano i giovani créoles della sua condizione sociale. Per il momento non avrebbe permesso che la sospetta castità del figlio rompesse il precario equilibrio della loro relazione.

Jean-Martin Relais apparve a New Orleans quando mancavano tre settimane al primo ballo del Cordon Bleu organizzato da sua madre. Era giunto senza la divisa dell'accademia militare che aveva usato dai tredici anni, in qualità di segretario di Isidore Morisset, uno scienziato che viaggiava per valutare le condizioni del terreno nelle Antille e in Florida con il progetto di dare avvio a nuove piantagioni di zucchero, dato che le perdite della colonia di Saint-Domingue parevano definitive. Nella nuova Repubblica nera di Haiti il generale Dessalines stava annientando in modo sistematico tutti i bianchi, quegli stessi che aveva invitato a tornare. Pur avendo cercato di arrivare a un accordo commerciale con Haiti, visto che non era riuscito a occuparla con le sue truppe, lo stesso Napoleone aveva desistito dopo quei paurosi massacri in cui persino i bambini finivano nelle fosse comuni.

Isidore Morisset era un uomo dallo sguardo impenetrabile, naso rotto e spalle da lottatore che facevano scoppiare le cuciture della giacca, rosso come un mattone per il sole spietato della traversata marittima e provvisto di un vocabolario monosillabico che lo rendeva antipatico appena apriva bocca. Le sue frasi - sempre troppo brevi - suonavano come starnuti. Rispondeva alle domande con grugniti elementari e l'espressione malfidente di chi si attende il peggio dal prossimo. Fu ricevuto immediatamente dal governatore Claiborne con le attenzioni dovute a uno straniero di tanto rispetto, come attestavano le lettere di raccomandazione di varie società scientifiche che il segretario consegnò in una cartella di cuoio verde sbalzato.

Claiborne, vestito a lutto per la morte della moglie e della figlia, vittime della recente epidemia di febbre gialla, si stupì del colore scuro del segretario. Dal modo in cui Morisset glielo aveva presentato, immaginò che quel mulatto fosse libero e lo salutò come tale. Non si sa mai quale sia l'etichetta prevista con quei popoli mediterranei, pensò il governatore. Non era uomo capace di cogliere con facilità la bellezza maschile, ma non potè fare a meno di notare i delicati lineamenti del giovane - le ciglia folte, la bocca femminile, il mento rotondo con una fossetta - che contrastavano con il corpo magro ed elastico, dalle proporzioni senza dubbio maschili. Il giovane, colto e dai modi impeccabili, funse da interprete, perché Morisset parlava solo francese. Il dominio della lingua inglese del segretario lasciava abbastanza a desiderare, ma fu sufficiente, dato che Morisset era di ben poche parole.

L'intuito avvertì il governatore che i visitatori nascondevano qualcosa. La missione zuccheriera gli sembrò tanto sospetta quanto il fisico da gorilla di quell'uomo, che non collimava con la sua idea di scienziato, ma quei dubbi non lo esimevano dal prodigargli l'ospitalità di rigore a New Orleans. Dopo il pranzo frugale, servito da neri liberi, dato che lui non possedeva schiavi, gli offrì alloggio. Il segretario tradusse che non sarebbe stato necessario, erano venuti per pochi giorni e sarebbero rimasti in un hotel in attesa della nave per tornare in Francia.

Non appena se ne furono andati, Claiborne li fece seguire discretamente e così venne a sapere che nel pomeriggio i due uomini erano usciti dall'hotel, il giovane di colore a piedi in direzione di via Chartres e il muscoloso Morisset su un cavallo preso in affitto verso la modesta bottega di un fabbro alla fine di via Saint Philippe.



Il governatore aveva fatto centro con i suoi sospetti: Morisset non aveva nulla dello scienziato, era una spia bonapartista. Nel dicembre 1804 Napoleone era diventato imperatore della Francia, piazzandosi da sé la corona sulla testa perché nemmeno il papa, invitato per l'occasione, gli era sembrato degno di farlo. Napoleone aveva già conquistato mezza Europa, ma aveva il chiodo fisso della Gran Bretagna, quella piccola nazione dal clima orrendo e brutta gente che lo sfidava dall'altro lato dello stretto chiamato Canale della Manica. Il 21 ottobre 1805 le due nazioni si erano affrontate nel Sudovest della Spagna, a Trafalgar, da una parte la flotta franco-spagnola con trentatré navi e dall'altra gli inglesi con ventisette, al comando del celebre ammiraglio Horatio Nelson, un genio della guerra in mare. Nelson morì in battaglia, dopo una vittoria spettacolare nella quale distrusse la flotta nemica e mise fine al sogno napoleonico di invadere l'Inghilterra. Proprio in quei giorni, Paolina Bonaparte fece visita al fratello per esprimergli il cordoglio per la delusione di Trafalgar. Paolina portava i capelli corti da quando li aveva tagliati per metterli nel feretro di suo marito, il cornuto generale Ledere, morto di febbre gialla a Saint-Domingue e sepolto a Parigi. Quel gesto drammatico della vedova inconsolabile aveva scosso di risate l'intera Europa. Ma senza la sua lunga chioma color mogano, che prima portava secondo lo stile delle dee greche, Paolina appariva irresistibile e ben presto quella pettinatura divenne di moda. Quel giorno arrivò ornata con un diadema dei famosi diamanti Borghese, accompagnata da Morisset.

Napoleone sospettò che il visitatore non fosse che un altro degli amanti di sua sorella e lo accolse malvolentieri, ma si interessò immediatamente quando Paolina gli raccontò che la nave su cui viaggiava Morisset verso i Caraibi era stata attaccata dai pirati e lui era rimasto prigioniero per diversi mesi di un certo Jean Laffitte, finché aveva potuto pagare il suo riscatto e tornare in Francia. Durante la prigionia era nata una certa amicizia con Laffitte basata su tornei di scacchi. Napoleone interrogò l'uomo sulla eccellente organizzazione di Laffitte, che controllava i Caraibi con la sua flotta; nessuna nave era in salvo eccetto quelle degli Stati Uniti, che per una capricciosa lealtà del pirata verso gli americani non venivano mai attaccate.

L'imperatore condusse Morisset in una saletta, dove passarono due ore in privato. Forse Laffitte era la soluzione a un dilemma che lo tormentava dal disastro di Trafalgar: in che modo impedire che gli inglesi si impossessassero del commercio marittimo. Siccome non aveva una potenza navale in grado di fermarli, aveva pensato di allearsi con gli americani, che erano in disputa con la Gran Bretagna dalla Guerra di Indipendenza nel 1775, ma il presidente Jefferson voleva consolidare il suo territorio e non pensava di intervenire nei conflitti europei. In uno sprazzo di ispirazione, uno dei tanti che lo avevano condotto dalle modeste fila dell'esercito all'apice del potere, Napoleone incaricò Isidore Morisset di reclutare pirati per attaccare le navi inglesi nell'Atlantico. Morisset comprese che si trattava di una missione delicata, perché l'imperatore non poteva apparire alleato con dei facinorosi, e immaginò che con la copertura da scienziato avrebbe potuto viaggiare senza dare troppo nell'occhio. I fratelli Jean e Pierre Laffitte si erano arricchiti impunemente per anni con il bottino dei loro assalti e ogni sorta di contrabbando, ma le autorità americane non tolleravano evasioni di tasse e, nonostante la manifesta simpatia dei Laffitte per la democrazia degli Stati Uniti, li dichiararono fuorilegge.

Jean-Martin Relais non conosceva l'uomo che doveva accompagnare dall'altra parte dell'Atlantico. Un lunedì mattina il direttore dell'accademia militare gli diede appuntamento nel suo ufficio, gli consegnò del denaro e gli ordinò di andare a comprarsi abiti civili e un baule, perché si sarebbe imbarcato di lì a due giorni. «Non dica nemmeno una parola di questo a nessuno, Relais, è una missione segreta» chiarì il direttore. Ligio alla sua educazione militare, il giovane obbedì senza fare domande. Più tardi seppe che era stato selezionato in qualità di alunno più sveglio del corso di inglese e perché il direttore aveva immaginato che, provenendo dalle colonie, non sarebbe morto stecchito alla prima puntura di zanzara tropicale.

Il giovane viaggiò a spron battuto fino a Marsiglia, dove lo attendeva Isidore Morisset con i biglietti in mano. Ringraziò in silenzio che l'uomo lo guardasse appena, perché era nervoso al pensiero che avrebbero condiviso una stretta cabina durante il viaggio. Nulla feriva tanto il suo immenso orgoglio come le avance che era solito ricevere da altri uomini.

«Non desidera sapere dove andiamo?» gli chiese Morisset quando già da diversi giorni si trovavano in alto mare senza aver scambiato più di qualche parola di cortesia.

«Io vado dove la Francia mi manda» replicò Relais mettendosi sull'attenti, sulla difensiva.

«Niente saluti militari, ragazzo. Siamo civili, è chiaro?»

«Positivo.»

«Santo Dio, parli come la gente normale!»

«Ai suoi ordini, signore.»

Ben presto Jean-Martin scoprì che Morisset, così laconico e sgradevole in società, in privato poteva essere affascinante. L'alcol gli scioglieva la lingua e lo rilassava al punto che sembrava un altro uomo, gentile, ironico, sorridente. Giocava bene a carte e conosceva mille storie che raccontava senza fronzoli, in poche frasi. Tra un bicchiere e l'altro di cognac si conobbero e nacque tra di loro una naturale intimità da buoni camerati.

«Una volta Paolina Bonaparte mi invitò nel suo boudoir» gli raccontò Morisset. «Un nero delle Antille, coperto a malapena da un perizoma, la portò in braccio e le fece il bagno davanti a me. La Bonaparte si vanta di poter sedurre chiunque, ma con me non le riuscì.»

«Perché?»

«Mi dà fastidio la stupidità femminile.»

«Preferisce la stupidità maschile?» lo schernì il giovane, con un tocco di civetteria; anche lui aveva bevuto qualche bicchiere e si sentiva in confidenza.

«Preferisco i cavalli.»

Ma a Jean-Martin interessavano di più i pirati che le virtù equine o la toilette della bella Paolina e si diede da fare, ancora una volta, per tornare al racconto dell'avventura che il suo nuovo amico aveva vissuto quando era rimasto prigioniero sull'Isola Barataria. Dato che Morisset sapeva che nemmeno le navi da guerra europee osavano avvicinarsi all'isola dei fratelli Laffitte, aveva scartato di netto l'idea di presentarsi lì senza invito: sarebbero stati decapitati prima di toccare la spiaggia, senza avere l'opportunità di spiegare la ragione di un gesto così audace. Inoltre, non era sicuro che il nome di Napoleone gli avrebbe aperto le porte dei Laffitte; poteva essere tutto il contrario, motivo per cui aveva deciso di avvicinarli a New Orleans, un terreno più neutrale.

«I Laffitte sono fuorilegge. Non so come faremo a trovarli» commentò Morisset a Jean-Martin.

«Sarà molto facile, perché non si nascondono» lo tranquillizzò il giovane.

«Come lo sa?»

«Dalle lettere di mia madre.»

Fino a quel momento a Relais non era venuto in mente di specificare che sua madre viveva in quella città, perché gli sembrava un dettaglio insignificante nella grandezza della missione affidatagli dall'imperatore.

«Sua madre conosce i Laffitte?»

«Tutti li conoscono, sono i sovrani del Mississippi» replicò Jean-Martin.



Alle sei di pomeriggio Violette Boisier riposava ancora nuda e bagnata di piacere nel letto di Sancho Garcia del Solar. Da quando Rosette e Tété vivevano con lei e la sua casa era invasa dalle alunne del plaçage, preferiva l'appartamento del suo amante per fare l'amore o anche solo per una siesta, se non avevano animo a sufficienza per qualcosa in più. All'inizio Violette aveva cercato di pulire e abbellire l'ambiente, ma era priva di vocazione domestica ed era assurdo perdere preziose ore di intimità nel tentativo di porre rimedio al colossale disordine di Sancho. L'unico domestico di Sancho era buono solo per preparare il caffè. Glielo aveva prestato Valmorain, perché era impossibile venderlo: nessuno lo avrebbe comprato. Era caduto da un tetto, la sua testa non era più a posto e girava ridendo da solo. A ragione Hortense Guizot non poteva sopportarlo. Sancho lo tollerava e gli stava persino simpatico, per la qualità del suo caffè e perché non gli rubava il resto quando andava a fare la spesa al Mercato francese. Violette era turbata da quell'uomo: credeva che li spiasse quando facevano l'amore. «È una tua fissa, cara. È così tardo che il cervello non gli basta neanche per quello» la tranquillizzava l'amante.

In quello stesso momento, Loula e Tété erano sedute su sedie di vimini in strada, davanti alla porta della casa gialla, come facevano le vicine al tramonto. Le note di un esercizio al piano scandivano la pace del pomeriggio autunnale. Loula fumava il suo sigaro nero con gli occhi socchiusi, assaporando il riposo che le sue ossa reclamavano, e Tété cuciva un carnicino da neonato. Non le si notava ancora la pancia, ma aveva già comunicato la gravidanza alla cerchia ristretta delle sue amicizie e l'unica che rimase sorpresa fu Rosette, perché era talmente concentrata su se stessa che non si era resa conto dell'amore tra sua madre e Zacharie. Lì le trovò Jean-Martin Relais. Non aveva scritto per annunciare il suo viaggio perché gli ordini erano di tenerlo segreto e comunque la lettera sarebbe arrivata dopo di lui.

Loula non lo aspettava e siccome non lo vedeva da diversi anni, non lo riconobbe. Quando lui le si parò davanti, si limitò a dare un'altra boccata al sigaro. «Sono io, Jean-Martin!» esclamò il ragazzo, emozionato. Al donnone ci vollero alcuni secondi per riuscire a distinguerlo attraverso il fumo e a comprendere che era davvero il suo bambino, il suo principe, la luce dei suoi stanchi occhi. Le sue urla di gioia scossero la strada. Lo abbracciò per la vita, lo sollevò da terra e lo coprì di baci e lacrime, mentre lui, sulla punta dei piedi, cercava di difendere la sua dignità. «Dov'è marnati?» chiese non appena riuscì a liberarsi e a recuperare il suo cappello calpestato. «In chiesa, figlio, a pregare per l'anima del tuo defunto padre. Entriamo in casa, ti preparo un caffè, e intanto la mia amica Tété andrà a cercarla» replicò Loula senza un attimo di esitazione. Tété partì di corsa in direzione dell'appartamento di Sancho.

Nel salotto di casa, Jean-Martin vide una ragazzina vestita di celeste che suonava il piano con una tazza sulla testa. «Rosette! Guarda chi c'è qui! Il mio bambino, Jean-Martin!» strillò Loula a mo' di presentazione. Lei interruppe gli esercizi musicali e si girò lentamente. Si salutarono, lui con un rigido inchino della testa, battendo i tacchi come se avesse ancora addosso l'uniforme, e lei con un battito delle sue ciglia da giraffa. «Benvenuto, monsieur. Non passa giorno senza che madame e Loula parlino di lei» disse Rosette con la cortesia forzata imparata dalle orsoline. Niente poteva essere più vero. Il ricordo del ragazzo fluttuava nella casa come un fantasma e per aver tanto sentito parlare di lui, Rosette lo conosceva già.

Loula si occupò della tazza di Rosette e andò a filtrare il caffè; dal cortile si udivano le sue esclamazioni di allegria. Rosette e Jean-Martin, seduti in silenzio sul bordo delle loro sedie, si lanciavano sguardi furtivi con la sensazione di essersi conosciuti in precedenza. Venti minuti più tardi, quando Jean-Martin stava per affrontare il terzo giro di torta, arrivò Violette ansimando, con Tété al seguito. A Jean-Martin, sua madre sembrò più bella di quanto non ricordasse e non si chiese perché venisse da messa spettinata e con il vestito mal abbottonato.

Dalla soglia, Tété osservava divertita quel giovane a disagio perché la madre gli dava bacetti senza mollargli la mano e Loula gli pizzicava le guance. I venti salati della traversata marittima avevano scurito di varie gradazioni Jean-Martin e gli anni della formazione militare avevano rafforzato la sua rigidità, ispirata all'uomo che credeva essere suo padre. Ricordava Etienne Relais forte, stoico e severo; per questo faceva tesoro della dolcezza che gli aveva largito nella stretta intimità di casa. Sua madre e Loula, invece, lo avevano sempre trattato come un bambino e a quanto pareva avrebbero continuato a farlo. Per compensare i bei tratti del suo viso, manteneva sempre un'esagerata distanza, una postura distaccata e quell'espressione marmorea che solitamente hanno i militari. Durante l'infanzia aveva dovuto sopportare che lo scambiassero per una bambina e durante l'adolescenza che i suoi compagni lo schernissero o si innamorassero di lui. Quelle carezze domestiche davanti a Rosette e alla mulatta, di cui non aveva capito il nome, lo imbarazzavano, ma non si azzardava a rifiutarle. Tété non si stupì che Jean-Martin avesse gli stessi lineamenti di Rosette, ma aveva sempre pensato che sua figlia somigliasse a Violette Boisier e quella somiglianza si era accentuata nei mesi di formazione per il plaçage in cui la ragazza emulava i gesti della maestra.

Nel frattempo Morisset si era recato alla bottega del fabbro di via Saint Philippe, perché aveva scoperto che era una copertura per mascherare le attività dei pirati, ma non trovò la persona che stava cercando. Ebbe la tentazione di lasciare un messaggio a Jean Laffitte per chiedergli un appuntamento, ricordandogli la relazione che avevano costruito davanti alla scacchiera, ma comprese che sarebbe stato un errore madornale. Da tre mesi faceva spionaggio mascherato da scienziato e non si era ancora abituato alla cautela che la sua missione richiedeva, e spesso si sorprendeva sul punto di commettere un'imprudenza. Più tardi, quello stesso giorno, quando Jean-Martin gli presentò sua madre, quelle precauzioni gli sembrarono ridicole, perché lei gli offrì con tutta naturalezza di portarlo dai pirati. Lo avevano accolto nel salotto della casa gialla, che risultava piccolo per la famiglia e per tutti quelli che erano sopraggiunti per conoscere Jean-Martin: il dottor Parmentier, Adele, Sancho e un paio di vicine.

«So che hanno messo una taglia sulla testa dei Laffitte» disse la spia.

«Quelle sono cose da americani, monsieur Moriste!» rise Violette.

«Morisset. Isidore Morisset, madame.»

«I Laffitte sono molto stimati perché vendono a buon mercato. A nessuno verrebbe in mente di tradirli per i cinquecento dollari che offrono per le loro teste» intervenne Sancho Garcia del Solar.

Aggiunse che Pierre aveva fama di essere uno zoticone, ma Jean era un gentiluomo dalla testa ai piedi, galante con le donne e cortese con gli uomini, parlava cinque lingue, scriveva con stile impeccabile e faceva sfoggio della più generosa ospitalità. Era di un coraggio straordinario e i suoi uomini, che ammontavano a circa tremila, si sarebbero lasciati uccidere per lui.

«Domani è sabato e ci sarà l'asta. Le piacerebbe andare al Tempio?» gli chiese Violette.

«Il Tempio, ha detto?»

«Lì si tengono le loro aste» chiarì Parmentier.

«Se tutti sanno dove si ritrovano, perché non li hanno arrestati?» intervenne Jean-Martin.

«Nessuno si azzarda. Claiborne ha chiesto rinforzi, perché quegli uomini sono da temere, la loro legge è la violenza e sono armati meglio dell'esercito.»

Il giorno successivo, Violette, Morisset e Jean-Martin andarono in escursione provvisti di spuntini e due bottiglie di vino in una cesta. Violette fece in modo di lasciare a casa Rosette con il pretesto degli esercizi di piano, perché si era resa conto che Jean-Martin la guardava troppo e il suo dovere di madre consisteva nell'impedire qualunque fantasia sconveniente. Rosette era la sua migliore alunna, perfetta per il plaçage, ma completamente inadeguata per suo figlio che aveva bisogno di entrare nella Société du Cordon Bleu per mezzo di un buon matrimonio. Pensava di scegliere la nuora con implacabile senso pratico, senza dare l'opportunità a Jean-Martin di commettere errori sentimentali. Al gruppo si unì Tété, che salì sulla barca all'ultimo minuto e con una certa esitazione, perché soffriva delle nausee tipiche dei primi mesi del suo stato e temeva i caimani, le bisce che infestavano l'acqua e quelle che solitamente si trovavano nelle mangrovie. La fragile imbarcazione era guidata da un rematore capace di orientarsi a occhi chiusi in quel labirinto di canali, isole e paludi, perennemente immerso in un vapore pestilenziale e in una nuvola di zanzare, ideale per traffici illegali e malefatte fantasiose.

L'isola sotto il mare
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