IL CASTIGO ESEMPLARE
Sudore e zanzare, gracidare di rospi e frusta, giorni di fatica e notti di paura per la carovana di schiavi, sorveglianti, soldati prezzolati e i padroni, Toulouse ed Eugenia Valmorain. Avrebbero impiegato tre lunghe giornate dalla piantagione a Le Cap, che rimaneva il porto più importante della colonia, anche se non era più la capitale, spostata a Port-au-Prince nella speranza di controllare meglio il territorio. Era servito a poco: i coloni aggiravano la legge, i pirati scorrazzavano su e giù per la costa e migliaia di schiavi scappavano sulle montagne. Quei fuggiaschi, sempre più numerosi e audaci, si avventavano sulle piantagioni e sui viaggiatori con legittima furia. Il capitano Etienne Relais, “il mastino di Saint-Domingue”, aveva catturato cinque dei loro capi, missione difficile, perché i fuggitivi conoscevano il terreno, si muovevano come la brezza e si nascondevano su vette inaccessibili ai cavalli. Armati solo di coltelli, machete e bastoni, non osavano affrontare i soldati in campo aperto; era una guerra di scaramucce, assalti a sorpresa e ritirate, incursioni notturne, furti, incendi e assassinii, che fiaccavano le forze regolari della Marechaussée e dell'esercito. Gli schiavi delle piantagioni li proteggevano, alcuni perché speravano di unirsi a loro, altri perché li temevano. Relais non perdeva mai di vista il vantaggio che avevano i fuggiaschi, gente disperata che difendeva vita e libertà, rispetto ai suoi soldati, che unicamente obbedivano ai suoi ordini. Il capitano era di ferro, asciutto, magro, forte, tutto muscoli e nervi, tenace e coraggioso, con occhi freddi e solchi profondi su un volto sempre esposto al sole e al vento, di poche parole, preciso, impaziente e severo. Nessuno era a proprio agio in sua presenza, né i grands blancs, di cui proteggeva gli interessi, né i petits blancs, alla cui classe apparteneva, né gli affranchis che costituivano la maggior parte delle sue truppe. I civili lo rispettavano perché imponeva l'ordine e i soldati perché da loro non esigeva nulla che lui stesso non fosse disposto a fare. Ci mise del tempo a stanare i ribelli sulle montagne, dopo aver seguito innumerevoli piste false, ma non dubitò mai che ci sarebbe riuscito. Otteneva informazioni con metodi così brutali che in tempi normali non si sarebbero menzionati in società, ma dall'epoca di Macandal persino le dame si accanivano sugli schiavi ribelli; le stesse che svenivano di fronte a uno scorpione o per l'odore degli escrementi non si perdevano i supplizi che poi commentavano tra bevande e pasticcini.
Le Cap, con le sue case dai tetti rossi, i vicoli rumorosi e i mercati, con il suo porto dove c'erano sempre dozzine di imbarcazioni all'ancora pronte per tornare in Europa, con il suo tesoro di zucchero, tabacco, indaco e caffè, era ancora la Parigi delle Antille, come la chiamavano i coloni francesi per scherzo, visto che l'aspirazione comune era di fare fortuna velocemente per tornare a Parigi a dimenticare l'odio che permeava l'aria dell'isola, come i nugoli di zanzare e la pestilenza in primavera. Alcuni lasciavano le piantagioni in mano a gestori o amministratori, che le dirigevano a loro piacimento, rubando e sfruttando a morte gli schiavi, ma era una perdita calcolata, il prezzo per tornare alla civiltà. Non era il caso di Toulouse Valmorain, che viveva ormai da diversi anni sepolto nell'habitation Saint-Lazare.
Il capo dei sorveglianti, Prosper Cambray, mordeva il freno dell'ambizione e procedeva con cautela perché il suo capo era diffidente e non si rivelò una preda facile, come aveva pensato all'inizio, però continuava a nutrire la speranza che non durasse molto nella colonia: non aveva né le palle né il sangue denso necessari in una piantagione e inoltre aveva a suo carico la spagnola, quella donnina dai nervi fragili il cui unico desiderio era scappare da lì.
Nella stagione secca, il viaggio a Le Cap si poteva fare in un solo giorno, con buoni cavalli, ma Toulouse Valmorain viaggiava con Eugenia su una portantina e con gli schiavi a piedi. Aveva lasciato alla piantagione le donne, i bambini e quegli uomini che, avendo già perso la speranza, non avevano bisogno di un monito. Cambray aveva scelto i più giovani, quelli che ancora potevano sognare la libertà. Per quanto i commandeurs li frustassero, non potevano spronarli a superare quelle che erano le capacità umane. Il percorso era incerto ed erano in piena stagione delle piogge. Solo l'istinto dei cani e l'occhio sicuro di Prosper Cambray, creole, nato nella colonia e conoscitore del terreno, impedivano che si perdessero nella boscaglia, dove i sensi si confondevano e si poteva continuare a girare all'infinito. Tutti avevano paura: Valmorain di un assalto di fuggiaschi o di una ribellione dei suoi schiavi - non sarebbe stata la prima volta in cui, davanti alla possibilità di fuggire, i neri offrivano il nudo petto alle armi da fuoco, credendo che i loro loa li avrebbero difesi dai proiettili -, mentre gli schiavi temevano le fruste e gli spiriti maligni del bosco ed Eugenia le sue allucinazioni. Cambray tremava solo di fronte ai morti viventi, gli zombi, e tale timore riguardava non tanto l'idea di affrontarli, visto che erano molto pochi e timidi, ma di essere trasformato in uno di loro. Lo zombi era schiavo di uno stregone, un bokor, e nemmeno la morte poteva liberarlo, perché era già morto.
Prosper Cambray aveva attraversato molte volte quella regione inseguendo i fuggiaschi con altri soldati della Marechaussée. Sapeva interpretare i segnali della natura, orme invisibili per altri occhi, poteva seguire una traccia come il miglior segugio, fiutare la paura e il sudore di una preda a diverse ore di distanza, vedere di notte come i lupi, prevedere una ribellione prima ancora che nascesse e sedarla. Si vantava del fatto che con lui al comando pochi schiavi erano fuggiti da Saint-Lazare; il suo metodo consisteva nello spezzare loro l'anima e la volontà. Solo la paura e la stanchezza vincevano la seduzione della libertà. Produrre, produrre, produrre fino all'ultimo respiro, che non tardava troppo ad arrivare, perché lì nessuno invecchiava, al massimo tirava avanti tre o quattro anni, mai più di sei o sette. «Non esagerare con le punizioni, Cambray, perché me li debiliti» gli aveva ordinato Valmorain in più d'una occasione, stomacato dalle piaghe purulente e dalle amputazioni, che impossibilitavano al lavoro, ma non lo contraddiceva mai davanti agli schiavi; per mantenere la disciplina la parola del capo dei sorveglianti doveva essere inappellabile. Tale era il desiderio di Valmorain, cui ripugnava l'idea di lottare contro i neri. Preferiva che Cambray fosse il boia e per sé riservava il ruolo di padrone benevolente, atteggiamento che calzava con gli ideali umanitari della sua gioventù. Secondo Cambray, era più redditizio rimpiazzare gli schiavi piuttosto che trattarli con considerazione; una volta ammortizzato il costo, conveniva sfruttarli fino alla morte e poi comprarne altri più giovani e forti. Se qualcuno nutriva qualche dubbio sulla necessità di usare il pugno di ferro, li dissipava la storia di Macandal, il mandingo magico.
Tra il 1751 e il 1757, quando Macandal aveva seminato la morte tra i bianchi della colonia, Toulouse Valmorain era un bambino viziato che viveva nei sobborghi di Parigi in un piccolo chàteau, proprietà di famiglia da varie generazioni, e che non aveva mai sentito nominare il mandingo. Non sapeva che suo padre era scampato per miracolo agli avvelenamenti collettivi a Saint-Domingue e che, se non avessero catturato Macandal, il vento della ribellione avrebbe distrutto l'isola. La sua esecuzione era stata posticipata per dare il tempo ai piantatori di arrivare a Le Cap con i loro schiavi; così i neri si sarebbero convinti una volta per tutte che Macandal era mortale. «La storia si ripete, nulla cambia su quest'isola maledetta» commentò Toulouse Valmorain a sua moglie, mentre percorrevano la stessa strada che suo padre aveva percorso anni prima per la medesima ragione: assistere a un castigo esemplare. Le spiegò che quello era il sistema migliore per scoraggiare i rivoltosi, come avevano deciso il governatore e l'intendente, che una volta tanto si trovavano d'accordo su qualcosa. Sperava che lo spettacolo potesse tranquillizzare Eugenia, ma non aveva previsto che il viaggio si sarebbe trasformato in un incubo. Aveva la tentazione di tornare a Saint-Lazare, ma non poteva farlo, i piantatori dovevano presentare un fronte compatto contro i neri. Sapeva che giravano chiacchiere sul suo conto, si diceva che era sposato con una spagnola mezza matta, che era arrogante e approfittava dei privilegi della sua posizione sociale, pur non adempiendo ai suoi obblighi nell'Assemblea coloniale, dove la poltrona dei Valmorain era rimasta vuota dalla morte di suo padre. Il chevalier era stato un monarchico fanatico, ma il figlio disprezzava Luigi XVI, quel sovrano irresoluto nelle cui mani grassottelle riposava la monarchia.