LA PARIGI DELLE ANTILLE



Le Cap era gremita di rifugiati che avevano abbandonato le piantagioni. Il fumo degli incendi, trasportato dal vento, rimase a fluttuare nell'aria per settimane. La Parigi delle Antille puzzava di spazzatura ed escrementi, dei cadaveri dei giustiziati che si decomponevano sui patiboli e delle fosse comuni delle vittime della guerra e delle epidemie. I rifornimenti erano molto irregolari e per alimentarsi, la popolazione dipendeva dalle barche e dai pescherecci ma i grands blancs continuavano a vivere nello stesso lusso di prima, solo che ora costava più caro. Sulle loro tavole non mancava nulla, il razionamento era per gli altri. Le feste continuarono con guardie armate alle porte, non chiusero i teatri né le taverne e le luccicanti cocottes allietavano ancora le notti. Non rimaneva una sola stanza libera in cui alloggiare, ma Valmorain poteva contare sulla casa del portoghese, che si era procurato prima dell'insurrezione, dove si sistemò per riprendersi dallo spavento e dai lividi fisici e morali. Lo servivano sei schiavi in affitto comandati da Tété; non gli conveniva comprarli proprio quando stava progettando di cambiare vita. Acquistò solo un cuoco formatosi in Francia, che in seguito poteva vendere senza perdere denaro; il prezzo di un buon cuoco era fra le poche cose stabili che rimanevano. Era certo che avrebbe recuperato la sua proprietà, non era la prima ribellione di schiavi nelle Antille e tutte erano state sedate, la Francia non avrebbe permesso che dei banditi neri mandassero in rovina la colonia. A ogni modo, quand'anche la situazione fosse tornata a essere quella di prima, lui se ne sarebbe andato da Saint-Lazare, lo aveva già deciso. Era al corrente della morte di Prosper Cambray, perché i soldati avevano trovato il suo corpo tra le macerie della piantagione. «Non mi sarei mai liberato di lui in un altro modo» pensò. La sua proprietà era solo cenere, ma la terra era lì, nessuno poteva portarsela via. Si sarebbe procurato un amministratore, qualcuno abituato al clima e di esperienza, non erano tempi per intendenti giunti dalla Francia, come spiegò al suo amico Parmentier, mentre questi gli curava i piedi con le erbe cicatrizzanti che aveva visto utilizzare a Tante Rose.

«Tornerà a Parigi, mon ami?» gli chiese il dottore.

«Non credo. Ho interessi nei Caraibi, non in Francia. Mi sono messo in società con Sancho Garcia del Solar, il fratello di Eugenia, che riposi in pace, e abbiamo acquistato delle terre in Louisiana. E lei che piani ha, dottore?»

«Se la situazione qui non migliora, penso di andarmene a Cuba.»

«Ha famiglia lì?»

«Sì» ammise il medico, arrossendo.

«La pace della colonia dipende dal governo in Francia. I repubblicani hanno tutta la colpa di quanto è successo qui, il re non avrebbe mai permesso che si giungesse a questi estremi.»

«Credo che la Rivoluzione francese sia irreversibile» replicò il medico.

«La Repubblica non ha la minima idea di come vada gestita questa colonia, dottore. I delegati hanno deportato mezzo reggimento di Le Cap e l'hanno sostituito con mulatti. È una provocazione, nessun soldato bianco accetterà di sottostare agli ordini di un ufficiale di colore.»

«Forse è giunto il momento in cui bianchi e affranchis imparino a convivere, visto che il nemico comune sono i neri.»

«Mi chiedo cosa pretendano questi selvaggi» disse Valmorain.

«Libertà, mon ami» spiegò Parmentier. «Uno dei capi, mi pare che si chiami Toussaint, sostiene che le piantagioni possono funzionare con manodopera libera.»

«Anche se li si pagasse, i neri non lavorerebbero!» esclamò Valmorain.

«Questo nessuno può dirlo, perché non lo si è mai provato. Toussaint dice che gli africani sono contadini, hanno familiarità con la terra, coltivare è ciò che sanno e vogliono fare» insistè Parmentier.

«Ciò che sanno e vogliono fare è uccidere e distruggere, dottore! Inoltre quel Toussaint è passato dalla parte spagnola.»

«Si ripara sotto la bandiera spagnola perché i coloni francesi si sono rifiutati di scendere a patti con i ribelli» gli ricordò il medico.

«Io ero lì, dottore. Ho cercato invano di convincere gli altri piantatori ad accettare le clausole di pace proposte dai neri, che chiedevano solo la libertà dei capi e dei tenenti, circa duecento persone in tutto» gli raccontò Valmorain.

«Allora la colpa della guerra non è l'incompetenza del governo repubblicano in Francia, ma l'orgoglio dei coloni di Saint-Domingue» dedusse Parmentier.

«Le concedo che dovremo essere più ragionevoli, ma non possiamo negoziare da pari a pari con gli schiavi, sarebbe un pessimo precedente.»

«Bisognerebbe trovare un accordo con Toussaint, che sembra essere il più ragionevole dei capi ribelli.»

Tété prestava attenzione quando si parlava di Toussaint. Aveva conservato nel fondo della sua anima l'amore per Gambo, rassegnata all'idea di non vederlo per molto tempo, forse mai più, ma lo portava conficcato nel cuore e immaginava che si trovasse tra le fila di quel Toussaint. Sentì dire a Valmorain che nessuna rivolta di schiavi nella storia aveva trionfato, ma osava sognare il contrario e chiedersi come sarebbe stata la vita senza schiavitù. Organizzò la casa come sempre aveva fatto, ma Valmorain le spiegò che non potevano avere le stesse abitudini di Saint-Lazare, dove importava solo la comodità ed era uguale se servivano a tavola con i guanti o senza. A Le Cap bisognava vivere con stile. Per quanto la rivolta ardesse alle porte della città, lui doveva ricambiare le attenzioni delle famiglie che con frequenza lo invitavano e si erano assegnate la missione di trovargli moglie.

Il padrone fece delle ricerche e trovò un mentore per Tété: il maggiordomo dell'intendenza. Era lo stesso Adone africano che serviva nella dimora quando Valmorain era arrivato con Eugenia malata a chiedere ospitalità nel 1780, ma era più attraente, perché era maturato con straordinaria grazia. Si chiamava Zacharie ed era nato e cresciuto tra quelle pareti. I suoi genitori erano stati schiavi di altri intendenti, che li avevano venduti ai loro successori quando erano dovuti tornare in Francia; era così che erano finiti a far parte dell'inventario. Il padre di Zacharie, bello quanto lui, lo aveva addestrato sin da molto giovane al prestigioso incarico di maggiordomo, perché aveva visto che possedeva le doti essenziali per quel lavoro: intelligenza, astuzia, dignità e prudenza. Zacharie stava alla larga dagli agguati delle donne bianche perché ne conosceva i rischi; così si era evitato molti problemi. Valmorain si offrì di pagare una somma all'intendente per i servizi del suo maggiordomo, ma questi non volle sentir parlare della questione. «Gli dia una mancia, è sufficiente così. Zacharie sta risparmiando per comprare la sua libertà, anche se non capisco perché la desideri. La sua attuale situazione non potrebbe essere più vantaggiosa» gli disse. Decisero che Tété sarebbe andata quotidianamente all'intendenza per perfezionarsi.

Zacharie la accolse con freddezza, fissando sin dall'inizio una certa distanza, visto che lui ricopriva la carica di maggior importanza tra i domestici di Saint-Domingue e lei era una schiava di infimo grado, ma ben presto fu tradito dalla sua vocazione didattica e finì per consegnarle i segreti del mestiere con una generosità che superava di molto la mancia di Valmorain. Lo sorprese che quella ragazza non apparisse impressionata da lui, era abituato all'ammirazione femminile. Doveva far sfoggio di molto tatto per sottrarsi alle lusinghe e rifiutare le avance delle donne, ma con Tété potè rilassarsi in un rapporto senza secondi fini. Si trattavano con formalità, monsieur Zacharie e mademoiselle Zarité.

Tété si alzava all'alba, pianificava il lavoro degli schiavi, dava disposizioni per le faccende domestiche, lasciava i bambini alle cure della bambinaia provvisoria che il padrone aveva preso in affitto, e si recava alle lezioni con la sua migliore camicia e il tignon appena inamidato. Non seppe mai quanti servi ci fossero in totale nell'intendenza; solo in cucina c'erano tre cuochi e sette aiutanti, ma calcolò che non erano meno di cinquanta. Zacharie gestiva ogni spesa e fungeva da collegamento tra i padroni e il personale di servizio, era la massima autorità in quella complicata organizzazione. Nessuno schiavo osava rivolgersi a lui senza essere interpellato, ragione per cui tutti si offesero per le visite di Tété, che dopo pochi giorni eludeva le regole ed entrava direttamente nel tempio vietato a tutti, il minuscolo ufficio del maggiordomo. Senza rendersi conto, Zacharie cominciò ad aspettarla, perché gli piaceva darle lezioni. Lei si presentava puntuale, prendevano il caffè e subito dopo la metteva a parte delle sue conoscenze. Passavano in rassegna il personale della dimora controllando il servizio. L'allieva imparava velocemente e in poco tempo non avevano più segreti per lei gli otto calici indispensabili in un banchetto, la differenza tra una forchetta per lumache e un'altra simile per l'aragosta, da quale lato si mette il lavamano e l'ordine di precedenza dei diversi tipi di formaggio, così come la forma più discreta di disporre le bacinelle a una festa, cosa fare con una dama ebbra e la gerarchia degli ospiti a tavola. Finita la lezione, Zacharie la invitava a prendere un altro caffè e ne approfittava per parlarle di politica, il tema che più lo appassionava. All'inizio lei lo ascoltava per cortesia, chiedendosi cosa potesse importare a uno schiavo delle dispute tra gente libera, finché lui non fece cenno alla possibilità che la schiavitù fosse abolita. «Pensi, mademoiselle Zarité, da anni risparmio per la mia libertà e può darsi che me la concedano prima di riuscire a comprarla» rise Zacharie. Veniva a sapere tutto ciò di cui si parlava nell'intendenza, accordi a porte chiuse compresi. Sapeva che nell'Assemblea nazionale di Parigi si discuteva dell'ingiustificabile incongruenza di mantenere la schiavitù nelle colonie dopo averla abolita in Francia. «Sa qualcosa di Toussaint, monsieur?« gli chiese Tété. Il maggiordomo le snocciolò la sua biografia, che aveva letto in una cartella riservata dell'intendente, e aggiunse che il delegato Sonthonax e il governatore sarebbero dovuti giungere a un accordo con lui, perché era alla testa di un esercito molto ben organizzato e contava sull'appoggio degli spagnoli dell'altro lato dell'isola.

L'isola sotto il mare
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