IL SANTO DI NEW ORLEANS
Le prime due settimane Tété si guadagnò il cibo e un letto di paglia su cui dormire aiutando padre Antoine nelle sue molteplici opere di carità. Si alzava prima dell'alba, quando lui già stava pregando da un pezzo, e lo accompagnava in carcere, in ospedale, in manicomio, all'orfanotrofio e in alcune case private per portare la comunione ad anziani e malati immobilizzati. Per tutto il giorno, sotto il sole o la pioggia, la figura ossuta del frate con la sua veste marrone e la barba arruffata girava per la città; lo si vedeva nelle dimore dei ricchi e nelle capanne miserevoli, nei conventi e nei bordelli, a chiedere l'elemosina al mercato e nei caffè, a offrire pane ai mendicanti mutilati e acqua agli schiavi delle aste nel Maspero Echange, sempre seguito da un branco di cani famelici. Non dimenticava mai di consolare i condannati ai ceppi collocati per strada, dietro al Consiglio, le pecorelle più disgraziate del suo gregge, alle quali puliva le ferite con goffaggine, perché ci vedeva poco, e Tété doveva intervenire.
«Che mani d'angelo hai, Tété! Il Signore ti ha creato perché tu sia infermiera. Dovresti rimanere a lavorare con me» le propose il santo.
«Non sono suora, mon père, non posso lavorare gratis per sempre, devo mantenere mia figlia.»
«Non soccombere alla cupidigia, figliola, il servizio al prossimo ha la sua ricompensa in cielo, come ha promesso Gesù.»
«Gli dica che è meglio se mi paga qui, anche se si tratta di poco.»
«Glielo dirò, figliola, ma Gesù ha molte spese» rispose il frate con una risata canzonatrice.
All'imbrunire tornavano alla casetta di pietra, dove li attendeva sorella Lucie con acqua e sapone perché si lavassero prima di cenare con i poveri. Tété andava a bagnarsi i piedi in un secchio d'acqua e a tagliare strisce per fare bendaggi, mentre lui ascoltava confessioni, faceva da arbitro, giudicava torti e risolveva animosità Non dava consigli, perché secondo la sua esperienza era una perdita di tempo, ognuno commette i suoi errori e impara da sé.
Di notte il santo si copriva con una coperta tarmata e andava con Tété dalla marmaglia più pericolosa, provvisto di una lampada, visto che nessuno degli ottanta lampioni della città era posto dove poteva essere utile a lui. I delinquenti lo tolleravano, perché rispondeva alle imprecazioni con benedizioni sarcastiche e nessuno riusciva a intimidirlo. Non arrivava con l'intento di condannare né con il proposito di salvare delle anime, bensì per bendare gli accoltellati, separare i violenti, impedire i suicidi, soccorrere donne, raccogliere cadaveri e portare bambini all'orfanotrofio delle suore. Se per ignoranza qualcuno dei kaintocks osava toccarlo, cento pugni si levavano per insegnare al forestiero chi era padre Antoine. Entrava nel quartiere di El Pantano, il peggior antro di depravazione del Mississippi, protetto dalla sua incorruttibile innocenza e dalla sua incerta aureola. Lì si ammucchiavano in bische e lupanari rematori di navi, pirati, protettori, puttane, disertori dell'esercito, marinai in festa, ladri e assassini. Terrorizzata, Tété avanzava tra fango, vomito, merda e topi, attaccata all'abito del cappuccino, invocando Erzuli a voce alta, mentre lui assaporava il piacere del pericolo. «Gesù veglia su di noi, Tété» le assicurava, felice. «E se si distrae, mon père?»
Alla fine della seconda settimana Tété aveva i piedi piagati, la schiena rotta, il cuore oppresso dalle miserie umane e il sospetto che fosse molto meno faticoso tagliare canna che non distribuire carità agli ingrati. Un martedì trovò in piazza delle Armi Sancho Garcia del Solar, vestito di nero e così profumato che nemmeno le mosche gli si avvicinavano, molto contento perché aveva appena vinto una partita alle carte con un americano troppo sicuro di sé. La salutò con una vistosa riverenza e un bacio sulla mano, davanti a diversi curiosi stupiti, e poi la invitò a prendere un caffè.
«Ho poco tempo, don Sancho; sto aspettando mon pere che sta curando le pustole di un peccatore e non credo che ci metterà molto.»
«Non lo aiuti, Tété?»
«Sì, ma questo peccatore ha il male spagnolo e mon pére non mi lascia vedere le parti intime. Come se fossero una novità per me!»
«Il santo ha tutte le ragioni, Tété. Se mi colpisse quella malattia, Dio non voglia, non vorrei che una bella donna offendesse il mio pudore.»
«Non scherzi, don Sancho, guardi che quella disgrazia può toccare a chiunque. Meno che a padre Antoine, ovviamente.»
Si sedettero a un tavolino di fronte alla piazza. Il proprietario della caffetteria, un mulatto libero conoscente di Sancho, non nascose la sua sorpresa di fronte al contrasto tra lo spagnolo e la sua accompagnatrice, lui con l'aria regale e lei da mendicante. Anche Sancho notò l'aspetto patetico di Tété e, quando lei gli raccontò come era stata la sua vita in quelle due settimane, esplose in una sonora risata.
«Sicuramente la santità è un peso, Tété. Devi scappare da padre Antoine o ti ritroverai decrepita come sorella Lucie» disse.
«Non posso abusare della gentilezza di padre Antoine ancora per molto tempo, don Sancho. Me ne andrò quando saranno passati i quaranta giorni della notifica del giudice e avrò la mia libertà. Allora vedrò cosa fare, devo trovare un lavoro.»
«E Rosette?»
«È ancora dalle orsoline. So che lei le fa visita e le porta regali a mio nome. Come posso ripagarle la bontà che lei ci ha sempre dimostrato, don Sancho?»
«Non mi devi nulla, Tété.»
«Ho bisogno di risparmiare un po' per accogliere Rosette quando uscirà dal collegio.»
«Cosa dice padre Antoine al riguardo?» le chiese Sancho, mettendo cinque cucchiaini di zucchero e uno spruzzo di cognac nella sua tazza di caffè.
«Che Dio provvederà.»
«Spero che sia così, ma per ogni evenienza sarebbe bene avere un piano alternativo. Ho bisogno di una governante, la mia casa è un disastro, ma se ti assumo i Valmorain non me lo perdoneranno.»
«Capisco, signore. Qualcuno mi assumerà, ne sono certa.»
«Il lavoro pesante lo fanno gli schiavi, dalla coltivazione dei campi all'accudimento dei bambini. Sapevi che ci sono tremila schiavi a New Orleans?»
«E quante persone libere, signore?»
«Circa cinquemila bianchi e duemila di colore, a quanto pare.»
«Vale a dire le persone libere sono più del doppio rispetto agli schiavi» calcolò lei. «Figuriamoci se non troverò qualcuno che ha bisogno di me! Un abolizionista, per esempio.»
«Un abolizionista in Louisiana? Se ce ne sono, stanno ben nascosti» rise Sancho.
«Non so leggere né scrivere, né cucinare, signore, ma so fare i lavori di casa, far nascere bambini, ricucire le ferite e curare i malati» insistè lei.
«Non sarà facile, Tété, ma cercherò di aiutarti» le disse Sancho. «Una mia amica sostiene che gli schiavi sono più cari dei dipendenti. Ci vogliono diversi schiavi per fare di malavoglia il lavoro che una persona libera fa di buon grado. Capisci?»
«Più o meno» ammise lei, memorizzando ogni parola per ripeterla a padre Antoine.
«Lo schiavo è privo di incentivi, gli conviene lavorare lentamente e male, visto che il suo sforzo dà benefìci solo al padrone, mentre la gente libera lavora per risparmiare e migliorare le condizioni di vita, questo è il loro incentivo.»
«L'incentivo a Saint-Lazare era la frusta del signor Cambray» commentò lei.
«E infatti vedi come è finita quella colonia, Tété. Non si può imporre il terrore all'infinito.»
«Lei deve essere un abolizionista mimetizzato, don Sancho, perché parla come il precettore Gaspard Sévérin e monsieur Zacharie a Le Cap.»
«Non ripeterlo in pubblico perché mi causeresti dei problemi. Domani voglio rivederti qui, pulita e ben vestita. Andremo a trovare la mia amica.»
Il giorno seguente padre Antoine andò da solo a svolgere le sue incombenze, mentre Tété, con l'unico vestito lavato e il tignon inamidato, andava con Sancho a cercare lavoro per la prima volta. Non andarono lontano, solo a qualche isolato di distanza, nella variopinta via Chartres, con i suoi negozi di cappelli, pizzi, stivaletti, stoffe e tutto quanto esiste per alimentare la civetteria femminile, e si fermarono davanti a una casa a due piani dipinta di giallo con grate di ferro verde ai balconi.
Sancho bussò alla porta con un piccolo batacchio a forma di rospo e gli aprì una nera grassa, che quando riconobbe Sancho trasformò la smorfia di malumore in un aperto sorriso. Tété pensò di aver girato per vent'anni in tondo per finire nello stesso luogo in cui si era trovata dopo aver lasciato la casa di madame Delphine. Era Loula. La donna non la riconobbe, sarebbe stato impossibile, ma siccome era con Sancho, le diede il benvenuto e li condusse in sala. «Madame arriverà presto, don Sancho. La sta aspettando» disse e scomparve facendo rimbombare le tavole del pavimento con i suoi passi da elefantessa.
Qualche minuto più tardi Tété, con il cuore che sussultava, vide entrare la Violette Boisier di Le Cap, bella come allora e con la sicurezza che gli anni e i ricordi concedono. Sancho si trasformò all'istante. Scomparve la sua spacconeria da maschio spagnolo e si trasformò in un ragazzo timido che si chinava a baciare la mano della bella, mentre la punta dello spadino rovesciava un tavolino. Tété riuscì ad afferrare al volo un trovatore medievale di porcellana e lo trattenne contro il petto, osservando esterrefatta Violette. «Immagino che questa sia la donna di cui mi hai parlato, Sancho» disse lei. Tété notò la familiarità del tono e il turbamento di Sancho, le vennero in mente i pettegolezzi e intuì che Violette era la cubana che, secondo Célestine, aveva sostituito Adi Soupir nel cuore volubile dello spagnolo.
«Madame... Ci siamo conosciute molto tempo fa. Lei mi comprò da madame Delphine quando ero una bambina» riuscì ad articolare Tété.
«Davvero? Non mi ricordo» titubò Violette.
«A Le Cap. Lei mi comprò per monsieur Valmorain. Sono Zarité.»
«Ma certo! Avvicinati alla finestra perché ti veda bene. E come avrei potuto riconoscerti? All'epoca eri una ragazzina magra con l'ossessione di scappare.»
«Ora sono libera. Insomma, quasi libera.»
«Dio mio, questa è una coincidenza incredibile. Loula! Vieni a vedere chi c'è qui!» gridò Violette.
Loula entrò trascinando la sua enorme mole e quando la riconobbe la strinse in un abbraccio da gorilla. Un paio di lacrime sentimentali fecero capolino negli occhi della donna al ricordo di Honoré, associato nella sua memoria alla ragazzina che Tété era stata Le raccontò che, prima di tornare in Francia, madame Delphine aveva cercato di venderlo, ma non valeva nulla, era vecchio e malato, e aveva dovuto lasciarlo libero perché si arrangiasse da solo chiedendo l'elemosina.
«Se ne andò con i ribelli prima della rivoluzione. Venne a salutarmi, eravamo amici. Un vero gentiluomo quell'Honoré. Non so se riuscì ad arrivare alle montagne, perché la strada era ripida e lui aveva le ossa deformi. Se arrivò, chissà se lo accettarono, perché non era in grado di combattere in nessuna guerra» sospirò Loula.
«Sicuramente lo accettarono, perché sapeva suonare i tamburi e cucinare. Ed è più importante che saper impugnare un'arma» la consolò Tété.
Si accomiatò dal sacerdote e dall'anziana sorella Lucie con la promessa che, quando avesse potuto, li avrebbe aiutati con i malati, e si trasferì a vivere con Violette e Loula, come a dieci anni aveva tanto desiderato. Per soddisfare una curiosità rimastale da due decenni, si informò su quanto denaro aveva dato Violette a madame Delphine per comprarla e venne a sapere che equivaleva al costo di un paio di capre, anche se in seguito, passando a Valmorain, il suo prezzo era aumentato di un quindici per cento. «È più di quanto valevi, Tété. Eri una ragazzina brutta e cresciuta male» le assicurò Loula in modo serio.
Le assegnarono l'unica stanza della casa destinata agli schiavi, una cella senza aerazione, ma pulita, e Violette, frugando tra le sue cose, trovò qualcosa di adatto da farle indossare. I suoi compiti erano talmente tanti che non si potevano enumerare, ma fondamentalmente consistevano nell'eseguire gli ordini di Loula, che non aveva più né l'età né il fiato per i mestieri di casa e passava il giorno in cucina a preparare unguenti di bellezza e infusi per la sensualità. Nessun cartello per strada informava su ciò che si offriva tra quelle mura; bastava il passaparola, che attirava una fila interminabile di donne di tutte le età, in maggioranza di colore, anche se arrivavano pure alcune bianche celate sotto fitti veli.
Violette riceveva solo di pomeriggio, non aveva perso l'abitudine di dedicare le ore del mattino alla cura personale e al riposo. La sua pelle, raramente toccata dalla luce diretta del sole, era ancora delicata come crème caramel, e le sottili rughe intorno agli occhi le davano carattere; le sue mani, che non avevano mai lavato biancheria né cucinato, risplendevano giovanili, e le sue forme si erano accentuate con qualche chilo in più che la ammorbidiva senza darle l'aspetto da matrona. Le lozioni misteriose avevano preservato il nero corvino dei suoi capelli, che pettinava come un tempo in uno chignon complicato, con alcuni ricci liberi per il piacere dell'immaginazione. Suscitava ancora desiderio negli uomini e gelosia nelle donne, e quella certezza aggiungeva un dondolio al suo incedere e una vibrazione alla sua risata. Le sue clienti le confidavano le loro pene, le chiedevano consiglio sussurrando, e acquistavano le sue pozioni senza trattare, nel più assoluto riserbo. Tété la accompagnava a comprare gli ingredienti; dalle perle per schiarire la pelle, che otteneva dai pirati, alle bottigliette di vetro dipinto, che un capitano le portava dall'Italia.
«La confezione vale più del contenuto. Quel che importa è l'apparenza» commentò Violette con Tété.
«Padre Antoine sostiene il contrario» rise l'altra.
Una volta alla settimana andavano da uno scrivano e Violette gli dettava a grandi linee una lettera per il figlio in Francia. Lo scrivano si incaricava di mettere i suoi pensieri in frasi fiorite e in bella calligrafia. Le lettere impiegavano due mesi per arrivare nelle mani del giovane cadetto, che rispondeva puntualmente con quattro frasi in gergo militare per dire che il suo stato era buono e che stava studiando la lingua del nemico, senza specificare quale nemico in particolare, visto che la Francia ne aveva diversi.
«Jean-Martin è uguale a suo padre» sospirava Violette quando leggeva quelle missive scritte in codice. Tété si azzardò a chiederle come era riuscita a evitare che la maternità le afflosciasse il corpo e Violette lo attribuì all'eredità della sua nonna senegalese. Non le confessò che Jean-Martin era adottato, così come non citò mai le sue avventure con Valmorain. Invece, le parlò della sua lunga relazione con Etienne Relais, amante e marito, alla cui memoria era rimasta fedele finché non era apparso Sancho Garcia del Solar, perché a Cuba nessuno dei pretendenti, compreso quel galego che era stata sul punto di sposare, era riuscito a farla innamorare.
«Nel mio letto da vedova ho sempre avuto compagnia per mantenermi in forma. Per questo ho una bella pelle e buonumore.»
Tété calcolò che invece lei sarebbe stata presto rugosa e malinconica, perché da anni si consolava da sola, senz'altro stimolo che il ricordo di Gambo.
«Don Sancho è un signore molto buono, madame. Se lo ama, perché non vi sposate?»
«In che mondo vivi, Tété? I bianchi qui non si sposano con donne di colore, è illegale. Inoltre, alla mia età non bisogna sposarsi e tantomeno con un gozzovigliatore inguaribile come Sancho.»
«Potreste vivere insieme.»
«Non voglio mantenerlo. Sancho morirà povero, mentre io intendo morire ricca ed essere sepolta in un mausoleo coronato da un arcangelo di marmo.»
Un paio di giorni prima che scadesse il termine per l'emancipazione di Tété, Sancho e Violette la accompagnarono al collegio delle orsoline per dare la notizia a Rosette. Si riunirono nella sala delle visite, ampia e quasi nuda, con quattro sedie di legno grezzo e un grande crocefisso appeso al soffitto. Su un tavolino c'erano tazze di cioccolata tiepida, con una crosta di panna coagulata che vi galleggiava sopra, e un'urna per le elemosine per aiutare i mendicanti ospiti del convento. Una suora assisteva al colloquio e vigilava con la coda dell'occhio, perché le alunne non potevano stare senza chaperon in presenza maschile, fosse anche stato il vescovo, e a maggior ragione con un tipo seducente come quello spagnolo.
Tété raramente aveva affrontato con sua figlia il tema della schiavitù. Rosette sapeva vagamente che lei e sua madre appartenevano a Valmorain ed equiparava la loro situazione a quella di Maurice, che dipendeva totalmente da suo padre e non poteva decidere nulla da solo. Non le sembrava strano. Tutte le donne e le bambine che conosceva, libere o no, appartenevano a un uomo: un padre, un marito o Gesù. Tuttavia, quello era il tema costante delle lettere di Maurice, che essendo libero viveva con molta più angoscia di lei l'assoluta immoralità della schiavitù, come la chiamava. Durante l'infanzia, quando le differenze tra i due erano molto meno apparenti, Maurice era solito sprofondare in tragiche depressioni causate dai due temi che lo ossessionavano: la giustizia e la schiavitù. «Quando saremo grandi, tu sarai il mio padrone e io sarò la tua schiava, e vivremo contenti» gli aveva detto Rosette in un'occasione. Maurice l'aveva scrollata, strozzato dal pianto: «Io non avrò mai schiavi! Mai! Mai!».
Rosette era una delle ragazze dalla pelle più chiara tra le studentesse di colore e nessuno dubitava che fosse figlia di genitori liberi; solo la madre superiora conosceva la sua vera condizione e l'aveva accettata per via della donazione che Valmorain aveva fatto al collegio e per la promessa che in un futuro prossimo sarebbe stata emancipata. Quella visita risultò più distesa delle precedenti, quando Tété rimaneva da sola con la figlia senza nulla da dire, entrambe a disagio. Rosette e Violette entrarono immediatamente in sintonia. Vedendole insieme, Tété pensò che in un certo senso si assomigliavano, non tanto per i tratti fisici quanto per il colore e per l'attitudine. Passarono l'ora di visita a conversare animatamente, mentre lei e Sancho le osservavano in silenzio.
«Che ragazza sveglia e carina è la tua Rosette, Tété! È la figlia che vorrei avere!» esclamò Violette quando uscirono.
«Che ne sarà di lei quando uscirà dal collegio, madame? È abituata a vivere come una ricca, non ha mai lavorato e si crede bianca» sospirò Tété.
«Be', c'è ancora tempo. Staremo a vedere» replicò Violette.
Il giorno stabilito mi appostai all'entrata del tribunale in attesa del giudice. La notifica era ancora appesa al muro, come avevo visto tutti i pomeriggi di quei quaranta giorni, quando andavo, con il cuore in gola e un gris-gris della buona sorte in mano, a controllare se qualcuno si opponeva alla mia liberazione. Madame Hortense poteva impedire tutto questo, sarebbe stato molto facile per lei; le sarebbe bastato accusarmi di costumi dissoluti o di cattiva indole, ma a quanto pareva non si azzardò a sfidare suo marito. Monsieur Valmorain era terrorizzato dai pettegolezzi. In quei giorni ebbi il tempo per pensare e mi sorsero molti dubbi. Mi risuonavano in testa gli avvertimenti di Célestine e le minacce di Valmorain: libertà significava non poter contare su un aiuto, non avrei avuto protezione né sicurezza. Se non trovavo lavoro o mi ammalavo sarei finita nella fila dei mendicanti nutriti dalle orsoline. E Rosette? «Calma, Tèté. Confida in Dio, che non ci abbandona mai» mi consolava padre Antoine. Nessuno si presentò in tribunale per opporsi e il 30 novembre 1800 il giudice firmò la mia libertà e mi consegnò Rosette. Solo padre Antoine era lì, perché don Sancho e il dottor Parmentier, che mi avevano promesso di essere presenti, si erano dimenticati. Il giudice mi chiese con quale cognome volevo essere iscritta e il santo mi autorizzò a usare il suo. Zarité Sedella, trent'anni, mulatta, libera. Rosette, undici anni, mulatta, proprietà di Zarité Sedella. Questo diceva il documento che padre Antoine mi lesse parola per parola prima di darmi la sua benedizione e un forte abbraccio. Andò così.
Il santo se ne andò subito ad assistere i suoi bisognosi e io mi sedetti su una panchina in piazza delle Armi a piangere di sollievo.
Non so per quanto tempo rimasi così, ma fu un pianto lungo, perché il sole si spostò in cielo e la faccia mi si asciugò nell'ombra. Allora sentii che mi toccavano la spalla e una voce che riconobbi all'istante mi salutò: «Finalmente si è calmata, mademoiselle Zarité! Pensavo che si sarebbe sciolta in lacrime». Era Zacharie, che era rimasto seduto su un'altra panchina a osservarmi senza fretta. Era l'uomo più bello del mondo, ma io non lo avevo notato prima perché ero accecata dall'amore per Gambo. Nell'intendenza di Le Cap, con la sua livrea di gala, era una figura imponente e lì nella piazza, con un gilet ricamato di seta color muschio, una camicia di batista, stivali con fibbie lavorate e diversi anelli d'oro, era ancora più attraente. «Zacharie! È veramente lei?» Sembrava una visione, molto signorile, con qualche capello bianco sulle tempie e un bastone sottile con il manico d'avorio.
Si sedette al mio fianco e mi chiese di abbandonare le formalità, e di usare il tu e non il lei, in virtù della nostra vecchia amicizia. Mi raccontò di essere fuggito in tutta fretta da Saint-Domingue non appena era stata annunciata la fine della schiavitù e di essersi imbarcato su una goletta americana che lo aveva lasciato a New York, dove non conosceva nessuno, tremava di freddo e non capiva una parola della lingua incomprensibile che parlava quella gente. Sapeva che la maggior parte dei rifugiati di Saint-Domingue si era sistemata a New Orleans e si era arrangiato per arrivare fino a qui. Le cose gli andavano molto bene. Un paio di giorni prima aveva visto per caso in tribunale la notifica della mia libertà, aveva fatto degli accertamenti e quando era stato sicuro che si trattava della stessa Zarité che lui conosceva, schiava di monsieur Toulouse Valmorain, aveva deciso di passare nella data indicata, visto che comunque la sua nave era all'ancora a New Orleans. Mi aveva visto entrare con padre Antoine in tribunale, mi aveva aspettato in piazza delle Armi e poi aveva avuto la delicatezza di lasciarmi piangere a piacimento prima di salutarmi.
«Ho atteso per trentanni questo momento e ora che è arrivato, invece di ballare per l'allegria, mi metto a piangere» gli dissi, vergognandomi.
«Avrai tempo di ballare, Zarité. Andremo a festeggiare questa sera» mi propose.
«Non ho nulla da mettermi!»
«Dovrò comprarti un vestito; è il minimo che ti meriti in questo giorno, il più importante della tua vita.»
«Sei ricco, Zacharie?»
«Sono povero ma vivo da ricco. È più saggio che essere ricco e vivere da povero» e scoppiò a ridere.
«Quando morirò, i miei amici dovranno fare una colletta per seppellirmi, ma il mio epitaffio reciterà a lettere d'oro: qui giace Zacharie, il nero più ricco del Mississippi, Ho già fatto incidere la mia lapide e la conservo sotto al letto.»
«È la stessa cosa che desidera madame Violette Boisier: una tomba eccezionale.»
«È l'unica cosa che rimane, Zarité. Fra cento anni i visitatori del cimitero potranno ammirare le tombe di Violette e Zacharie e immaginare che abbiamo avuto una buona vita.»
Mi accompagnò a casa. A metà strada incrociammo due uomini bianchi, vestiti bene quasi come Zacharie, che lo osservarono dalla testa ai piedi con un'espressione burlona. Uno di loro lanciò uno sputo molto vicino ai piedi di Zacharie, ma lui non se ne rese conto o preferì ignorarlo.
Non fu necessario che mi comprasse un vestito, perché madame Violette volle occuparsi di me per il primo appuntamento della mia vita. Assieme a Loula mi fecero il bagno, mi massaggiarono con crema alle mandorle, mi lucidarono le unghie e mi sistemarono i piedi meglio che poterono, ma non poterono nascondere i calli dei tanti anni passati a camminare scalza. Madame mi truccò, e nello specchio non apparve la mia faccia imbrattata, bensì una Zarité Sedella quasi carina. Mi mise un suo vestito di mussola stile impero con un mantello dello stesso color pesca e mi annodò alla sua maniera un tignon di seta. Mi prestò le sue scarpette di taffettà e i suoi grandi orecchini d'oro, il suo unico gioiello, a parte l'anello con l'opale rotto, che non si toglieva mai dal dito. Non dovetti andare con i sandali e portare le scarpette in una borsa per non sporcarle per strada, come si fa sempre, perché Zacharie arrivò su una carrozza presa in affitto. Immagino che Violette, Loula e diverse vicine che erano giunte a curiosare si siano domandate perché un gentiluomo come lui perdesse il suo tempo con una persona insignificante come me.
Zacharie mi portò due gardenie, che Loula mi applicò sulla scollatura, e andammo al Teatro dell'Opera. Quella sera davano un'opera del compositore Saint-Georges, figlio di un piantatore della Guadalupa e della sua schiava africana. Re Luigi XVI lo aveva nominato direttore dell'Opera di Parigi, ma non era durato molto, perché dive e tenori si rifiutavano di cantare sotto la sua direzione. Così mi raccontò Zacharie. Forse nessuno dei bianchi del pubblico, che applaudirono tanto, sapeva che la musica era di un mulatto. Avevamo i posti migliori nella parte riservata alla gente di colore, secondo piano al centro. L'aria densa del teatro sapeva di alcol, sudore e tabacco, ma io sentivo solo il profumo delle mie gardenie. Nelle gallerie c'erano diversi kaintocks che interrompevano con schiamazzi, ma poi, finalmente, furono mandati via a spintoni e la musica potè continuare. Dopo andammo al Salone Orleans, dove suonavano valzer, quadriglie e polche, gli stessi balli che a bacchettate avevano imparato Maurice e Rosette. Zacharie mi guidò senza pestarmi i piedi né travolgere altre coppie, dovevamo fare le figure nella pista senza sbattere le ali né dimenare la coda. C'erano alcuni uomini bianchi, ma nessuna donna bianca, e Zacharie era il più nero, a parte i musicisti e i camerieri, e anche il più bello. Superava tutti in altezza, ballava come se stesse ondeggiando e sorrideva con i suoi denti perfetti.
Rimanemmo nella sala da ballo una mezz'ora, ma siccome Zacharie si rese conto che io lì non c'entravo niente ce ne andammo. La prima cosa che feci dopo essere salita in carrozza fu togliermi le scarpe.
Finimmo vicino al fiume, in una stradina discreta lontano dal centro. Mi stupì il fatto che lì davanti ci fossero diverse carrozze con . lacchè addormentati a cassetta, come se stessero aspettando da un bel po'. Ci fermammo davanti a un muro ricoperto di edera e a una porta angusta, mal illuminata da un lampione e vigilata da un bianco armato con due pistole che salutò rispettosamente Zacharie. entrammo in un cortile in cui c'era una dozzina di cavalli sellati e udimmo gli accordi di un orchestra. La casa, che non era visibile dalla strada, era piuttosto grande ma senza pretese, con l'interno nascosto da spessi tendaggi alle finestre.
«Benvenuta a Chez Fleur, la casa da gioco più famosa di New Orleans» mi annunciò Zacharie con un gesto che comprese tutta la facciata.
Subito dopo ci ritrovammo in un ampio salone. Nella nuvola di fumo dei sigari vidi uomini bianchi e di colore, alcuni ai tavoli da gioco, altri che bevevano e altri ancora che ballavano con donne scollate. Qualcuno ci mise delle coppe di champagne in mano. Non riuscivamo a procedere, perché a ogni passo fermavano Zacharie per salutarlo.
All'improvviso scoppiò una rissa tra alcuni giocatori e Zacharie fece per intervenire, ma fu anticipato da una persona gigantesca con una massa di capelli duri come paglia secca, un sigaro fra i denti e stivali da boscaiolo, che distribuì sonori ceffoni mettendo fine al litigio. Due minuti più tardi gli uomini erano seduti con le carte in mano, scherzando, come se non fossero stati appena schiaffeggiati. Zacharie mi presentò la persona che aveva ripristinato l'ordine. Pensai che fosse un uomo con i seni, ma risultò essere una donna con peli sul volto. Aveva un delicato nome da fiore e da uccello che non corrispondeva al suo aspetto: Fleur Hirondelle.
Zacharie mi spiegò che con il denaro che aveva risparmiato per anni per comprarsi la sua libertà, e che si era portato via quando se n'era andato da Saint-Domingue, e grazie a un prestito della banca ottenuto dalla sua socia Fleur Hirondelle, erano riusciti a comprare la casa, che era in cattive condizioni, e l'avevano sistemata con tutte le comodità e persino con un certo lusso. Non avevano problemi con le autorità, perché una parte dell'incasso veniva destinata alle bustarelle. Vendevano liquori e cibo, c'era la musica allegra di due orchestre e offrivano le dame della notte più vistose della Louisiana. Non erano dipendenti della casa, ma artiste indipendenti, perché Chez Fleur non era un lupanare: di quelli ce n'erano molti in città e non ce n'era bisogno di uno in più. Ai tavoli si perdevano e a volte si vincevano somme enormi, ma il grosso rimaneva nella casa da gioco. Chez Fleur era un buon affare, anche se stavano ancora pagando il prestito e avevano molte spese.
«Il mio sogno è di avere varie case da gioco, Zarité. È ovvio che per ottenere il denaro avrei bisogno di altri soci bianchi, come Fleur Hirondelle.»
«Lei è bianca? Sembra un indio.»
«Francese di razza pura, ma bruciata dal sole.»
«Hai avuto fortuna con lei, Zacharie. Avere un socio non conviene, è meglio pagare qualcuno perché faccia da prestanome. Madame Violette fa così per raggirare la legge. Don Sancho ci mette il nome, ma lei non lo lascia curiosare nei suoi affari.»
Nel locale ballai a modo mio e la notte passò volando. Quando Zacharie mi riportò a casa stava albeggiando. Dovette sostenermi per un braccio, perché mi girava la testa per la contentezza e lo champagne, che non avevo mai assaggiato prima. «Erzuli, loa dell'amore, non permettere che mi innamori di quest'uomo, perché soffrirò» pregai quella notte, pensando a come le donne lo guardavano nel Salone Orleans e gli si offrivano al Chez Fleur.
Dal finestrino della carrozza vedemmo padre Antoine che tornava alla chiesa trascinando i suoi sandali dopo una notte di opere pie. Era sfinito e ci fermammo per accompagnarlo, anche se mi vergognai del mio alito di alcol e del mio vestito scollato. «Vedo che hai festeggiato alla grande il tuo primo giorno di libertà, figliola. Niente di più meritato nel tuo caso che un po' di dissolutezza» fu tutto ciò che disse prima di darmi la sua benedizione.
Come Zacharie mi aveva promesso, quello fu un giorno felice. Così ricordo.