MACANDAL
La storia di Macandal, raccontatale dal marito, fu l'elemento scatenante della demenza di Eugenia, anche se non la causa, perché correva già nelle sue vene: nessuno aveva detto a Toulouse Valmorain, quando a Cuba aspirava alla sua mano, che c'erano diverse dementi nella famiglia Garcia del Solar. Macandal era un boxai appena portato dall'Africa, musulmano, colto, che leggeva e scriveva in arabo e che aveva conoscenze di medicine e di piante. Aveva perso il braccio destro in un orribile incidente nel quale chiunque meno forte di lui sarebbe morto, e siccome non era più utilizzabile nei canneti, il suo padrone lo aveva mandato a occuparsi del bestiame. Girava la regione nutrendosi di latte e frutta, finché non imparò a usare la mano sinistra e le dita dei piedi per tendere trappole e fare nodi; e così potè cacciare roditori, rettili e uccelli. Nella solitudine e nel silenzio recuperò le immagini della sua adolescenza, quando si allenava per la guerra e la caccia, come spettava a un figlio di re: fronte alta, petto in fuori, gambe veloci, occhi all'erta e la lancia impugnata con fermezza. La vegetazione dell'isola era diversa da quella delle regioni incantate della sua gioventù, ma cominciò a provare foglie, radici, cortecce, funghi di vari tipi e scoprì che alcuni servivano per curare, altri per indurre il sonno e stati di trance, e altri ancora per uccidere. Da sempre sapeva che sarebbe fuggito, perché preferiva lasciare la pelle tra i peggiori supplizi piuttosto che continuare a essere uno schiavo; si preparò con cura e attese con pazienza l'occasione propizia. Alla fine si allontanò verso le montagne e da lì diede inizio alla sollevazione di schiavi che avrebbe scosso l'isola come una terribile ventata. Si unì ad altri schiavi fuggiaschi e ben presto gli effetti della sua furia e della sua astuzia furono evidenti: un attacco a sorpresa nella notte più buia, fulgore di torce, colpi di piedi nudi, grida, metallo contro catene, incendi nei canneti. Il nome del mandingo correva di bocca in bocca ripetuto dai neri come una preghiera di speranza. Macandal, il principe della Guinea, si trasformava in uccello, lucertola, mosca, pesce. Lo schiavo legato al palo riusciva a veder passare una lepre in corsa prima di ricevere la frustata che lo avrebbe fatto sprofondare nell'incoscienza: era Macandal, testimone del supplizio. Un'iguana impassibile osservava la ragazza che giaceva violentata fra la polvere. «Alzati, lavati nel fiume e non dimenticare, perché presto tornerò per la vendetta» sibilava l'iguana. Macandal. Galli decapitati, simboli dipinti col sangue, asce sulle porte, una notte senza luna, un altro incendio.
In primo luogo iniziò a morire il bestiame. I coloni attribuirono l'evento a una pianta mortale che cresceva nascosta nei campi e reclutarono, senza risultati, botanici europei e stregoni locali per scoprirla e sradicarla. Poi fu la volta dei cavalli nelle stalle e dei cani feroci e infine morirono famiglie intere. Alle vittime si gonfiava il ventre, si annerivano le gengive e le unghie, si guastava il sangue, si staccava la pelle a brandelli e poi morivano fra atroci dolori. I sintomi non corrispondevano a nessuna malattia fra quelle che devastavano le Antille, e si manifestavano solo fra i bianchi; allora non ci fu più alcun dubbio che si trattasse di veleno. Macandal, ancora Macandal. Vennero colpiti gli uomini bevendo un sorso di liquore, le donne e i bambini per una tazza di cioccolata, tutti gli invitati di un banchetto prima che fosse servito il dolce. Non ci si poteva fidare della frutta degli alberi né di una bottiglia di vino chiusa e nemmeno di una sigaretta, perché non si sapeva in che modo veniva somministrato il veleno. Furono torturati centinaia di schiavi senza che si riuscisse ad appurare come la morte entrava nelle case, finché una ragazzina di quindici anni, una delle tante a cui il mandingo faceva visita di notte sotto forma di pipistrello, davanti alla minaccia di essere bruciata viva fornì l'indizio per trovare Macandal. Fu bruciata comunque e la sua confessione, dopo che si furono inerpicati a piedi come capre per picchi e gole fino alle cime color cenere dove erano vissuti gli antichi cacicchi arahuaco, condusse i soldati alla tana di Macandal. Lo presero vivo. A quel tempo erano morte seimila persone. «È la fine di Macandal» dicevano i bianchi. «Vedremo» sussurravano i neri.
La piazza risultò piccola per il pubblico giunto dalle piantagioni. I grands blancs si sistemarono sotto i loro tendoni, provvisti di spuntini e bevande, i petits blancs si accontentarono dei portici e gli affranchis affittarono i balconi attorno alla piazza, che appartenevano ad altra gente di colore libera. La vista migliore fu riservata agli schiavi, trascinati dai loro padroni da luoghi lontani, perché constatassero che Macandal era semplicemente un povero nero monco che si sarebbe arrostito come un maiale. Ammucchiarono gli africani attorno al rogo, vigilati dai cani, che strattonavano le loro catene, impazziti per l'odore umano. L'alba dell'esecuzione sorse nuvolosa, calda e senza vento. Il tanfo della folla accalcata si mescolava all'odore di zucchero bruciato, di grasso delle fritture e dei fiori selvatici che crescevano attorcigliandosi agli alberi. Diversi frati aspergevano con acqua santa e offrivano una frittella per ogni confessione. Gli schiavi avevano imparato a ingannare i frati con peccati confusi, visto che le colpe ammesse arrivavano direttamente alle orecchie del padrone, ma in quell'occasione nessuno era in vena di frittelle. Attendevano con giubilo Macandal.
Il cielo coperto minacciava pioggia e il governatore calcolò che ci sarebbe stato a malapena tempo sufficiente prima dello scroscio, ma doveva aspettare l'intendente, il rappresentante del governo civile. Finalmente apparvero in uno dei due palchi d'onore l'intendente e sua moglie, un'adolescente oppressa dal pesante vestito, dal cappello piumato e dal disgusto; era l'unica francese di Le Cap che non desiderava trovarsi lì. Suo marito, ancora giovane se pur con il doppio della sua età, aveva gambe arcuate, gran sederone e pancione, ma vantava una bella testa da antico senatore romano sotto l'elaborata parrucca. Un rullo di tamburi annunciò l'apparizione del prigioniero. Lo accolse un coro di minacce e insulti dei bianchi, sbeffeggiamenti dei mulatti e grida di frenetico entusiasmo degli africani. Sfidando i cani, le frustate e gli ordini dei sorveglianti e dei soldati, gli schiavi si misero in piedi, saltando con le braccia al cielo per salutare Macandal. Ciò scatenò una reazione collettiva e persino il governatore e l'intendente si alzarono.
Macandal era alto, molto scuro, con il corpo interamente segnato da cicatrici, appena coperto da pantaloncini lordi e macchiati di sangue secco. Era incatenato, ma a schiena dritta, altero, indifferente. Disdegnò bianchi, soldati, frati e cani; i suoi occhi percorsero lentamente gli schiavi e ognuno di loro seppe che quelle pupille nere lo avevano individuato, consegnandogli il soffio del suo spirito indomabile. Non era uno schiavo colui che si accingevano a giustiziare, bensì l'unico uomo realmente libero tra la folla. Tutti i presenti lo avvertivano e un silenzio profondo calò sulla piazza. Furono i neri a romperlo e un coro incontrollabile ululò il nome dell'eroe, Macandal, Macandal, Macandal. Il governatore capì che era meglio finire in fretta, prima che lo spettacolo progettato si trasformasse in un bagno di sangue; diede il segnale e i soldati incatenarono il prigioniero al palo del rogo. Il boia accese la paglia e subito dopo la legna unta prese ad ardere, sollevando una densa nuvola di fumo. Non si udiva nemmeno un sospiro nella piazza quando si levò la voce profonda di Macandal: «Tornerò! Tornerò!».
Cosa accadde poi? Per il resto della sua storia questa sarebbe stata la domanda più frequente sull'isola, come erano soliti raccontare i coloni. Bianchi e mulatti videro Macandal liberarsi dalle catene e saltare oltre i tronchi ardenti; i soldati però gli si avventarono sopra, lo piegarono a suon di botte e lo condussero di nuovo sul rogo, dove qualche minuto più tardi venne inghiottito dalle fiamme e dal fumo. I neri videro Macandal liberarsi dalle catene e saltare oltre i tronchi ardenti; e quando i soldati gli si avventarono sopra, si trasformò in una zanzara e fuggì volando attraverso la nuvola di fumo, fece un giro completo della piazza, perché tutti riuscissero a congedarsi da lui, e poi si perse nel cielo, appena prima dello scroscio che inzuppò il rogo e spense il fuoco. I bianchi e gli affranchis videro il corpo bruciacchiato di Macandal. I neri videro solo il palo vuoto. I primi si ritirarono correndo sotto la pioggia e gli altri rimasero a cantare, lavati dall'acquazzone. Macandal aveva vinto e avrebbe mantenuto la sua promessa. Macandal sarebbe tornato. E per questo motivo, perché era necessario estirpare per sempre quell'assurda leggenda, come aveva detto Valmorain alla sua squilibrata moglie, bisognava andare con gli schiavi ad assistere a un'altra esecuzione a Le Cap, ventitré anni dopo.
La lunga carovana procedeva vigilata da quattro soldati con i moschetti, Prosper Cambray e Toulouse Valmorain con le pistole e alcuni commandeurs che, in quanto schiavi, avevano solo sciabole e machete. Non ci si poteva fidare di loro, in caso di attacco potevano unirsi ai fuggiaschi. I neri, magri e affamati, avanzavano molto lentamente, coi loro carichi sulle spalle, uniti da una catena che ostacolava la marcia; al padrone tutto ciò sembrava eccessivo, ma non poteva esautorare il capo dei sorveglianti. «Nessuno tenterà di fuggire, i neri temono più i demoni della giungla che le bestie velenose» spiegò Valmorain a sua moglie, ma Eugenia non voleva saperne né di neri né di demoni o bestie. La piccola Tété non era legata e camminava a fianco della portantina della padrona, condotta da due schiavi scelti tra i più forti. Il sentiero si perdeva nel groviglio della vegetazione e del fango, e la processione di viaggiatori era un triste serpente che strisciava verso Le Cap in silenzio. Di tanto in tanto un latrato di cani, un nitrito di cavalli o il sibilo secco di una frustata e un grido interrompevano il mormorio del respiro umano e il rumore del bosco. All'inizio Prosper Cambray pretendeva che gli schiavi camminassero cantando per farsi forza e impaurire i serpenti, come facevano nei canneti, ma Eugenia, intontita dalla nausea e dalla stanchezza, non lo sopportava.
Nel bosco imbruniva presto sotto la fitta chioma degli alberi e albeggiava tardi per via della nebbiolina intrappolata tra le felci. Il giorno risultava breve per Valmorain, che aveva fretta, ma eterno per gli altri. L'unico alimento per gli schiavi era un impasto di mais o patata dolce con carne secca e una scodella di caffè, che venivano distribuiti la sera, quando ci si accampava. Il padrone aveva ordinato di aggiungere al caffè una zolletta di zucchero e uno spruzzo di tafia, l'acquavite di canna dei poveri, per riscaldarli, dato che dormivano ammucchiati per terra, zuppi di pioggia e rugiada, esposti all'assalto delle febbri. Quell'anno le epidemie nella piantagione erano state devastanti: si erano dovuti rimpiazzare molti schiavi e nessuno dei neonati era sopravvissuto. Cambray avvisò il padrone che il liquore e il dolce corrompevano gli schiavi e poi non c'era modo di evitare che succhiassero la canna. Esisteva una pena speciale per quel reato, ma Valmorain non era favorevole ai tormenti complicati, salvo che per le fughe, caso in cui seguiva alla lettera il Codice Nero. L'esecuzione dei fuggitivi a Le Cap gli sembrava una perdita di tempo e denaro: sarebbe stato sufficiente impiccarli senza tante scene.
I soldati e i commandeurs facevano i turni di notte per sorvegliare l'accampamento e i falò, che tenevano lontani gli animali e rassicuravano la gente. Nessuno era tranquillo al buio. I padroni dormivano su amache all'interno di una grande tenda di olona cerata, con i bauli e alcuni mobili. Eugenia, prima golosa, ora aveva l'appetito di un uccellino, ma si sedeva cerimoniosamente a tavola, perché rispettava ancora l'etichetta. Quella sera occupava una sedia di velluto blu, era vestita di raso, con i capelli sporchi raccolti in una crocchia e sorseggiava limonata con rum. Davanti a lei, il marito senza giubba, con la camicia aperta, barba incipiente e gli occhi arrossati, beveva il liquore direttamente dalla bottiglia. La donna a malapena riusciva a contenere la nausea davanti ai piatti: agnello cucinato con salsa piccante e spezie per nascondere il cattivo odore del secondo giorno di viaggio, fagioli, riso, torte salate di mais e frutta sciroppata. Tété le faceva aria con il ventaglio senza poter evitare di provare compassione. Si era affezionata a dona Eugenia, come lei preferiva essere chiamata. La padrona non la picchiava e le confidava le sue pene, anche se all'inizio Tété non la capiva, perché le parlava in spagnolo. Le raccontava di come suo marito l'aveva corteggiata a Cuba con galanterie e regali e che solo dopo, a Saint-Domingue, aveva mostrato il suo vero carattere: era corrotto dal cattivo clima e dalla magia dei neri, come tutti i coloni delle Antille. Lei, invece, era della migliore società di Madrid, di famiglia nobile e cattolica. Tété non immaginava come poteva essere la padrona in Spagna o a Cuba, ma notava che si stava sciupando a vista d'occhio. Quando l'aveva conosciuta, Eugenia era una ragazza robusta pronta ad adattarsi alla sua vita di sposa novella, ma in pochi mesi le si era ammalata l'anima. Si spaventava per tutto e piangeva per niente.