IL MALE SPAGNOLO



Toulouse Valmorain arrivò a Saint-Domingue nel 1770, lo stesso anno in cui il Delfino di Francia sposò l'arciduchessa austriaca Maria Antonietta. Prima di partire per la colonia, quando ancora non sospettava che il destino si sarebbe beffato di lui facendolo finire sepolto tra i canneti nelle Antille, era stato invitato a Versailles a una delle feste in onore della nuova Delfina, una ragazzina bionda di quattordici anni che sbadigliava ostentatamente nonostante il rigido protocollo della corte francese.

Tutto ciò riguardava il passato. Saint-Domingue era un altro mondo. Il giovane Valmorain aveva un'idea piuttosto vaga del luogo in cui suo padre impastava alla bell'e meglio il pane di famiglia con l'ambizione di trasformarlo in un tesoro. Aveva letto da qualche parte che gli abitanti originari dell'isola, gli arahuaco, la chiamavano Haiti prima che i conquistadores le cambiassero il nome in La Espanda e massacrassero tutti i nativi. In meno di cinquantanni non era rimasta nemmeno l'ombra di un arahuaco: erano morti tutti, vittime della schiavitù, delle malattie portate dai bianchi e suicidi. Erano uomini dalla pelle rossastra, capelli spessi e neri, dall'imperturbabile dignità, così miti che uno spagnolo da solo poteva batterne dieci a mani nude. Vivevano in comunità poligame, coltivando con cura la terra per non esaurirla: patate dolci, mais, zucche, arachidi, peperoni, patate e manioca. La terra, come il cielo e l'acqua, non ebbe padrone fino a quando gli stranieri non se ne impossessarono per coltivare piante mai viste grazie al lavoro forzato degli arahuaco. A quei tempi ebbe inizio l'usanza di aperrear, uccidere persone indifese aizzando contro di loro i perros, i cani. Quando ebbero sterminato gli indigeni, importarono gli schiavi rapiti in Africa e i bianchi dall'Europa, galeotti, orfani, prostitute e ribelli.

Alla fine del 1600 la Spagna aveva ceduto la parte occidentale dell'isola alla Francia, che l'aveva chiamata Saint-Domingue e che sarebbe diventata la colonia più ricca del mondo. All'epoca in cui Toulouse Valmorain arrivò lì, un terzo delle esportazioni della Francia, grazie a zucchero, caffè, tabacco, cotone, indaco e cacao, proveniva da quell'isola. Ormai non c'erano più schiavi bianchi, e quelli neri ammontavano a centinaia di migliaia. La canna da zucchero, l'oro dolce della colonia, era il prodotto più duro da coltivare; tagliare la canna, triturarla e ridurla a sciroppo non era lavoro da esseri umani ma da bestie, come sostenevano i piantatori.

Valmorain aveva appena compiuto vent'anni quando venne richiamato alla colonia tramite una pressante lettera dell'agente commerciale di suo padre. Al momento dello sbarco era vestito all'ultima moda, polsini di pizzo, parrucca incipriata e scarpe con i tacchi alti, ed era certo che le sue letture di testi sulle esplorazioni lo rendessero in grado di sostituire suo padre come consulente per qualche settimana. Viaggiava con un valet, aitante quasi quanto lui, vari bauli per il guardaroba e i molti libri. Si definiva un uomo di lettere e pensava di dedicarsi alla scienza una volta rientrato in Francia. Ammirava i filosofi e gli enciclopedisti, che tanta influenza avevano avuto in Europa negli ultimi decenni, e concordava con alcune delle loro idee liberali; a diciott'anni Il contratto sociale di Rousseau era stato il suo testo di riferimento. Appena sbarcato, dopo una traversata che, quando dovettero fronteggiare un uragano nei Caraibi, per poco non finì in tragedia, ebbe la prima spiacevole sorpresa: il suo progenitore non era ad aspettarlo al porto. Lo accolse l'agente, un ebreo gentile, vestito di nero dalla testa ai piedi, che lo mise al corrente delle precauzioni necessarie per spostarsi sull'isola, gli fornì i cavalli, un paio di muli per i bagagli, una guida e un miliziano che li accompagnassero alla habitation Saint-Lazare. Il giovane non aveva mai messo piede fuori dalla Francia e aveva prestato ben poca attenzione agli aneddoti - banali, peraltro - che il padre era solito raccontare nel corso delle sue sporadiche visite alla famiglia a Parigi. Non aveva mai immaginato che un giorno si sarebbe recato alla piantagione; il tacito accordo prevedeva che il padre avrebbe consolidato la sua fortuna sull'isola, mentre lui si sarebbe occupato di sua madre e delle sorelle supervisionando gli affari in Francia. La lettera che aveva ricevuto alludeva a problemi di salute del padre; aveva ipotizzato che si trattasse di una febbre passeggera, ma quando arrivò a Saint-Lazare, dopo aver viaggiato senza sosta un giorno intero attraverso una natura vorace e ostile, si rese conto che suo padre stava morendo. Non soffriva di malaria, come aveva pensato, ma di sifilide, che devastava allo stesso modo bianchi, neri e mulatti. La malattia aveva raggiunto l'ultimo stadio e suo padre era quasi completamente invalido, coperto di pustole, con i denti indeboliti e la mente annebbiata. Le cure da inferno dantesco a base di salassi, mercurio e cauterizzazioni del pene con filo di ferro arroventato non gli avevano giovato, ma continuava a sottoporvisi come atto di contrizione. Aveva appena compiuto cinquantanni e si era trasformato in un vecchio che dava ordini assurdi, urinava senza controllo e se ne stava su un'amaca con i suoi animali da compagnia, un paio di ragazzine di colore che avevano a malapena raggiunto la pubertà.

Mentre gli schiavi disfacevano i bagagli sotto la direzione del valet, un damerino che aveva sopportato a fatica la traversata in nave e molto spaventato dalle condizioni primitive del luogo, Toulouse Valmorain uscì a visitare la vasta proprietà. Non sapeva nulla della coltivazione della canna, ma quel giro gli fu sufficiente per comprendere che gli schiavi erano denutriti e la piantagione si era salvata dalla rovina solo perché il mondo consumava zucchero con crescente voracità. Nei libri contabili trovò la spiegazione del cattivo stato delle finanze di suo padre, che non riusciva a mantenere la famiglia a Parigi con il decoro che si confaceva alla sua posizione. La produzione era disastrosa e gli schiavi morivano come mosche; non c'era alcun dubbio che i sorveglianti rubavano approfittando del drammatico deteriorarsi della salute del padrone. Maledisse la propria sorte e si preparò a rimboccarsi le maniche e a lavorare, circostanza che nessun giovane del suo rango desiderava affrontare: il lavoro era per un'altra categoria di persone. Per prima cosa ottenne un sostanzioso prestito grazie all'appoggio e alla fiducia di banchieri legati all'agente commerciale di suo padre, poi mandò i commandeurs ai canneti, a lavorare gomito a gomito con gli stessi uomini che prima avevano martirizzato e li rimpiazzò con altri meno depravati, ridusse i castighi e assunse un veterinario, che trascorse due mesi a Saint-Lazare cercando di restituire un po' di salute ai neri. Il veterinario non potè tuttavia salvare il suo valet, che una diarrea fulminante fece fuori in meno di trentotto ore. Valmorain si rese conto che gli schiavi di suo padre resistevano in media diciotto mesi prima di scappare o di schiattare di fatica, molto meno tempo che in altre piantagioni. Le donne vivevano più degli uomini, ma rendevano meno nel lavoro estenuante nei canneti e avevano la cattiva abitudine di rimanere incinte. Siccome ben pochi bambini sopravvivevano, i piantatori avevano calcolato che non conveniva avere schiave. Il giovane Valmorain, intenzionato ad andarsene molto presto, realizzò i cambiamenti necessari in modo automatico, senza progetti e con rapidità, ma quando, qualche mese più tardi, suo padre morì, dovette affrontare l'ineludibile evidenza di essere finito in trappola. Non intendeva tirare le cuoia in quella colonia infestata dalle zanzare, ma se fosse partito prima del tempo avrebbe perso la piantagione e con essa le entrate e la posizione sociale della sua famiglia in Francia.

Valmorain non cercò la frequentazione degli altri coloni. I grands blancs, proprietari di altre piantagioni, lo consideravano un presuntuoso che non sarebbe durato molto sull'isola, motivo per cui si stupirono vedendolo con gli stivali sporchi di fango e bruciato dal sole. L'antipatia era reciproca. Per Valmorain quei francesi trapiantati nelle Antille erano zotici, l'estremo opposto della società da lui frequentata, dove si esaltavano le idee, le scienze e le arti e nessuno parlava né di denaro né di schiavi. Dall’“età della ragione” di Parigi era passato a immergersi in un mondo primitivo e violento, in cui vivi e morti andavano a braccetto. Non strinse amicizia nemmeno con i petits blancs, il cui unico capitale era il colore della pelle, poveri diavoli avvelenati dall'invidia e dalla maldicenza, come sosteneva lui. Provenivano dai quattro punti cardinali e non c'era modo di verificare la purezza del loro sangue o il loro passato. Nel migliore dei casi erano mercanti, artigiani, frati di scarsa virtù, marinai, militari e funzionari di basso rango, ma c'erano anche malviventi, magnaccia, criminali e bucanieri che utilizzavano qualsiasi ansa dei Caraibi per le loro scorribande. Lui non aveva nulla da spartire con quella gente.

All'interno del gruppo dei mulatti liberi, o affranchis, esistevano più di sessanta categorie a seconda della percentuale di sangue bianco, che ne determinava il livello sociale. Valmorain non riuscì mai a distinguere le tonalità né a imparare la denominazione di ogni combinazione delle due razze. Gli affranchis erano privi di potere politico, ma maneggiavano molto denaro, motivo per cui i bianchi poveri li odiavano. Alcuni si guadagnavano da vivere con traffici illeciti, dal contrabbando alla prostituzione, ma altri erano stati educati in Francia e possedevano fortuna, terre e schiavi. Al di là dei sottili distinguo sul colore, i mulatti erano uniti dall'aspirazione comune di passare per bianchi e dal disprezzo viscerale per i neri. Gli schiavi, che erano dieci volte più numerosi rispetto ai bianchi e agli affranchis messi assieme, non contavano nulla, né per il censimento della popolazione né nella coscienza dei coloni.

Dato che non gli conveniva isolarsi del tutto, Toulouse Valmorain frequentava di tanto in tanto alcune famiglie di grands blancs a Le Cap, la città più vicina alla sua piantagione. Durante quegli spostamenti comperava i rifornimenti necessari e, se non poteva evitarlo, passava dall'Assemblea coloniale a salutare i suoi pari, così almeno non avrebbero dimenticato il suo cognome, senza però prendere parte alle sedute. Ne approfittava anche per vedere qualche commedia a teatro, andare alle feste delle cocottes - le esuberanti cortigiane francesi, spagnole e di razza mista, signore della vita notturna - e frequentare esploratori e scienziati che si fermavano sull'isola, di passaggio verso luoghi di maggiore interesse. Saint-Domingue non attirava visitatori, ma a volte ne arrivava qualcuno per studiare la natura o l'economia delle Antille, e Valmorain lo invitava a Saint-Lazare con l'intenzione di riassaporare, anche solo per poco, il piacere della conversazione elevata che aveva insaporito i suoi anni parigini. Tre anni dopo la morte del padre poteva mostrare loro la proprietà con orgoglio; aveva trasformato quello sconquasso di neri malati e canneti rinsecchiti in una delle piantagioni più prospere tra le ottocento dell'isola, aveva moltiplicato per cinque il volume di zucchero grezzo per l'esportazione e predisposto una distilleria in cui produceva barrique selezionati di un rum molto più raffinato di quello che era solito bere in Francia. I suoi ospiti trascorrevano una o due settimane nella rustica dimora in legno, imbevendosi della vita di campagna e apprezzando da vicino la magica invenzione dello zucchero. Passeggiavano a cavallo tra i pascoli verdeggianti che sibilavano minacciosi per il vento, protetti dal sole da grandi cappelli di paglia e boccheggiando nella bollente umidità dei Caraibi, mentre gli schiavi, come esili ombre, tagliavano le piante raso terra senza estirpare la radice, affinché seguissero altri raccolti. Da lontano, sembravano insetti tra i disuguali canneti alti il doppio di loro. Pulire le dure canne, tritarle nelle macchine dentate, spremerle nelle presse e bollire il succo in capienti calderoni di rame per ottenere uno sciroppo scuro risultava uno spettacolo affascinante per quella gente di città che aveva visto solo i candidi cristalli che addolcivano il caffè. Quei visitatori aggiornavano Valmorain sugli eventi in Europa, sempre più remota per lui, sui nuovi progressi tecnologici e scientifici e sulle idee filosofiche di moda. Gli aprivano un pertugio da cui spiare il mondo e gli lasciavano in regalo alcuni libri. Valmorain si godeva la compagnia degli ospiti, ma si godeva ancora di più la loro partenza: non gli piaceva avere testimoni nella sua vita né nella sua proprietà. Gli stranieri osservavano la schiavitù con un misto di repulsione e morbosa curiosità che a lui risultava offensivo perché si reputava un padrone giusto: se avessero saputo come altri piantatori trattavano i loro neri, sarebbero stati d'accordo con lui. Sapeva che più d'uno sarebbe tornato alla civiltà convertito in abolizionista e pronto a sabotare il consumo di zucchero. Anche lui, prima che si fosse visto obbligato a vivere sull'isola, sarebbe rimasto impressionato dalla schiavitù se ne avesse conosciuto i dettagli, ma suo padre non aveva mai toccato l'argomento. Ora, con centinaia di schiavi a carico, le sue idee al riguardo erano cambiate.

I primi anni Toulouse Valmorain li dedicò a riscattare Saint-Lazare dalla devastazione e non potè viaggiare fuori dalla colonia nemmeno una volta. Perse i contatti con sua madre e le sorelle, salvo per sporadiche lettere dal tono formale che riferivano solo le banalità dell'esistenza quotidiana e della salute.

Aveva messo alla prova un paio di amministratori venuti dalla Francia - i creoli avevano fama di essere corrotti - ma era stato un fallimento: uno era morto per un morso di serpente e l'altro si era abbandonato alla tentazione del rum e delle concubine, finché non era arrivata sua moglie a recuperarlo e a portarselo via senza appello. Ora stava provando Prosper Cambray che, come tutti gli affranchis nella colonia, aveva prestato servizio i tre anni regolamentari nella milizia - la Marechaussée - incaricata di far rispettare la legge, mantenere l'ordine, riscuotere le tasse e inseguire gli schiavi fuggiaschi. Cambray non aveva una fortuna né dei padrini e aveva scelto di guadagnarsi da vivere con l'ingrato mestiere di dare la caccia ai neri in quella geografia assurda di giungla ostile e ripide montagne, dove nemmeno i muli procedevano con sicurezza. Era di pelle giallastra, segnata dal vaiolo, con i capelli ricci color ruggine, gli occhi verdastri, sempre irritati, e una voce ben modulata e morbida, che contrastava beffardamente con il suo carattere brutale e il fisico da scagnozzo. Esigeva un abietto servilismo da parte degli schiavi e al tempo stesso era strisciante con chi stava sopra di lui. All'inizio cercò di guadagnarsi la stima di Valmorain con l'inganno, ma ben presto comprese che li separava un abisso di razza e di classe. Valmorain gli offrì una buona retribuzione, l'opportunità di esercitare l'autorità e la prospettiva di essere promosso ulteriormente. Valmorain dispose allora di più tempo per leggere, andare a caccia e recarsi a Le Cap. Aveva conosciuto Violette Boisier, la cocotte più ricercata della città, una ragazza libera, con la reputazione di essere pulita e sana, con un po' di sangue africano e l'aspetto da bianca. Con lei, per lo meno, non sarebbe finito come suo padre, con il sangue guastato dal “male spagnolo”.

L'isola sotto il mare
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