UCCELLO DELLA NOTTE
Violette Boisier era a sua volta figlia di una cortigiana, una magnifica mulatta morta a ventinove anni infilzata dalla sciabola di un ufficiale francese - probabilmente il padre di Violette, anche se l'ipotesi non fu mai confermata - sconvolto dalla gelosia. Violette aveva iniziato a esercitare la professione a undici anni sotto l'occhio vigile della madre; a tredici, quando lei venne assassinata, padroneggiava già le squisite arti del piacere, e a quindici superava tutte le rivali. Valmorain preferiva non pensare con chi si sollazzasse la sua petite amie in sua assenza, visto che non era disposto ad averla in esclusiva. Si era incapricciato di Violette, movimento e allegria allo stato puro, ma era dotato di sufficiente sangue freddo per dominare la fantasia, a differenza del militare che aveva ucciso la madre e rovinato la propria carriera e il proprio nome. Si accontentava di portarla a teatro e a feste per uomini alle quali non partecipavano donne bianche e in cui la sua radiosa bellezza attirava gli sguardi. L'invidia che provocava negli altri uomini esibendosi con lei al braccio gli procurava una soddisfazione perversa; molti avrebbero sacrificato l'onore pur di passare una notte intera con Violette, invece di una o due ore, com'era nei patti, ma quel privilegio era esclusivamente suo. O almeno così credeva.
La ragazza disponeva di un appartamento con tre stanze e un balcone con una ringhiera in ferro battuto che riproduceva dei gigli al secondo piano di un edificio in piazza Clugny, unica eredità lasciatale dalla madre, a parte alcuni vestiti adatti alla professione. Lì risiedeva con un certo lusso in compagnia di Loula, una schiava africana, grossa e mascolina che fungeva da serva e guardia del corpo.
Violette trascorreva le ore più calde riposandosi o dedicandosi alla sua bellezza: massaggi con latte di cocco, depilazione con caramello, impacchi di olio per i capelli, infusi di erbe per schiarire la voce e lo sguardo. In alcuni momenti di ispirazione preparava con Loula unguenti per la pelle, sapone di mandorle, pomate e polveri da trucco che vendeva alle sue amicizie femminili. Le sue giornate passavano lente e oziose. Al tramonto, quando i raggi indeboliti del sole non potevano più macchiarle la pelle, usciva a passeggio a piedi, se il clima lo permetteva, o su una portantina a mano condotta da due schiavi che noleggiava da una vicina; così evitava di sporcarsi con lo sterco di cavallo, la spazzatura e il fango delle strade di Le Cap. Si vestiva in modo discreto per non offendere le altre donne: né le bianche né le mulatte tolleravano di buon grado tanta concorrenza. Si recava nei negozi per fare acquisti e al molo per procurarsi articoli di contrabbando dai marinai, faceva visita alla modista, al parrucchiere e alle amiche. Con la scusa di prendere un succo di frutta si tratteneva all'hotel o in qualche caffè, dove non mancava mai un gentiluomo disposto a invitarla al suo tavolo. Conosceva intimamente i bianchi più potenti della colonia, incluso il militare di maggior rango, il governatore. Poi tornava a casa a prepararsi per l'esercizio della sua professione, operazione complicata che richiedeva un paio d'ore. Possedeva abiti di tutti i colori dell'arcobaleno in stoffe vistose dell'Europa e dell'Oriente, scarpette e borse coordinate, cappelli con le piume, scialli ricamati in Cina, mantelline di pelliccia da usare come strascichi, perché il clima non permetteva di indossarle, e uno scrigno di gioielli di bigiotteria. Ogni notte, il fortunato amico di turno - non si chiamava cliente - la portava a qualche spettacolo e a cena, poi a una festa che durava fino al mattino e infine l'accompagnava a casa sua, dove lei si sentiva al sicuro, perché Loula dormiva su un pagliericcio a portata di voce e in caso di necessità poteva liberarsi di un uomo violento. Il suo prezzo era noto e non si citava; il denaro veniva lasciato in una scatola laccata sul tavolo, e l'appuntamento successivo dipendeva dalla mancia.
In un vano tra due assi della parete, che solo Loula conosceva, Violette teneva nascosto un astuccio di pelle scamosciata con le sue pietre preziose, alcune delle quali regalatele da Toulouse Valmorain, di cui si poteva dire tutto tranne che fosse avaro, e alcune monete d'oro acquistate poco alla volta, i suoi risparmi per il futuro. Preferiva monili di bigiotteria, per non tentare i ladri né suscitare chiacchiere, ma indossava i gioielli quando usciva con chi glieli aveva regalati. Portava sempre un modesto anello di opale in stile antico, che le aveva messo al dito come simbolo di fidanzamento Etienne Relais, un ufficiale francese. Lo vedeva molto di rado, perché passava l'esistenza a cavallo, al comando del suo reparto, ma se si trovava a Le Cap lei spostava gli appuntamenti per stare con lui. Relais era l'unico con il quale poteva abbandonarsi all'incantesimo di sentirsi protetta. Toulouse Valmorain non sospettava di condividere con quel rude soldato l'onore di passare l'intera notte con Violette. Lei non dava spiegazioni e non aveva mai dovuto scegliere, perché i due non si erano mai trovati in città nello stesso momento.
«Cosa devo fare con questi due uomini che mi trattano come una fidanzata?» chiese Violette a Loula una volta.
«Queste cose si risolvono da sole» rispose la schiava, aspirando a fondo la sua sigaretta di tabacco grezzo.
«O si risolvono con il sangue. Pensa a mia madre.»
«A te non succederà, angelo mio, perché ci sono qua io a prendermi cura di te.»
Loula aveva ragione: il tempo si incaricò di eliminare uno dei pretendenti. Nel giro di un paio d'anni, la relazione con Valmorain si tramutò in un'affettuosa amicizia priva della passione dei primi mesi, quando lui galoppava fino a far schiattare il cavallo pur di abbracciarla. I regali costosi si diradarono e a volte lui si recava a Le Cap senza dar segno di volerla vedere. Violette non glielo rimproverò, perché aveva sempre avuto chiari i limiti di quella relazione, ma tenne vivi i contatti, di cui potevano beneficiare entrambi.
Il capitano Etienne Relais godeva della fama di incorruttibile in un ambiente in cui il vizio era la norma, l'onore in vendita, le leggi si facevano per poi violarle e si partiva dal presupposto che chi non abusava del potere non meritava di averlo. La sua integrità gli aveva impedito di arricchirsi come altri nella stessa posizione e nemmeno la tentazione di accumulare quanto bastava per ritirarsi in Francia, come aveva promesso a Violette Boisier, riuscì a farlo deviare da quella che considerava rettitudine militare. Non esitava a sacrificare i suoi uomini in una battaglia o a torturare un bambino per ottenere informazioni dalla madre, ma mai avrebbe messo le mani su denaro che non fosse stato guadagnato onestamente. Era puntiglioso in materia d'onore e d'onorabilità. Desiderava portare Violette dove non li conoscevano, dove nessuno potesse sospettare che lei si era guadagnata da vivere grazie a pratiche di scarsa virtù e non fosse evidente la sua razza mista: bisognava avere l'occhio allenato nelle Antille per scorgere il sangue africano che scorreva sotto la sua pelle chiara.
A Violette non allettava troppo l'idea di andare in Francia, perché temeva più gli inverni gelati delle malelingue, dalle quali era immune, ma aveva accettato lo stesso di accompagnarlo. Stando ai calcoli di Relais, vivendo in modo frugale e accettando missioni molto rischiose, per le quali si offriva una lauta ricompensa così da fare carriera rapidamente, avrebbe potuto realizzare il suo sogno. Sperava che per quell'epoca Violette fosse maturata e non attirasse tanto l'attenzione con l'insolenza della sua risata, il luccichio troppo malizioso dei suoi occhi neri e l'ondeggiare ritmico del suo incedere. Non sarebbe mai passata inosservata, ma forse avrebbe potuto assumere il ruolo di sposa di un militare in pensione. Madame Relais... Assaporava quelle due parole, le ripeteva come incantato. La decisione di sposarsi con lei non era stata il risultato di una strategica e accurata riflessione, come avveniva per il resto della sua esistenza, bensì il frutto di una premonizione così forte da non metterla mai in dubbio. Non era un uomo sentimentale, ma aveva imparato a fidarsi del suo istinto, così utile in guerra.
Aveva conosciuto Violette un paio d'anni prima, in pieno mercato domenicale, in mezzo al vociare dei venditori e all'ammasso di persone e animali. In un misero teatro, che consisteva solo in una piattaforma riparata da una tenda di stracci viola, si pavoneggiava un tipo dai baffi esagerati, tatuato con arabeschi, mentre un bambino decantava a squarciagola le facoltà del più portentoso mago di Samarcanda. Quella patetica messinscena non avrebbe richiamato l'attenzione del capitano senza la splendente presenza di Violette. Quando il mago richiese un volontario del pubblico, lei si fece largo tra i curiosi e salì sul tavolato con entusiasmo infantile, ridendo e salutando con il ventaglio. Aveva da poco compiuto quindici anni, ma aveva già il corpo e i modi di una donna fatta, come era solito succedere in quel clima in cui le bambine, come la frutta, maturano presto. Obbedendo alle istruzioni dell'illusionista, Violette si rannicchiò all'interno di un baule imbrattato di simboli egizi, Il banditore, un negretto di dieci anni travestito da turco, chiuse il coperchio con due robusti lucchetti, e un altro spettatore fu chiamato a controllarne la resistenza. Il mago di Samarcanda fece alcune mosse con il mantello e subito dopo consegnò due chiavi al volontario per aprire i lucchetti. Quando si sollevò il coperchio del baule tutti videro che la ragazza non era più dentro, ma qualche momento più tardi un rullo di tamburo del negretto annunciò la sua prodigiosa apparizione alle spalle del pubblico. Tutti si girarono per ammirare a bocca aperta la ragazza che si era materializzata dal nulla e che si sventagliava, con una gamba appoggiata a un barile.
Sin dalla prima occhiata Etienne Relais capì che non sarebbe riuscito a strapparsi dall'anima quella ragazza di miele e seta. Sentì che qualcosa scoppiava nel suo corpo, la bocca gli si seccò e la testa cominciò a girargli. Dovette fare uno sforzo per tornare alla realtà e rendersi conto che si trovava al mercato, in mezzo alla gente. Cercando di controllarsi, aspirò a boccate l'umidità del mezzogiorno e il fetore di pesce e carne che maceravano sotto il sole, di frutta marcia, spazzatura e merda di animale. Non conosceva il nome della bella, ma immaginò che sarebbe stato facile scoprirlo, e dedusse che non era sposata, perché nessun marito le avrebbe permesso di mostrarsi con tanta disinvoltura. Era così splendida che tutti gli occhi erano inchiodati su di lei, in modo che nessuno, tranne Relais, abituato a osservare fino al minimo dettaglio, potesse notare il trucco dell'illusionista. In altre circostanze forse avrebbe smascherato il doppio fondo del baule e la botola nel palco, per pura smania di precisione, ma immaginò che la ragazza fosse in combutta con il mago e preferì evitarle una situazione sgradevole. Non rimase per vedere il gitano tatuato che estraeva una scimmia da una bottiglia e decapitava un volontario, come annunciava il bambino banditore. Si fece largo tra la folla a gomitate e partì dietro alla ragazza, che si allontanava di fretta al braccio di un uomo in uniforme, probabilmente un soldato del suo reggimento. Non la raggiunse, perché lo fermò all'improvviso una nera dalle braccia muscolose coperte di braccialetti dozzinali, che gli si piantò davanti e lo ammonì di mettersi in coda, visto che non era l'unico interessato alla sua padrona, Violette Boisier. Alla vista dell'espressione sconcertata del capitano, si chinò per sussurrargli all'orecchio l'ammontare della mancia necessaria grazie alla quale lei lo avrebbe messo al primo posto tra i clienti della settimana. Così venne a sapere di essersi invaghito di una di quelle cortigiane che davano notorietà a Le Cap.
Relais si presentò per la prima volta nell'appartamento di Violette Boisier rigido nell'uniforme appena stirata, con una bottiglia di champagne e un modesto regalo. Depositò il denaro dove Loula gli indicò e si accinse a giocarsi il futuro in due ore. Loula scomparve discretamente e lui rimase solo a sudare nell'aria calda della saletta stipata di mobili, leggermente disgustato dall'aroma dolciastro dei manghi maturi che riposavano su un piatto. Violette non si fece attendere più di un paio di minuti. Entrò scivolando silenziosamente e gli tese le mani, mentre lo studiava con le palpebre socchiuse e un vago sorriso. Relais prese quelle mani lunghe e sottili tra le sue senza sapere quale fosse il passo successivo. Lei si staccò da lui, gli accarezzò il viso, lusingata dal fatto che si fosse rasato per lei, e gli fece cenno di aprire la bottiglia. Il tappo saltò e la schiuma dello champagne uscì con forza prima che lei riuscisse ad avvicinare la coppa, bagnandole il polso. Si passò le dita umide sul collo e Relais sentì l'impulso di leccare le gocce che brillavano su quella pelle perfetta, ma restò inchiodato al suo posto, muto, privo di volontà. Lei servì la coppa e la lasciò, senza assaggiarla, su un tavolino vicino al divano, poi si avvicinò e con dita esperte gli sbottonò la spessa casacca dell'uniforme. «Toglitela, fa caldo. E anche gli stivali» gli indicò, porgendogli una vestaglia cinese con degli aironi dipinti. A Relais parve inadatta, ma se la mise sopra la camicia, lottando con un groviglio di maniche ampie, e poi si sedette sul divano, angosciato. Era abituato a comandare, ma comprese che tra quelle quattro pareti a comandare era Violette. Le fessure della persiana lasciavano entrare il rumore della piazza e l'ultima luce del sole, che si infiltrava a coltellate, illuminando la saletta. La giovane indossava una tunica di seta color smeraldo stretta ai fianchi da un cordone dorato, pantofole turche e un complicato turbante ricamato con perline. Un ciuffo di capelli neri ondulati le cadeva sul volto. Violette bevve un sorso di champagne e gli offrì la stessa coppa, che lui vuotò in un sorso anelante, come un naufrago. Lei la riempì di nuovo e la sostenne per lo stelo delicato, in attesa, finché lui la chiamò vicino a sé sul divano. Questa fu l'ultima iniziativa di Relais; a partire da quel momento lei condusse l'incontro a modo suo.