OFFICIANTE DI CERIMONIE
La drastica misura di tenere Eugenia sedata diede migliori risultati di quanto lo stesso Parmentier sperasse. Nei mesi successivi il ventre crebbe normalmente, mentre passava il tempo sdraiata sotto una zanzariera su un divano della veranda, dormicchiando o distratta dal passaggio delle nuvole, completamente scollegata dal prodigio che accadeva dentro di lei. «Se fosse sempre così tranquilla, sarebbe perfetto» Tété sentì dire dal padrone. Si alimentava con zucchero e una poltiglia concentrata di gallina e verdure macinate in un mortaio, in grado di resuscitare un morto, che aveva inventato Tante Mathilde, la cuoca. Tété adempiva ai suoi doveri in casa e poi si sistemava in veranda a cucire il corredo del bambino e a cantare con la sua voce roca gli inni religiosi che piacevano a Eugenia. A volte, quando erano sole, Prosper Cambray le andava a trovare con il pretesto di chiedere un bicchiere di limonata, che beveva con straordinaria lentezza, seduto con una gamba sulla ringhiera, colpendosi gli stivali con la frusta arrotolata. Gli occhi sempre arrossati del capo dei sorveglianti vagavano sul corpo di Tété.
«Stai calcolando il prezzo, Cambray? Non è in vendita» lo sorprese un pomeriggio Toulouse Valmorain, comparendo all'improvviso in veranda.
«Come dice, signore?» rispose il mulatto in tono di sfida, senza cambiare posizione.
Valmorain lo chiamò con un gesto e l'altro lo seguì di malavoglia in ufficio. Tété non seppe cosa si dissero; il suo padrone le comunicò solamente che non voleva nessuno in giro per la casa senza autorizzazione, nemmeno il capo dei sorveglianti. L'atteggiamento insolente di Cambray non cambiò dopo il rimprovero del padrone; la sua unica precauzione prima di avvicinarsi alla veranda a chiedere una bevanda e spogliare Tété con gli occhi era di assicurarsi che lui non fosse nelle vicinanze. Già da tempo aveva perso il rispetto per Valmorain, ma non osava tirare troppo la corda, perché continuava a nutrire l'ambizione di essere nominato amministratore generale.
Quando arrivò dicembre, Valmorain convocò il dottor Parmentier perché rimanesse nella piantagione il tempo necessario fino a quando Eugenia non avesse partorito, visto che non voleva lasciare la faccenda nelle mani di Tante Rose. «Lei ne sa più di me di queste cose» argomentò il medico, ma accettò l'invito perché gli avrebbe dato modo di riposare, leggere e annotare nuove cure della guaritrice per il suo libro. Tante Rose veniva interpellata da altre piantagioni e si dedicava allo stesso modo a schiavi e ad animali, combatteva infezioni, cuciva ferite, curava febbri e infortuni, aiutava nei parti e cercava di salvare la vita ai neri castigati. Le permettevano di andare lontano in cerca delle sue piante ed erano soliti portarla a Le Cap a comprare i suoi ingredienti, dove la lasciavano con alcune monete e la andavano a prendere un paio di giorni dopo. Era la mambo, l'officiante delle calenda, alle quali accorrevano neri di altre piantagioni, e Valmorain non si opponeva nemmeno a ciò, nonostante il suo capo dei sorveglianti lo avesse avvertito che finivano con orge o dozzine di posseduti che rotolavano per terra con gli occhi rovesciati. «Non essere così severo, Cambray, lascia che si sfoghino, così tornano più docili al lavoro» rispondeva il padrone di buonumore. Tante Rose si perdeva per giorni e quando il capo dei sorveglianti annunciava che la donna era scappata con i fuggiaschi o aveva attraversato il fiume in direzione del territorio spagnolo, lei tornava zoppicando, estenuata e con la sua borsa piena. Tante Rose e Tété sfuggivano all'autorità di Cambray perché questi temeva che la prima lo trasformasse in zombi, e la seconda era la schiava personale della padrona, indispensabile nella casa grande. «Nessuno ti sorveglia. Perché non scappi, madrina?» le domandò una volta Tété. «Come potrei correre con la mia gamba cattiva? E che ne sarebbe della gente che ha bisogno delle mie cure? E poi non serve a nulla che io sia libera se gli altri sono schiavi» rispose la guaritrice. A Tété non era mai venuto in mente questo pensiero, che continuò a ronzarle in testa come un calabrone. Ne parlò molte volte ancora con la sua madrina, ma non riuscì mai ad accettare l'idea che la sua libertà fosse irrimediabilmente legata a quella di tutti gli altri schiavi. Se fosse potuta scappare lo avrebbe fatto senza pensare a quelli che rimanevano indietro, di questo era certa. Dopo le sue escursioni, Tante Rose la chiamava nella sua capanna e si chiudevano dentro a preparare rimedi che richiedevano ingredienti naturali freschi, un'accurata preparazione e riti adeguati. Stregoneria, diceva Cambray, ecco cosa facevano quelle due donne, nulla che lui non potesse risolvere con una buona frustata. Ma non osava toccarle.
Un giorno il dottor Parmentier, dopo aver passato le ore più calde del pomeriggio immerso nel torpore della siesta, andò a fare visita a Tante Rose con il proposito di verificare se c'era una cura per la puntura del millepiedi. Dato che Eugenia era tranquilla e sotto il controllo di una domestica, chiese a Tété di accompagnarlo. Trovarono la guaritrice seduta su una sedia di vimini davanti alla porta della sua capanna, malridotta dopo gli ultimi acquazzoni, che canticchiava in una lingua africana, mentre toglieva le foglie da un ramo secco e le posava su uno straccio, così concentrata sul suo lavoro che non li vide fino a quando non le furono davanti. Fece per alzarsi, ma Parmentier la trattenne con un gesto. Il dottore si asciugò il sudore dalla fronte e dal collo con un fazzoletto e la guaritrice gli offrì dell'acqua, che teneva nella sua capanna. Era più grande di quanto apparisse da fuori, molto ordinata, ogni cosa in un posto preciso, buia e fresca. La mobilia appariva splendida in confronto a quella di altri schiavi: un tavolo di assi, un armadio olandese scrostato, un baule di latta ossidata, diverse scatole che Valmorain le aveva fornito per conservare i suoi medicinali e una collezione di pentolini di terracotta per le sue infusioni. Un mucchio di foglie secche e paglia, coperto con uno straccio a quadretti e una coperta sottile, fungeva da letto. Dal soffitto di palme pendevano rami, fasci di erbe, rettili disseccati, piume, collane di perline, semi, conchiglie e altre cose necessarie alla sua scienza. Il dottore bevette due sorsi da una zucca, attese un paio di minuti per riprendere fiato e quando si sentì più sollevato si avvicinò per osservare l'altare, su cui si trovavano offerte di fiori di carta, pezzi di patata dolce, un ditale con acqua e tabacco per i loa. Sapeva che la croce non era cristiana, rappresentava i crocicchi, ma non ebbe dubbi che la statua di gesso dipinto fosse della Vergine Maria. Tété gli spiegò che lei stessa l'aveva data alla sua madrina, era un regalo della padrona. «Ma io preferisco Erzuli e anche la mia madrina» aggiunse. Il medico fece per prendere il sacro asson del vudù, una zucca dipinta con simboli, piantata su un bastone, decorata con perline e riempita di ossicini di un neonato defunto, ma si trattenne in tempo. Nessuno doveva toccarlo senza il permesso del suo padrone. «Ciò conferma quello che ho sentito dire: Tante Rose è una sacerdotessa, una mambó» commentò. L’asson normalmente apparteneva all’houngan, ma a Saint-Lazare non c'era un houngan ed era Tante Rose a officiare le cerimonie. Il medico bevette dell'altra acqua, bagnò il fazzoletto e se lo legò al collo prima di affacciarsi un'altra volta verso il calore. Tante Rose non sollevò lo sguardo dal suo meticoloso lavoro e non gli offrì nemmeno un posto a sedere, perché aveva solo una sedia. Risultava difficile calcolare la sua età, aveva il viso giovane, ma il corpo malridotto. Le sue braccia erano magre e forti, i seni pendevano come papaie sotto la camicia, aveva la pelle molto scura, il naso dritto e largo alla base, le labbra ben delineate e lo sguardo intenso. Si copriva la testa con un fazzoletto, sotto al quale si scorgeva la massa abbondante dei capelli, che non si era mai tagliata e portava divisi in ciocche ruvide e fitte, come corde di sisal. A quattordici anni un carretto le era passato sopra a una gamba fratturandole varie ossa che si erano saldate male, motivo per cui camminava a fatica, appoggiata a un bastone che uno schiavo riconoscente aveva intagliato per lei. La donna riteneva che l'incidente fosse stato un colpo di fortuna, perché l'aveva salvata dai canneti. Qualsiasi altra schiava invalida sarebbe finita a rimestare melassa bollente o a lavare la biancheria al fiume, ma lei fu l'eccezione, perché fin da molto giovane i loa la indicarono come mambo. Parmentier non l'aveva mai vista durante una cerimonia, ma riusciva a immaginarla in trance, trasformata. Nel vudù tutti erano officianti e potevano sperimentare la divinità se venivano posseduti dai loa, il ruolo dell'houngan o della mambo consisteva solo nel preparare l’hounfort per la cerimonia. Valmorain aveva espresso a Parmentier il sospetto che Tante Rose fosse una ciarlatana che approfittava dell'ignoranza dei suoi pazienti.
«L'importante sono i risultati. Ha più successo lei con i suoi metodi di quanto ne abbia io con i miei» gli aveva risposto il medico.
Dai campi giungevano le voci degli schiavi che tagliavano le canne, tutti allo stesso ritmo. Il lavoro iniziava prima che sorgesse il sole, perché dovevano cercare foraggio per gli animali e legna per il fuoco, poi lavoravano dall'alba al tramonto, con una pausa di due ore a mezzogiorno, quando il cielo diventava bianco e la terra su dava. Cambray aveva cercato di eliminare quella pausa, fissata dal Codice Nero e rifiutata dalla maggior parte dei piantatori, ma Valmorain la considerava necessaria. Dava loro anche un giorno di riposo alla settimana perché coltivassero le loro verdure e un po' di cibo, mai abbastanza, ma più che in alcune piantagioni, dove si partiva dal presupposto che gli schiavi dovevano sopravvivere dei prodotti dei loro orti. Tété aveva sentito parlare di una riforma del Codice Nero: tre giorni festivi alla settimana e abolizione della frusta, ma aveva anche sentito che nessun colono avrebbe rispettato quella legge, nell'eventualità in cui il re l'avesse approvata. Chi avrebbe lavorato per un altro senza frusta? Il dottore non capiva le parole delle canzoni dei lavoratori. Si trovava sull'isola da molti anni e il suo orecchio si era abituato al creole della città, una derivazione dal francese, spezzato dal ritmo africano, ma il creole delle piantagioni gli risultava incomprensibile, perché gli schiavi lo avevano trasformato in un linguaggio in codice per escludere i bianchi; per questo aveva bisogno di Tété come traduttrice. Si piegò per esaminare una delle foglie che Tante Rose stava staccando. «A cosa servono?» le domandò. Lei gli spiegò che il koulant è per i tamburi del petto, i rumori della testa, la stanchezza della sera e la disperazione. «A me farebbe bene? Il cuore mi viene meno» disse lui.
«Sì, le farebbe bene, perché il koulant cura anche i peti» replicò lei e scoppiarono tutti e tre a ridere. In quel momento udirono il galoppo di un cavallo che si avvicinava. Era uno dei commandeurs che veniva a cercare Tante Rose perché si era verificato un incidente al torchio.
«Séraphine ha messo la mano dove non doveva!» gridò dalla sella e ripartì immediatamente, senza offrirsi di condurre la guaritrice. Lei avvolse delicatamente le foglie nello straccio e le ripose nella capanna, prese la borsa, che teneva sempre pronta, e si mise a camminare il più in fretta possibile, seguita da Tété e dal medico.
Strada facendo superarono diversi carretti che avanzavano al passo lento dei buoi, stracarichi di canna appena tagliata, che non poteva attendere più di un paio di giorni per essere lavorata. Avvicinandosi ai rozzi edifici di legno del mulino, il denso odore della melassa gli si appiccicò alla pelle. Su entrambi i lati del sentiero gli schiavi lavoravano con coltelli e machete sorvegliati dai commandeurs. Al minimo segnale di debolezza Cambray li rimandava a tagliare canne e li rimpiazzava con altri. Per incrementare il numero dei suoi schiavi, Valmorain ne aveva affittate due squadre dal suo vicino Lacroix, e siccome a Cambray non importava quanto duravano, la loro sorte era peggiore. Diversi bambini passavano lungo le file con dei secchi e un mestolo per distribuire acqua. Molti neri erano pelle e ossa, gli uomini senza altri indumenti oltre a calzoncini di tela e un cappello di paglia, le donne con una camicia lunga e un fazzoletto sulla testa. Le madri tagliavano le canne piegandosi con i bambini sulla schiena. Avevano i minuti contati nei primi due mesi per allattarli e poi dovevano lasciarli in un capannone, affidati a una vecchia e a bambini più grandi, che li accudivano come potevano. Molti morivano di tetano, paralizzati, con la mandibola bloccata, un altro dei misteri dell'isola, perché i bianchi non soffrivano di tale malattia. I padroni non sospettavano che si potessero provocare quei sintomi senza lasciare traccia piantando uno spillo nel punto molle del cranio, prima che le ossa si saldassero, così che il bambino se ne poteva andare felice all'isola sotto il mare senza patire la schiavitù. Era raro vedere neri con i capelli grigi come Tante Mathilde, la cuoca di Saint-Lazare, che non aveva mai lavorato nei campi. Quando Violette Boisier l'aveva comprata per Valmorain aveva già una certa età, ma nel suo caso non importavano gli anni, bensì l'esperienza, e lei aveva servito nella cucina di uno degli affranchis più ricchi di Le Cap, un mulatto educato in Francia che controllava l'esportazione dell'indaco.
Nel mulino trovarono una giovane a terra in mezzo a un nugolo di mosche e allo strepito delle macchine azionate dai muli. Il procedimento era delicato ed era affidato agli schiavi più abili, che dovevano determinare esattamente quanta calce usare e quanto far bollire lo sciroppo per ottenere zucchero di qualità. Nel mulino si verificavano gli incidenti peggiori e in quell'occasione la vittima, Séraphine, era così insanguinata che Parmentier credette che qualcosa le fosse scoppiato in petto, ma poi vide che il sangue fuoriusciva dal moncone di un braccio, che lei premeva sul suo ventre rotondo. Con un gesto rapido Tante Rose si tolse lo straccio dalla testa e glielo legò sopra al gomito, mormorando un'invocazione. La testa di Séraphine cadde sulle ginocchia del dottore e Tante Rose fece in modo di sistemarla sul suo grembo, le aprì la bocca e le versò un getto scuro da una bottiglietta della sua borsa. «È solo melassa, per rianimarla» disse, anche se lui non aveva domandato nulla. Uno schiavo spiegò che la giovane stava spingendo la canna nella tritatrice, si era distratta un attimo e le pale dentate le avevano catturato la mano. Le grida lo avevano messo in allarme ed era riuscito a fermare i muli prima che la macchina le portasse via il braccio fino alla spalla. Per liberarla aveva dovuto tagliarle la mano con l'ascia che a questo scopo tenevano appesa a un gancio. «Bisogna fermare il sangue. Se non si infetta, vivrà» sentenziò il dottore, e ordinò allo schiavo di andare alla casa grande e prendere la sua valigetta. L'uomo tentennò perché riceveva ordini solo dai commandeurs, ma a una parola di Tante Rose uscì di corsa. Séraphine aveva aperto un po' gli occhi e mormorava qualcosa che il dottore a malapena riuscì a cogliere. Tante Rose si chinò per sentirla. «Non posso, p'tite, il bianco è qui, non posso» le rispose in un sussurro. Due schiavi sollevarono Séraphine e la portarono in una baracca di assi, dove la sdraiarono su un tavolaccio di legno grezzo. Tété scacciò le galline e un maiale, che grufolava tra la sporcizia del terreno, mentre gli uomini sostenevano Séraphine e la guaritrice la lavava con l'acqua di un secchio. «Non posso, p'tite, non posso» le ripeteva ogni tanto all'orecchio. Un altro uomo portò delle braci ardenti dal mulino. Fortunatamente Séraphine aveva perso conoscenza quando Tante Rose procedette a cauterizzare il moncone. Il dottore notò che era incinta di circa sei o sette mesi e pensò che con la perdita di sangue quasi certamente avrebbe abortito.
In quel mentre apparve sull'uscio del capannone la figura di un uomo a cavallo; uno degli schiavi corse a prendere le briglie e l'uomo saltò a terra. Era Prosper Cambray, con una pistola in vita e la frusta in mano, vestito con pantaloni scuri e una camicia di tela grezza, ma con stivali di cuoio e un cappello americano di buona fattura, identico a quello di Valmorain. Accecato dalla luce dell'esterno non riconobbe il dottor Parmentier. «Che confusione è questa?» chiese con la sua voce morbida, che risultava così minacciosa, colpendosi gli stivali con la frusta, come faceva sempre. Tutti si spostarono perché vedesse da solo, e allora distinse il dottore e il tono mutò.
«Non si disturbi per questa sciocchezza, dottore. Tante Rose si occuperà di tutto. Mi permetta di accompagnarla alla casa grande. Dov'è il suo cavallo?» gli chiese con gentilezza.
«Portate questa donna alla capanna di Tante Rose perché la possa curare. È incinta» rispose il dottore.
«Per me non è certo una novità» rise Cambray.
«Se la ferita va in cancrena, bisognerà amputarle il braccio» insistette Parmentier, rosso per l'indignazione. «Le ripeto che devono portarla immediatamente alla capanna di Tante Rose.»
«Ma è già qui in ospedale, dottore» gli rispose Cambray.
«Questo non è un ospedale, ma una stalla immonda!»
Il capo dei sorveglianti percorse con gli occhi il capannone con un'espressione di curiosità, come se lo vedesse per la prima volta.
«Non vale la pena di preoccuparsi per questa donna, dottore; a ogni modo non serve più per lo zucchero e dovrò occuparla in altro modo...»
«Non mi ha capito, Cambray» lo interruppe il medico, in tono di sfida. «Vuole che mi rivolga a monsieur Valmorain per risolvere la situazione?»
Tété non osò guardare l'espressione del capo dei sorveglianti; non aveva mai udito nessuno parlargli con quel tono, nemmeno il padrone, e temette che alzasse il pugno contro il bianco, ma quando rispose la sua voce era umile, come quella di un servo.
«Ha ragione, dottore. Se Tante Rose la salva, per lo meno avremo il bambino» disse, toccando con il manico della frusta la pancia insanguinata di Séraphine.