IL GUERRIERO



Dopo diversi giorni passati a inseguire Gambo, Prosper Cambray era paonazzo d'ira. Non c'era traccia del ragazzo e lui si ritrovava con una muta di cani impazziti, mezzi ciechi e con i musi pieni di piaghe. Diede la colpa a Tété. Era la prima volta che la accusava direttamente e sapeva che quel momento avrebbe segnato una frattura radicale tra lui e il padrone. Fino ad allora era bastata una sua parola perché la condanna di uno schiavo fosse inappellabile e il castigo immediato, ma con Tété non aveva mai osato.

«La casa non si gestisce come la piantagione, Cambray» argomentò Valmorain.

«Lei è la responsabile dei domestici!» insistè l'altro. «Se non organizziamo una punizione esemplare, ne spariranno altri.»

«Risolverò il problema a modo mio» replicò il padrone, poco disposto a calcare la mano con Tété, che aveva appena partorito ed era sempre stata un'impeccabile governante. La casa funzionava tranquillamente e la servitù adempiva ai propri compiti in modo corretto. E poi c'era Maurice, naturalmente, e l'affetto che il ragazzino sentiva per quella donna. Frustarla, come voleva Cambray, sarebbe stato come frustare Maurice.

«L'avevo avvertita tempo fa, padrone, che quel nero aveva una cattiva indole. Avevo i miei motivi per riempirlo di botte appena lo avevo comprato, ma avrei dovuto essere più duro.»

«Va bene, Cambray, quando lo prenderai potrai fare quel che ti pare di lui» lo autorizzò Valmorain, mentre Tété, che ascoltava in piedi in un angolo come un imputato, cercava di nascondere la propria angoscia.

Valmorain era troppo preoccupato dai suoi affari e dallo stato della colonia per affannarsi eccessivamente per uno schiavo più o in meno. Non lo ricordava minimamente, era impossibile distinguerne uno fra centinaia. In un paio di occasioni Tété aveva fatto riferimento al “ragazzino della cucina” e a lui era rimasta l'idea che fosse un moccioso, ma non doveva esserlo se si era azzardato a tanto, ci volevano le palle per scappare. Era fuor di dubbio che Cambray non ci avrebbe messo molto a trovarlo, aveva fin troppa esperienza nel cacciare i neri. Il capo dei sorveglianti aveva ragione: dovevano inasprire la disciplina; sull'isola c'erano già abbastanza problemi fra le persone libere per permettersi affronti da parte degli schiavi. L'Assemblea nazionale in Francia aveva tolto alla colonia la poca autonomia di cui godeva e di conseguenza i burocrati di Parigi, che non avevano mai messo piede nelle Antille e a malapena sapevano pulirsi il culo, come lui assicurava, ora decidevano su temi di enorme gravità. Nessun grand Mane era disposto ad accettare gli assurdi decreti che venivano loro in mente. Che razza di ignoranti! I risultati erano disordine e caos, come dimostrava la storia di un certo Vincent Ogé, un mulatto ricco che era andato a Parigi a reclamare uguaglianza di diritti per gli affranchis ed era tornato con la coda tra le gambe, come c'era da aspettarsi; perché dove si va a finire se si cancellano le distinzioni naturali di classe e razza? Ogé e il suo compare Chavannes, con l'aiuto di alcuni abolizionisti, di quelli che non mancano mai, avevano istigato una ribellione al Nord, molto vicino a Saint-Lazare. Trecento mulatti ben armati! Era stato necessario tutto il peso del reggimento di Le Cap per sconfiggerli, commentò Valmorain a Tété in una delle sue chiacchierate serali. Aggiunse che l'eroe della spedizione era stato un suo conoscente, il tenente colonnello Etienne Relais, militare di esperienza e coraggio, ma di idee repubblicane. I sopravvissuti erano stati catturati con una manovra rapida e nei giorni successivi erano stati innalzati centinaia di patiboli nel centro della città, un bosco di impiccati che nel caldo si erano putrefatti di lì a poco, un banchetto per gli avvoltoi. Ai due capi avevano riservato un lento supplizio nella pubblica piazza senza la grazia di un misericordioso colpo d'ascia. E non che lui fosse a favore dei castighi truculenti, ma a volte per la popolazione risultavano di insegnamento. Tété ascoltava muta, pensando all'allora capitano maggiore Relais, che a malapena ricordava e non sarebbe riuscita a riconoscere se lo avesse incontrato, perché l'aveva visto solo un paio di volte molti anni prima nell'appartamento di piazza Clugny. Se l'uomo amava ancora Violette, non doveva essere stato facile per lui combattere gli affranchis. Ogé avrebbe potuto essere un suo amico o un parente.

Prima che fuggisse, a Gambo avevano assegnato il compito di accudire gli uomini catturati da Cambray, in quel letamaio che fungeva da ospedale. Le donne della piantagione li nutrivano con mais, patate dolci, gombo, yucca e banane delle loro provviste, ma Tante Rose si era presentata al padrone, visto che con Cambray l'operazione sarebbe stata inutile, per dirgli che non sarebbero sopravvissuti senza una zuppa di ossa, erbe, e il fegato degli animali che si consumavano nella casa grande. Valmorain alzò lo sguardo dal suo libro sui giardini del re Sole, infastidito dall'interruzione, ma quella strana donna riusciva a intimidirlo e la ascoltò. «Quei neri hanno già avuto la loro lezione. Da' loro la zuppa, e se li salvi, io non avrò perso molto» le rispose. Durante i primi giorni Gambo li nutriva, perché non potevano farlo da soli, e distribuiva loro un impasto di foglie e cenere di quinoa che, come aveva detto Tante Rose, dovevano far girare come una palla in bocca per sopportare il dolore e ricevere energia. Era un segreto dei cacicchi arahuaco, che in qualche modo era sopravvissuto trecento anni e che solo alcuni guaritori conoscevano. La pianta era molto rara, non si vendeva nei mercati di erbe magiche e Tante Rose non aveva potuto coltivarla nel suo orto, motivo per cui la riservava per i casi più gravi.

Gambo approfittava di quei momenti in cui era da solo con gli schiavi puniti per sapere come erano scappati, perché li avevano catturati e cos'era successo ai sei che mancavano. Quelli che riuscivano a parlare gli raccontarono che si erano separati uscendo dalla piantagione e che alcuni si erano incamminati verso il fiume con l'idea di nuotare controcorrente, ma si può lottare contro la corrente per poco, alla fine vince sempre lei. Avevano sentito degli spari e non erano sicuri che avessero ucciso gli altri, ma qualunque fosse stata la loro sorte, senza dubbio era preferibile alla loro. Fece domande sul bosco, gli alberi, le liane, il fango, le pietre, la forza del vento, la temperatura e la luce. Cambray e altri due cacciatori di neri conoscevano la regione a memoria, ma c'erano luoghi che evitavano, come le paludi e i crocicchi dei morti, dove non si addentravano neanche i fuggiaschi, per disperati che fossero, e i luoghi inaccessibili ai muli e ai cavalli. Dipendevano completamente dai loro animali e dalle armi da fuoco, che a volte risultavano poco efficaci. Ai cavalli si spezzavano le caviglie e bisognava ucciderli. Caricare i moschetti richiedeva diversi secondi, perché si inceppavano sempre o la polvere si inumidiva e nel frattempo un uomo nudo, armato solo di un coltello per tagliare la canna approfittava del vantaggio. Gambo comprese che il pericolo più immediato erano i cani, in grado di fiutare l'odore di un uomo a un chilometro di distanza. Non c'era nulla di più spaventoso di un coro di latrati che si avvicinava.

A Saint-Lazare i canili si trovavano dietro alle stalle, in uno dei cortili della casa grande. I cani da caccia e da guardia rimanevano rinchiusi di giorno perché non familiarizzassero con la gente e venivano fatti uscire nelle ronde notturne. I due mastini della Giamaica, coperti di cicatrici e addestrati per uccidere, appartenevano a Prosper Cambray. Li aveva acquistati per i combattimenti di cani, e avevano il doppio merito di soddisfare il suo gusto per la crudeltà e procurargli dei guadagni. Con quello sport aveva rimpiazzato i tornei di schiavi, che aveva dovuto interrompere perché Valmorain li proibiva. Un buon campione africano, capace di uccidere l'avversario a mani nude, poteva essere molto redditizio per il suo padrone. Cambray aveva i suoi trucchi, li cibava con carne cruda, li stravolgeva con una miscela di tafia, polvere da sparo e chili piccante prima di ogni torneo, li premiava con donne dopo una vittoria e gliela faceva pagare cara in caso di sconfitta. Con i suoi campioni, un congolese e un mandingo, aveva arrotondato la sua paga quando era cacciatore di neri, ma poi li aveva venduti e aveva comprato quei mastini, la cui fama era arrivata fino a Le Cap. Li teneva affamati e assetati, legati perché non si sbranassero l'un l'altro. Gambo doveva eliminarli, ma se li avvelenava Cambray avrebbe torturato cinque schiavi per ogni cane finché qualcuno non avesse confessato.

All'ora della siesta, mentre Cambray andava a rinfrescarsi al fiume, il ragazzo si diresse verso la capanna del capo dei sorveglianti, alla fine del viale di palme, separata dalla casa grande e dagli alloggi degli schiavi domestici. Era venuto a conoscenza dei nomi delle due concubine che il capo dei sorveglianti aveva scelto quella settimana, bambine da poco affacciatesi alla pubertà e che già giravano impaurite come bestie bastonate. Lo accolsero spaventate, ma le tranquillizzò con un pezzo di torta che aveva rubato dalla cucina, e chiese loro di preparare del caffè. Loro cominciarono a ravvivare il fuoco mentre lui scivolava all'interno dell'abitazione. Era piccola, ma comoda, orientata in modo da godere della brezza ed era sopraelevata, come la casa grande, per evitare i danni delle inondazioni. I mobili, pochi e semplici, erano di quelli che Valmorain aveva scartato quando si era sposato. Gambo la percorse in meno di un minuto. Pensava di rubare una coperta, ma in un angolo vide un cesto di vestiti sporchi e velocemente prese una camicia del capo dei sorveglianti, la appallottolò e la tirò dalla finestra nei cespugli; poi bevve il caffè senza fretta e salutò le bambine con la promessa che avrebbe portato loro dell'altra torta non appena avesse potuto. Al tramonto tornò a prendere la camicia. Nella dispensa, le cui chiavi erano sempre appese alla vita di Tété, si trovava una borsa di chili piccante, una polvere tossica per combattere scorpioni e roditori che, dopo averla annusata, stramazzavano il mattino dopo. Se Tété si era resa conto che si stava consumando troppo chili, non disse comunque nulla.

Il giorno indicato, il ragazzo se ne andò all'imbrunire, con l'ultimo sprazzo di luce. Dovette passare per il villaggio degli schiavi, che gli ricordò quello in cui aveva vissuto i primi quindici anni della sua vita e che ardeva come un rogo l'ultima volta che lo aveva visto. La gente non era ancora tornata dai campi ed era quasi deserto. Una donna, che trasportava due grandi secchi d'acqua, non si stupì di fronte a una faccia sconosciuta, perché gli schiavi erano molti e ne arrivavano sempre di nuovi. Per Gambo quelle prime ore avrebbero determinato la differenza tra la libertà e la morte. Tante Rose, che riusciva a camminare di notte dove altri non si avventuravano di giorno, gli aveva descritto il terreno con il pretesto di parlargli delle piante medicinali e di quelle che era necessario evitare: funghi velenosi, alberi le cui foglie strappano la pelle di netto, anemoni in cui si nascondono rospi che con uno sputo provocano la cecità. Gli spiegò come sopravvivere nel bosco con frutta, noci, radici e germogli succulenti quanto un pezzo di capra arrosto e come orientarsi con le lucciole, le stelle e il fischio del vento. Gambo non era mai uscito da Saint-Lazare, ma grazie a Tante Rose poteva posizionare mentalmente la regione di mangrovie e paludi, dove tutte le vipere erano velenose, e i luoghi di incontro tra due mondi, dove attendevano gli Invisibili. «Sono stata lì e ho visto con i miei occhi Kalfou e Ghédé, ma non ho avuto paura. Bisogna salutarli con rispetto, chiedere il permesso di passare e domandare la strada da fare. Se non è la tua ora di morire, ti aiutano. Decidono loro» gli aveva detto la guaritrice. Il ragazzo le chiese degli zombi, di cui aveva sentito parlare per la prima volta sull'isola; in Africa nessuno ne sospettava l'esistenza. Lei gli aveva spiegato che si riconoscono per il loro aspetto cadaverico, l'odore di marcio e il modo di camminare, con le gambe e le braccia rigide. «Si devono temere di più alcuni vivi, come Cambray, che gli zombi» aveva aggiunto. Il messaggio non era sfuggito a Gambo.

Quando spuntò la luna, il ragazzo si mise a correre a zigzag. Ogni tanto lasciava un brandello della camicia del capo dei sorveglianti nella vegetazione per confondere i mastini, che identificavano solo il suo odore, perché nessun altro si avvicinava a loro, e disorientare gli altri cani. Due ore più tardi giunse al fiume. Si immerse nell'acqua fredda fino al collo con un gemito di sollievo, e mantenne la sua borsa all'asciutto sopra la testa. Si lavò il sudore e il sangue dei graffi dei rami e i tagli dei ciottoli, e ne approfittò per bere e urinare. Avanzò nell'acqua senza avvicinarsi alla riva, anche se ciò non avrebbe depistato i cani, che fiutavano in cerchi sempre più ampi fino a trovare la traccia, ma poteva farli ritardare. Non cercò di raggiungere l'altra sponda. La corrente era implacabile ed erano pochi i punti in cui un buon nuotatore poteva arrischiarsi, ma lui non li conosceva e non sapeva nuotare. Dalla posizione della luna intuì che era più o meno mezzanotte e calcolò la distanza percorsa; allora uscì dall'acqua e iniziò a spargere la polvere di chili. Non sentiva la fatica, era ebbro di libertà.

Viaggiò tre giorni e tre notti senza altro cibo che quelle magiche foglie di Tante Rose. La palla nera che aveva in bocca gli addormentava le gengive e lo teneva sveglio placandogli la fame. Dai canneti passò nel bosco, nella selva, nelle paludi, costeggiando la pianura in direzione delle montagne. Non udiva latrati di cani e ciò lo spronava. Beveva l'acqua delle pozzanghere, quando ne trovava, ma dovette sopportare il terzo mondo di un bianco incandescente. Quando ormai non riusciva più a muovere un passo, cadde un acquazzone, breve e freddo, che lo fece resuscitare. In quel momento stava procedendo in campo aperto, il percorso che solo uno stupido avrebbe osato intraprendere e che proprio per questo Cambray avrebbe scartato. Non poteva perdere tempo a cercare cibo e se si fosse riposato non sarebbe più riuscito ad alzarsi in piedi. Le sue gambe si muovevano da sole, spinte dal delirio della speranza e dalla palla di foglie in bocca. Ormai non pensava più, non provava dolore, aveva dimenticato la paura e tutto ciò che aveva lasciato dietro di sé, persino la forma del corpo di Zarité; ricordava solo il suo nome da guerriero. Percorse alcuni tratti con passi energici, ma senza correre, superando gli ostacoli del terreno con calma, per non esaurire le forze né perdersi, come gli aveva detto Tante Rose. A un certo punto ebbe l'impressione di piangere a dirotto, ma non era sicuro, poteva essere il ricordo della rugiada o della pioggia sulla pelle. Vide una capra che belava fra due rupi con una zampa rotta e resistette alla tentazione di sgozzarla e berne il sangue, così come resistette a quella di nascondersi fra le colline, che sembravano a portata di mano, e a quella di mettersi a dormire per un momento nella pace della notte. Sapeva dove doveva arrivare. Ogni passo, ogni minuto, erano decisivi.

Finalmente raggiunse la base delle montagne e intraprese l'impegnativa scalata, pietra dopo pietra, senza guardare in basso per non soccombere alle vertigini né verso l'alto per non scoraggiarsi. Sputò l'ultimo boccone di foglie e di nuovo lo assalì la sete. Aveva le labbra gonfie e screpolate. L'aria bolliva, era confuso, nauseato, a stento riusciva a ricordare le indicazioni di Tante Rose e reclamava ombra e acqua, ma continuò ad arrampicarsi afferrandosi a rocce e radici. D'improvviso si trovò vicino al suo villaggio, nelle pianure infinite, a pascere il bestiame dalle corna lunghe e a prepararsi per il pranzo che le sue madri servivano a casa del padre, il centro del nucleo familiare. Solo lui, Gambo, il figlio maggiore, mangiava con il padre, fianco a fianco, alla pari. Si stava preparando sin dalla nascita per sostituirlo; un giorno anche lui sarebbe stato giudice e capo. Uno scivolone e il dolore acuto del colpo contro le pietre lo riportò a Saint-Domingue; scomparvero le vacche, il suo villaggio, la sua famiglia e il suo ti-bon-ange si ritrovò di nuovo intrappolato nell'incubo della sua prigionia, che già durava da un anno. Ascese i ripidi pendii per ore e ore, fino a quando non era più lui a muoversi, ma un altro: suo padre. La voce di suo padre ripeteva il suo nome, Gambo. Ed era suo padre che manteneva a distanza l'uccello nero con il collo senza piume che volava in cerchio sopra la sua testa.

Giunse a un ripido e stretto sentiero che costeggiava un precipizio, serpeggiando tra rupi e fenditure. A una svolta si imbatté in accenni di scalini scolpiti nella pietra viva, uno dei sentieri nascosti dei cacicchi, che, secondo Tante Rose, quando i bianchi li avevano uccisi non erano morti, perché erano immortali. Poco prima dell'imbrunire si trovò a uno dei temibili crocicchi. I segnali lo avvertirono prima che potesse vederlo: una croce formata da due bastoni, un teschio umano, ossa, un fascio di piume e peli, un'altra croce. Il vento portava l'eco degli ululati dei lupi tra le rocce e due falconi neri si erano uniti all'altro uccello, spiandolo dall'alto. La paura che aveva mantenuto dietro di sé per tre giorni, lo attaccò frontalmente, ma ormai non poteva più tornare indietro. Gli battevano i denti e gli si gelò il sudore. Il labile sentiero dei cacicchi scomparve all'improvviso davanti a una lancia piantata nel terreno, sostenuta da un mucchio di pietre: il poteau-mitan, l'intersezione tra il cielo e il luogo inferiore, tra il mondo dei loa e quello degli umani. E allora li vide. Prima due ombre, poi il luccichio del metallo, coltelli o machete. Non alzò gli occhi. Salutò con umiltà ripetendo la parola d'ordine che gli aveva dato Tante Rose. Non ci fu risposta, ma percepì il calore di quegli esseri così vicini che se allungava una mano avrebbe potuto toccarli. Non puzzavano di putridume né di cimitero, emanavano lo stesso odore della gente nei canneti. Chiese il permesso a Kalfou e Ghédé di proseguire e neanche in questo caso ricevette risposta. Infine, con la poca voce che riuscì a cavare tra la sabbia aspra che gli chiudeva la gola, chiese quale fosse la strada da percorrere. Sentì che lo prendevano per le braccia.

Gambo si svegliò molto tempo dopo nell'oscurità. Cercò di alzarsi ma gli facevano male tutte le fibre del corpo e non riuscì a muoversi. Gli sfuggì un gemito, richiuse gli occhi e sprofondò nel mondo dei misteri, dal quale entrava e usciva senza volontà, a volte contratto per la sofferenza, altre fluttuando in uno spazio scuro e profondo come il firmamento in una notte senza luna. Recuperò la coscienza poco alla volta, avvolto nella bruma, intorpidito. Rimase immobile e in silenzio, abituando gli occhi a vedere nella penombra. Né luna né stelle, nessun mormorio della brezza, silenzio, freddo. Riuscì solo a ricordare la lancia del crocicchio. In quel momento percepì una luce tremolante che si muoveva a poca distanza e poco dopo una figura con una piccola lampada si chinò di fianco a lui, una voce di donna gli disse qualcosa di incomprensibile, un braccio lo aiutò ad alzarsi e una mano gli avvicinò alle labbra una zucca piena d'acqua. Bevve tutto il contenuto, disperatamente. E così seppe che era giunto a destinazione: si trovava in una delle grotte sacre degli arahuaco, che serviva da posto di vedetta dei fuggiaschi.

Nei giorni, nelle settimane e nei mesi successivi, Gambo avrebbe progressivamente scoperto il mondo dei fuggiaschi, che esiste va sulla stessa isola e nello stesso tempo, ma in un'altra dimensione, in un mondo come quello dell'Africa, anche se molto più primitivo e miserabile; avrebbe ascoltato lingue familiari e storie note, avrebbe mangiato il foutou delle sue madri, si sarebbe di nuovo seduto vicino a un falò ad affilare le armi da guerra, come faceva con suo padre, ma sotto altre stelle. Gli accampamenti erano disseminati nelle parti più impenetrabili delle montagne, veri villaggi, migliaia e migliaia di uomini e donne scappati dalla schiavitù con i loro figli, nati liberi. Vivevano sulla difensiva e diffidavano degli schiavi scappati dalle piantagioni, perché potevano tradirli, ma Tante Rose aveva comunicato loro per vie misteriose che Gambo era in cammino. Dei venti fuggiaschi di Saint-Lazare, solo sei erano giunti fino al crocicchio e due di loro talmente malconci che non erano sopravvissuti. Allora Gambo ebbe conferma del sospetto che Tante Rose fungesse da contatto tra gli schiavi e le bande di fuggiaschi. Nessuna tortura aveva strappato il nome di Tante Rose agli uomini che Cambray aveva catturato.

Otto mesi più tardi, nella casa grande dell'habitation Saint-Lazare, morì senza troppe scene né dolore Eugenia Garda del Solar. Aveva trentun anni, ne aveva passati sette da pazza e quattro nel dormiveglia dell'oppio. Quella mattina la sua domestica era rimasta addormentata ed era toccato a Tété, che era entrata come sempre per darle da mangiare e lavarla per il giorno, trovarla rannicchiata come un neonato tra i suoi cuscini. La padrona sorrideva e nella felicità di morire aveva recuperato una certa aria di bellezza e gioventù. Tété fu l'unica a dispiacersi per la sua morte, perché dopo essersi presa tanta cura di lei aveva finito per volerle bene davvero. La lavò, la vestì, la pettinò per l'ultima volta, poi le mise il messale fra le mani incrociate sul petto. Prese il rosario benedetto con la sua borsina di cuoio, l'eredità che la padrona le aveva lasciato, e se l'appese al collo, sotto il corpetto. Prima di congedarsi da lei, le tolse una medaglietta d'oro con l'immagine della Vergine, che Eugenia portava sempre, per darla a Maurice. Poi andò a chiamare Valmorain.

Il piccolo Maurice non si rese conto della morte di sua madre perché erano mesi che “la signora malata” rimaneva reclusa e gli impedirono di vedere il cadavere. Mentre facevano uscire di casa la bara di noce con chiodi d'argento, che suo padre aveva comprato di contrabbando da un americano nel periodo dei tentati suicidi, Maurice era nel cortile con Rosette a improvvisare un funerale per un gatto morto. Non aveva mai assistito a riti del genere, ma di fantasia ne aveva d'avanzo e riuscì a seppellire l'animale con più sentimento e solennità di quelli che ricevette sua madre.

Rosette era audace e precoce. Si trascinava per terra a velocità sorprendente sulle ginocchia paffutelle, tallonata da Maurice, che la seguiva come un'ombra. Tété fece sprangare le cassapanche e i mobili in cui poteva chiudersi le dita e bloccare gli accessi alla veranda con reti da pollaio per impedirle di ruzzolare di sotto. Si rassegnò ai topi e agli scorpioni, perché sua figlia avrebbe potuto avvicinare il naso al chili mortale, un'idea che a Maurice, molto più prudente, non sarebbe mai venuta in mente. Era una bella bambina. La madre lo ammetteva suo malgrado, perché la bellezza era una disgrazia per una schiava, molto più conveniente era l'invisibilità. Tété, che tanto aveva desiderato a dieci anni essere come Violette Boisier, constatò meravigliata che per un trucco d'illusionismo del destino Rosette assomigliava a quella bella donna, con i suoi capelli mossi e il suo accattivante sorriso con le fossette. Nella complicata classificazione razziale dell'isola, era una cuarterona, figlia di un bianco e di una mulatta, e nel colore era più simile al padre che non alla madre. A quell'età Rosette biascicava un idioma incomprensibile che suonava come una lingua remota che Maurice traduceva senza difficoltà. Il bambino tollerava i suoi capricci con una pazienza da nonno, che poi si trasformò in un affetto solerte che avrebbe segnato le loro vite. Lui sarebbe stato il suo unico amico, l'avrebbe consolata nelle sue pene e le avrebbe insegnato l'indispensabile, dall'evitare i cani feroci alle lettere dell'alfabeto, ma ciò sarebbe accaduto in seguito. La cosa fondamentale che le indicò sin dall'inizio fu la via diretta al cuore del padre. Maurice fece quello che Tété non aveva osato fare, impose la bambina a Toulouse Valmorain in modo inappellabile. Il padrone smise di considerarla una tra le tante sue proprietà e iniziò a cercare nei suoi lineamenti e nel suo carattere qualcosa di se stesso. Non lo trovò, ma a ogni modo provò quell'affetto tollerante che ispirano i cuccioli e le permise di vivere nella casa grande, invece di spedirla nel settore degli schiavi. A differenza di sua madre, la cui serietà era quasi un difetto, Rosette si rivelò chiacchierona e seducente, un vortice di vivacità che rallegrava la casa, il miglior antidoto contro l'incertezza scatenatasi in quegli anni.

Quando la Francia sciolse l'Assemblea coloniale di Saint-Domingue, i patrioti, come si definivano i coloni monarchici, si rifiutarono di sottomettersi all'autorità di Parigi. Dopo aver passato molto tempo isolato nella sua piantagione, Valmorain cominciò a tramare con i suoi pari. Siccome andava frequentemente a Le Cap, affittò la casa ammobiliata di un ricco commerciante portoghese, che era tornato temporaneamente al suo paese. Era vicino al porto e gli risultava comoda, ma pensava di acquistare molto presto una casa propria con l'aiuto dell'agente che gestiva la sua produzione di zucchero, lo stesso vecchio ebreo di estrema rettitudine che aveva servito suo padre.

Fu Valmorain a intavolare colloqui segreti con gli inglesi. In gioventù aveva conosciuto un marinaio che ora comandava la flotta britannica nei Caraibi, i cui ordini erano di intervenire nella colonia francese non appena si fosse presentata l'occasione. A quell'epoca gli scontri tra bianchi e mulatti avevano raggiunto una violenza inenarrabile, e i neri approfittavano del caos per ribellarsi, prima nell'Occidente dell'isola e poi al Nord, a Limbé. I patrioti seguivano gli eventi con grande attenzione, attendendo con ansia l'occasione giusta per tradire il governo francese.

Valmorain da un mese si era sistemato a Le Cap con Tété, i bambini e il feretro di Eugenia. Viaggiava sempre con suo figlio che, a sua volta, non andava da nessuna parte senza Rosette e Tété. La situazione politica era troppo instabile per separarsi da Maurice e non voleva nemmeno lasciare Tété alla mercé di Prosper Cambray, che le aveva messo gli occhi addosso e aveva persino preteso di comprarla. Valmorain immaginava che chiunque altro nella sua situazione gliel'avrebbe venduta per farlo contento e al contempo per liberarsi di una schiava che non lo eccitava più, ma Maurice l'amava come una madre. Quella questione, inoltre, si era trasformata in un silenzioso braccio di ferro tra lui e il capo dei sorveglianti. In quelle settimane aveva partecipato alle riunioni politiche dei patrioti, che si tenevano a casa sua in un clima di segretezza e cospirazione, anche se in realtà nessuno li spiava. Progettava di cercare un precettore per Maurice, che stava per compiere cinque anni allo stato selvaggio. Doveva dargli quei rudimenti di educazione che gli avrebbero permesso più avanti di andare a studiare in un collegio in Francia. Tété pregava perché quel momento non arrivasse mai, convinta che Maurice sarebbe morto lontano da lei e da Rosette. Doveva anche decidere riguardo a Eugenia. I bambini si abituarono alla bara messa di traverso nel corridoio e accettarono con naturalezza che contenesse i resti mortali della signora malata. Non chiesero cosa fossero esattamente i resti mortali, risparmiando a Tété il bisogno di spiegare qualcosa che avrebbe provocato nuovi incubi a Maurice, ma quando Valmorain li sorprese a cercare di aprire la bara con un coltello della cucina, comprese che era ora di prendere una decisione. Ordinò al suo agente di mandarla al cimitero delle suore a Cuba, dove Sancho aveva comprato un loculo, perché Eugenia gli aveva fatto giurare che non l'avrebbe sepolta a Saint-Domingue, dove le sue ossa potevano finire nel tamburo di un nero. L'agente pensava di ricorrere a una nave che andava in quella direzione per spedire la bara e nell'attesa la mise in piedi in un angolo della cantina, dove rimase dimenticata finché, due anni più tardi, le fiamme la consumarono.

L'isola sotto il mare
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