IX

E questa volta la porta si aprì. Il Caronia sembrava l’aspettasse. Indossava una canottiera sudicia e un paio di pantaloni sformati. Marò lo ebbe subito in antipatia, anzi provò un senso di repulsione. Sarà stato per via degli indumenti stazzonati o della luce malevola che brillava in fondo ai suoi occhi. La fece entrare in quell’unica stanza dove aveva vissuto insieme alla famiglia. Aveva movimenti lenti ma fluidi, lo stesso guizzo del ratto che scivola nei liquami di una fogna.

«Che è venuta a fare?» Nel tono brusco c’erano rabbia trattenuta e astio.

«Sono Maria Teresa…»

«Pajno, vicequestore aggiunto, commissariato Politeama, lo so chi è.» L’uomo si sedette, la canottiera salì e una pancia gonfia per anni di alcool uscì allo scoperto.

«Allora sa pure di cosa voglio parlare.»

«No, quello non lo so.»

«Avvocato Maddaloni…»

«Mischino, che malafine, però ‘u pigghiastivu a quel gran figghiu di buttana.»

«Non le si può nascondere nulla.» Marò fece una smorfia, aveva la sensazione che la stesse prendendo in giro.

«Ammuccia ammuccia, ca tuttu pari! A Palermo siamo, no a Nova Iorca, e pure là…» L’uomo stringeva le dita attorno a un bicchiere. L’odore di birra rancida saturava l’aria rarefatta della stanza. «Quel povero Maddaloni, un benefattore.»

Ancora quella vena di sarcasmo. Marò lo seguì nel suo gioco.

«Certo, una persona così generosa è difficile trovarla in giro.»

«Vero è, commissaria. Ai miei figli non sa quanti regali ci portava, e anche il mangiare certe volte ci pagava, e se ne avevo bisogno mi prestava pure i soldi.»

«E com’è che vi aveva a tutti quanti nel cuore?»

«Perché era un bravo cristiano, e sennò perché? Me lo dicissi vossia!»

Parlava in malafede il Caronia, Marò lo sentiva. Bisognava assecondarlo, trovare il modo di renderlo più fiducioso.

«Come l’ha conosciuto lei l’avvocato?»

«Mi ha difeso in tribunale. Ero dentro per una rissa e lui, sa com’era, difendeva a patrocinio gratuito, sennò chi se lo poteva permettere un avvocato di quel calibro?»

«E lei gli è stato grato tanto da dargli sua figlia?» Marò era partita all’attacco, nonostante i buoni propositi. Lui non si scompose e prese a snocciolare le sue tragedie personali, rendendosi ancora più antipatico.

«Che vuole commissaria, io i miei figli non li posso mantenere. I servizi sociali me li hanno tolti e sono tutti in una casa famiglia. Caterinedda, grazie alla buonanima dell’avvocato Maddaloni, avrà una vita migliore.» Caronia si alzò, prese una bottiglia di vino e cominciò a bere: «Non gliene offro, so che in servizio non può».

Aveva un modo di fare irritante, Marò si impose di non cedere all’emotività e cercò di prenderlo con le buone.

«Deve aver avuto una vita difficile lei, perché non me la racconta? A volte parlare non risolve i problemi, ma aiuta a sentirsi meglio.»

L’alcol rese più socievole il Caronia: «Caterinedda aveva le calzine corte quando finii la prima volta in carcere e mia moglie era incinta dell’ultimo. Quando uscii non trovavo lavoro, non è facile per chi è stato in galera. L’avvocato ci prese in simpatia, o magari ci fici pena e cominciò a chiamarmi per darmi un poco di lavoro. “Portati la picciridda” mi diceva e ci faceva attruvari un regalino, ‘na cosuzza duci. Poi mia moglie morì, Caterinedda cominciò a badare ai fratelli e io da lui ci andavo solo. Una sera si presentò qua con giocattoli per tutti e una vistinedda per lei… era fatto così, un cuore grande!».

«Sì, ma com’è che gli ha dato sua figlia?»

«Io non ho dato proprio niente. Quella sera che venne qua mi raccontò che sua moglie aveva una malattia e loro perciò figli non ne avevano, e che lei piangeva sempre, era nirbusa. ‘U sapi, commissaria, come sono le fimmine che non hanno figliato, cavalle pazze! Se l’è presa, io non gliela volevo dare, ma chi ero io per dire di no al grande Maddaloni?» Questa volta la sua voce vibrò di dolore e di rabbia.

Marò s’insinuò in quello che credeva fosse un piccolo varco nell’anima di Caronia. «Non mi pare contento, eppure sua figlia è andata a stare meglio, l’hanno fatta anche studiare…»

«Veramente pure io nel mio piccolo la trattavo come una principessa. Ogni anno, estate e inverno, le compravo i vestiti che ci abbisognavano, di marca pure. Le sorelle si dovevano accontentare di quello che c’era a casa.» Nell’aria si levò un puzzo improvviso che allarmò Marò. Non l’odore di vizio che aveva respirato dall’avvocato, ma qualcosa di ripugnante e antico, melmoso e orrendo.

«Com’è sta differenza?» chiese sospettosa.

«Perché è la più grande, è evidente no?», e nei suoi occhi brillò di nuovo la luce maligna. “Ti ho fregato” sembrava volesse dire.

«Comunque io a Caterinedda ci volevo bene, non le facevo mancare niente: calze, scarpe, pure il profumo. Ma effettivamente in casa Maddaloni era tutta un’altra storia. Un giorno si apprisintò con la moglie, la conosce a quella gatta morta?»

«Non le piace la signora Maddaloni? Perché?»

«No, è che venne qui una mattina, entrò senza toccare niente, ci faceva schifo pure sedersi, tanto che è restata in piedi tutto il tempo. Ci preparai il caffè, niente, non volle accettare niente. Chi non accetta non merita, commissa’. La gatta morta cominciò a lastimiare, dice che era triste, si sentiva sola in quella villa grande. Eh, ‘u Signuri duna viscotta a cu ‘unn’avi denti! La picciridda andava a stare meglio, ce la dovevo dare… io calavo la testa e poi la buttavo all’indietro, ‘nzù, ‘nzù, non la volevo lasciare. Quella figlia sapi fare tutte cose: cuoce, lava, stira…»

«‘Na cammarera!»

«Commissa’, mi volete offendere! La picciridda aveva preso il posto di mia moglie.» Di nuovo si materializzò nella stanza un tanfo di zolfo, come se il diavolo si fosse insediato in quell’abitazione e si divertisse ogni tanto a dare cenni della sua presenza.

«Parlavano a turno, prima il marito e poi la moglie: “Magari solo al sabato e alla domenica”. Insistevano tanto che alla fine ci dissi di sì. Restammo d’accordo che tutta la settimana stava con me, il sabato e la domenica da loro.»

«Caronia, lo dice come se Caterinedda gliel’avessero rubata.»

«Commissaria, che fa finta di non capire? Sono solo come un cane. Mia moglie è morta, i figli miei ce l’hanno i servizi sociali, e Caterinedda, mischina, in casa di estranei. Non ho né femmina né cuccioli.»

«Non me l’aspettavo di trovare un sentimentalone come lei, Caronia» disse Marò con una vena di sarcasmo. «Caterinedda le manca?»

«Ci sono delle volte che il suo profumo io lo sento nel cuore, e allora in quei momenti mi spuntano le lacrime. Certo, per lei io sono solo un panzone ubriaco. Lo vede come sono grosso? E pure non ero così brutto, ma poi le cose della vita, sono diventato ‘na schifia d’uomo. Pure mia moglie mi taliava schifiata, Caterinedda no, mi squagghiava con gli occhi, mi parìa ca dicìa “papà, io ti voglio bene, per me sei come un principe azzurro, come Orlando, come Lancillotto, come un paladino di Francia”. Perciò io a Caterinedda non gliela volevo dare, ma erano venuti a pregarmi tutti, e io che potevo fare?»

«Potevate, anzi dovevate, smettere di bere, trovare un lavoro fisso, magari una femmina che vi aiutava…» Marò era tornata a fare la maestrina, il Caronia si irrigidì e chiuse in fretta il discorso: «Dovevo, ma non potevo. Poi ci fu un altro processo, Maddaloni mi fece assolvere, e io per ricambiare gli diedi la picciridda».

Più guardava quella palla di lardo, più Marò sentiva che il suo racconto, sebbene plausibile, non era sincero. Aveva un peso sul cuore e un groviglio nella pancia. Forse era meglio andare via, cominciava a non essere più padrona delle sue emozioni. Salutò in fretta e cominciò a scendere le scale.