VII

La mattina dopo Marò si armò di pazienza, indossò la maschera dell’indifferenza e passò alla Mobile per vedere che aria tirava: il posteggiatore era sotto torchio, erano certi che avrebbe confessato. Ignorò i sorrisini ironici e gli sguardi beffardi, si congratulò con i colleghi per la brillante operazione e tornò al commissariato. Sul tavolo le solite pratiche di nessuna importanza.

Chiese a Fedeli di farle avere tutte le informazioni possibili su Caterinedda Caronia, la ragazzina affidata ai Maddaloni. Bevvè il caffè, consultò l’oroscopo, poi cercò in rete Marie de Régnier.

Scelse tra i tanti link “letteratura erotica.com” e si mise a leggere:

Musa della Belle Époque, poetessa e narratrice francese, autrice di poesie e romanzi, fra i quali: L’incostante, Le temps d’aimer, Le séducteur, pubblicati con il nome maschile Gérard d’Houville. Ebbe amori appassionati, un figlio dallo scrittore Pierre Louÿs e numerose avventure sentimentali. Gabriele d’Annunzio la chiamò “Notte” per i suoi occhi e capelli neri. “Ti bacio con tutte le mie labbra” scrisse lei in una lettera al poeta dell’Alcyone, che la colmava di piccoli pensieri: libri, lettere, fiori, scatole decorate…

Di nuovo le narici le si riempirono dell’odore di vizio che aveva respirato dentro all’accappatoio blu. All’improvviso si rese conto che tutto girava attorno a quella ragazzina dai capelli neri e che la vedova di sicuro nascondeva qualcosa.

«Permesso?»

«Entra, Fedeli.»

«Caterinedda Caronia, orfana di madre, figlia di Ignazio, ambulante, domiciliato allo Zen, via San Filippo 138, numerosi precedenti per rissa. Tre fratelli e due sorelle più piccoli, ospiti della casa famiglia Arco del Sole. Affidata alla famiglia Maddaloni. Nient’altro» disse Fedeli come se volesse scusarsi di non aver potuto fare di più.

«Prendi la macchina e accompagnami.»

Dal commissariato allo Zen impiegarono quasi un’ora, la strada non è solo lunga, ma trafficata e piena di intoppi. Ci volle un po’ per orientarsi dentro al dedalo delle palazzine Gregotti.

L’auto fu avvistata subito dalle vedette del quartiere e scortata nel lungo giro da motorini che si alternavano come staffette, facendo segno a spacciatori e tossici di sparire. Si fermarono davanti al portone di un edificio di cemento grigio, dalla facciata scrostata. Le piogge di numerosi inverni si erano infiltrate sotto l’intonaco e nei giunti affioravano lunghe scie di ruggine. I ferri del cemento armato spuntavano dalla superficie dei pilastri. Le finestre erano coperte da file di panni stesi, ovunque serbatoi per l’acqua. Installati a casaccio, di varie dimensioni e forme, quei contenitori color indaco sembravano orribili pustole sulla faccia di un vecchio morente. Marò dovette faticare per leggere il numero civico scolorito dal tempo o forse cancellato di proposito. 138, era proprio quello.

L’androne era buio, la luce del sole non riusciva a illuminare le scale, che puzzavano di muffa e piscio. Il vociare delle famiglie era cessato del tutto e a Marò sembrò di entrare in un palazzo abbandonato, ma gli occhi degli abitanti se li sentiva tutti sulla schiena mentre saliva le scale.

«Dove sta Caronia?» urlò al vuoto.

«Terzo piano, manu manca» rispose una voce dal nulla. Ancora una rampa, poi a sinistra, la porta se la trovò davanti alla faccia. Di compensato sottile, avrebbe potuto aprirla con una manata, ma non lo fece. Bussò. Sembrava non ci fosse nessuno. Chiese informazioni ai vicini, anche lì un muro. Tornò in macchina e si diresse ad Aspra, dalla vedova.

Suonò al cancello, le aprì il cameriere tunisino: «La signora è uscita».

Frustrata, Marò pensò che era ora di parlare con il pubblico ministero. Risalì in macchina e chiese a Fedeli di portarla al palazzo di Giustizia.