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Marò si era lasciata suggestionare dall’atmosfera di quella villa maestosa ed elegante, che tuttavia trasudava solitudine e infelicità. Si sentiva arida come certi terreni dell’entroterra siciliano, che non vedono acqua per anni. Appena fuori dal cancello telefonò a Sasà per invitarlo a cena, ma più che di invito si trattava di una convocazione: non aveva voglia di mangiare da sola.
Aveva percorso la strada del ritorno lentamente, cercando di lasciarsi alle spalle la penosa sensazione di inutilità che negli ultimi tempi le causava il fatto di essere single. La sterilità della vedova Maddaloni aveva agito da catalizzatore e ora si trovava suo malgrado a fare i conti con un desiderio di maternità quasi angoscioso. In ufficio per fortuna il lavoro la travolse.
Interrogò alcuni testimoni, mancava all’appello il posteggiatore. L’avrebbe fatto convocare il giorno dopo, tanto di sicuro anche lui non aveva visto niente. Il tempo era passato veloce e le amarezze erano rimaste alle spalle.
Era quasi ora di cena quando arrivò a casa. Sasà era di solito puntuale e c’era da scommetterci che alle nove precise avrebbe suonato alla porta, salvo complicazioni. “E speriamo che non ce ne siano, di complicazioni” si disse Marò, preoccupata per le ultime minacce ricevute dal suo amico.
Preparò in fretta il sugo per la pasta. Mentre apparecchiava, un refolo di vento agitò le foglie delle piante odorose sul davanzale della finestra. Un profumo dolce di menta si sparse per la stanza e si sovrappose a quello del soffritto. Sospirò Marò, come per un desiderio non ancora soddisfatto. Aveva ormai trentotto anni e il pensiero di un figlio stava diventando un chiodo fisso. Si sentiva sola, specie alla sera a tavola, quando si sorprendeva a canticchiare per farsi compagnia. E nelle notti d’inverno sarebbe stato bello stringere tra le braccia qualcosa di più di una borsa dell’acqua calda.
Molti uomini l’avevano amata, ma lei non ne aveva voluto sapere. Innamorata di Sasà e Lobianco, si era trascinata nell’illusione di poterli avere tutti e due, prima o poi. Ma chi troppo vuole… ora si rendeva conto che l’indecisione le stava costando davvero troppo. Forse però non era tardi, avrebbe potuto provarci con Sasà. Tra i due le sembrava il più malleabile, e poi era così bello. Il loro bambino avrebbe potuto avere gli occhi intensi del padre, e il suo sguardo ingenuo.
“La bellezza è importante, perché se poi mi nasce un figlio brutto? Certo, è un po’ svitato, e per fare famiglia ci vogliono solidità, costanza, equilibrio… Lobianco da questo punto di vista sarebbe il padre ideale: sempre uguale a se stesso e privo di sorprese.”
Era ancora persa nel suo triangolo amoroso quando Sasà arrivò. Erano le nove in punto, panza e prisenza come sempre, troppo timido forse, o volutamente distratto, per comprare quel mazzo di rose rosse che avrebbe reso tutto più semplice e gli avrebbe aperto la porta del cuore dell’amata. I suoi angeli custodi, dopo aver esplorato la tromba delle scale, lo lasciarono sulla porta. L’abbraccio tra loro fu più caldo del solito. Il corpo di Marò aderì a quello dell’amico con morbidezza, era un invito? Nel dubbio qualunque uomo avrebbe tentato un’avance, un bacio di sfuggita sulle labbra, un’ambigua carezza su un braccio, ma non Sasà, che non tollerava rifiuti.
«Pasta con le sarde a mare» annunciò trionfale Marò.
«Ti dimenticasti di comprare le sarde?» Il solito sarcasmo di Sasà.
«No, è che era tardi e ho dovuto arrangiarmi.»
«L’odore mi pare buono.»
Si sedettero l’uno accanto all’altra come due turisti giapponesi, e mangiarono in silenzio. Marò lo osservò più volte di sottecchi. Il suo amico ingoiava di corsa, quasi senza masticare. Quando il piatto era vuoto, Marò lo riempiva di altra pasta, e lui volentieri si piegava alla sua insistenza: «Prendine ancora un po’, l’ho fatta apposta per te». Buttava giù un boccone dietro l’altro strabuzzando gli occhi, come se facesse uno sforzo fisico, quasi che i maccheroncini dovessero farsi strada verso lo stomaco attraverso un percorso tortuoso e stretto. Poi beveva a grandi sorsi la Coca–Cola che scendeva lungo la sua gola con un gorgoglio, come acqua nei tubi intasati. Le bollicine sparivano nella sua bocca con un sibilo frizzante.
L’aria era più fresca quando uscirono sul divano in terrazza a fumare. L’odore del tabacco non riuscì a sopraffare il profumo di menta che accompagnava i loro sogni impossibili. In silenzio, persi dietro ai desideri, rimasero per un po’ a cullarsi nella stessa illusione: quella di essere una famiglia. Se solo avessero avuto il coraggio di parlarsi con sincerità, come sarebbe cambiata la loro vita!
«Novità?» chiese Sasà, così tanto per dire una cosa, il silenzio lo rendeva nervoso.
«Mah! A un certo punto le giornate sono tutte uguali.»
«Non volevo una risposta filosofica, mi riferivo alle indagini» replicò lui, che in quanto a scucivulizza poteva dare lezioni all’università.
Marò saltò sul divano, era arrossita per quel momento di debolezza e cercò di rimediare imbrogliando le carte: «E io pure parlavo di quello… Maddaloni faceva sempre la stessa vita…».
Sasà stette al gioco, in fondo neanche a lui piaceva affrontare argomenti intimi, l’affetto e la confidenza lo imbarazzavano più di un delitto.
«L’avvocato era un pezzo grosso, aveva difeso una serie di mafiosi, molti in regime di 41 bis, ma era anche rispettato e apprezzato. Si muoveva lungo la linea di confine tra legge e malavita con disinvoltura. Lo sai che non ha mai perso una causa?»
Marò fu interrotta da una salva di fuochi d’artificio. Stelle cadenti, nastri filanti rossi e azzurri, girandole verdi che scoppiettavano rumorosamente, fulmini gialli che attraversavano il blu della notte come comete. Di lì a pochi giorni ci sarebbe stato il fistino, si trattava di prove tecniche. Dopo la masculiata finale, tre botti secchi uno dietro l’altro, ripresero a parlare.
«Mi sono ripromessa di controllare gli atti della commissione Sanità della Regione. Maddaloni era stato incaricato da poco della revisione del prezzario…»
«Marò, ma tu vero pensi che sia un delitto mafioso?»
«Lo dicono tutti, Sasà.»
«E tu ci vai appresso?»
«E tu che faresti?»
«Marò, ragiona un momento. Secondo te un mafioso che vuole ammazzare aspetta l’ora di punta, quando c’è un sacco di gente all’uscita del tribunale?»
«Be’, magari è un atto dimostrativo…»
«E ha bisogno di tutti quei testimoni per dimostrare cosa? E poi quel modo assurdo di colpire…» S’interruppe, qualcosa lo aveva distratto. Forse la spallina del vestito che era scivolata e lasciava intravedere l’attaccatura del seno.
«Scusa, ma l’hanno ammazzato come un cane!»
«Marò, quello non lo voleva ammazzare. Quello lo voleva bastonare solamente. Ragiona.»
«Ho ragionato! Che ti pare, che la testa ce l’ho per far da contrappeso al culo?» rispose Marò, piccata. La paura di fallire stava montando come panna dentro un frullatore. Sasà ebbe un moto di tenerezza e addolcì i toni.
«Scusa, è che la dinamica del delitto è anomala. Considera che il primo colpo è arrivato al ginocchio, per non farlo scappare. Poi una serie precisa di mazzate, una dietro l’altra e tutte alle braccia e alle gambe… no, non lo voleva ammazzare, lo voleva struppiare.»
«Sì, ma Maddaloni è morto.»
«Per puro caso. Ma ti pare che uno che vuole ammazzare dà una serie di bastonate, tutte in punti non vitali, e scappa mentre quello a terra ha ancora la forza di parlare?»
«Però poi è tornato indietro…»
«Appunto! Torna indietro perché si ricorda di qualcosa. Come se un pensiero molesto gli avesse attraversato la mente all’improvviso. Un’immagine spiacevole, disgustosa, che spunta dai recessi della coscienza, e gli fa perdere il lume della ragione. In preda a una rabbia furiosa che fino a quel momento è riuscito a tenere a bada, ma che ormai è fuori controllo, l’aggressore torna indietro e, nonostante il rischio di farsi acchiappare, o perlomeno riconoscere, lo fredda con un colpo secco alla testa. Bada Marò, quell’uomo parte per dimostrare e finisce per ammazzare. No, non si tratta di un crimine premeditato, ma di un omicidio preterintenzionale.»
L’ipotesi di Sasà era piuttosto originale ma il suo amico era un grande investigatore, mentre lei era alla prima prova. Ammazzare un penalista che non perdeva mai una causa, be’, nessun mafioso l’avrebbe fatto: prima o poi uno come Maddaloni sarebbe potuto tornare utile. Che senso aveva privarsi di una tale risorsa?
«Devi cercare in famiglia, tra i parenti, quelli più stretti, è sempre lì che si trova il colpevole» tornò a bomba Sasà.
«E io ci sono stata dalla vedova, una signora gentile, perbene…»
«Marò, certo che ste minchiate quand’eri giovane non le dicevi» la zittì Sasà infastidito. «Te lo ricordi quando hanno rubato i gioielli di mia zia?».
«Sasà, ma ora che c’entra tua zia?»
«Ci trasi, ci trasi. Sono stato io. Avevo perso a carte, dovevo pagare un debito di gioco e così le ho rubato i gioielli, poi li ho impegnati. La settimana dopo ho vinto e perciò ho recuperato i gioielli. Ecco chi era il misterioso ladro di Cefalà Diana!»
“È davvero matto” pensò Marò, proprio per quello forse le piaceva.
«Fai attenzione, però» aggiunse lui facendosi serio, «andare controcorrente è la mia regola di vita, ma in una città come Palermo può essere fatale.»
Marò non rispose, si sentiva improvvisamente inadeguata, la paura di fallire le fece sentire freddo. Si versò un altro bicchiere di vino, si allungò vicino al suo amico. Poggiò la testa sulla spalla di lui e si permise il lusso di una fantasia. Provò a immaginarsi sposata, si accarezzò la gonna e sospirò, sarebbe stato bello fare la moglie, avere un figlio di Sasà dentro la pancia… avrebbe avuto una valida scusa per sfuggire alle sue responsabilità.