I

«Queste toghe sembrano cutre» sbuffò Maddaloni, principe del foro palermitano. «Solo d’inverno si possono usare. Certe giornate per il caldo arrivo a stento alla fine dell’udienza, tanto che qualche volta mi tocca domandare al giudice di sospendere per qualche minuto, e meno male che sono tutti amici. Giusto il tempo di rinfrescarmi, ripigliare fiato, così posso arrivare alla fine dell’udienza.»

L’avvocato sollevò la toga, la mostrò ai colleghi come se si trattasse di una prova da mettere agli atti, la piegò con cura, tolse un capello dal bordo della manica e la ripose nell’armadio. Sventolò all’aria un fazzoletto di lino con un movimento rapido del polso e si asciugò il sudore che gli bagnava il volto e la nuca.

«Vero è! Ci vuole un fisico bestiale per questo mestiere» chiosò Santopietro, il più vecchio tra i suoi colleghi. «Che quando tira lo scirocco io non ci resisto. Mi piglia in certi momenti un tremolizzo dalle gambe alla testa, manco capisco quello che dico. Ma non c’è giudice che mi abbia mai dato torto, grazie a Dio! Pure quando ho sciorinato indicibili minchiate. Fatti ‘a fama e va’ curcati.» Ci fu una risata di circostanza, le amicizie con i giudici non vanno sbandierate, è la prima cosa che ti insegnano appena metti piede al corso di laurea. Poi, come si dice, le cause si vincono per bravura e competenza del collegio difensivo, non per la benevolenza dei magistrati. E quando si perdono è per fatalità. Un muscoloso praticante storse la bocca, ma non fiatò. Tutti conoscevano la familiarità che permeava i rapporti tra giudici e avvocati della vecchia guardia, nessuno dei giovani aveva il coraggio di mettersi contro a quei mammasantissima.

«Dovrebbero abolirla la toga, è cosa passata ormai, fuori tempo.» L’avvocatino aveva parlato con un certo sussiego, ma avrebbe fatto meglio a tacere. Le sue parole furono accolte con sguardi di sufficienza e caddero nel vuoto. Non pago, lisciandosi la cravatta dal grosso nodo, che lo faceva assomigliare a un agente immobiliare, provò a rilanciare: «E pure questa, che significato ha?».

Maddaloni lo guardò in cagnesco ma restò in silenzio, la meglio parola è quella che non si dice. Si sentiva stanco, l’arringa aveva consumato tutte le sue energie, aveva solo voglia di tornare a casa. Cercò di scollarsi i pantaloni dal sedere con un movimento sussultorio delle gambe, immaginò il sollievo che avrebbe provato nel liberarsi dei vestiti stazzonati e il piacere di scivolare dentro al pigiama azzurro di sottile voile. Finalmente si sarebbe seduto a tavola, nella fresca penombra della camera da pranzo, il suo stomaco borbottava già da un po’.

La pasta con i tennerumi di sicuro era già sulla tavola, nella zuppiera di porcellana bianca chiusa dal coperchio cesellato a piccoli fiori, raffinato baluardo contro le mosche che dal mese di giugno si erano annidate nella sua casa a dispetto delle ripetute disinfestazioni. Doveva sbrigarsi, ma non stava bene lasciare a metà una conversazione, sia pure fessa e senza senso. E nemmeno quando l’interlocutore era uno di quei ragazzi stretto in un abituccio scuro e ‘nsiddato sul davanti, fatto apposta per esaltare una virilità di cui evidentemente difettava. Maddaloni era schiavo dell’affettazione. Si spruzzò sul collo del profumo e chiosò: «È per questo che in Sicilia giustizia non ce ne può essere: troppo caldo. Vi saluto colleghi, pasta e tennerumi: ecco l’unica cosa che in questo momento mi spercia, e poi due ore di sonno sotto al ventilatore!».

Era un uomo di gusti semplici, non c’è nulla di più raffinato della semplicità. Si calcò il panama sulla testa e si avviò per le scale, omaggiando il collegio dell’ultima perla di saggezza: «Pasta con le pezze! La minestra può sembrare una follia nel periodo estivo, ma per contrastare il caldo ci vuole altro caldo… E questa è cosa che possiamo capire solo noi siciliani. Buon fine settimana a tutti».

Sulla strada una luce tagliente lo investì. I raggi del sole si rifrangevano sulle pareti bianche del palazzo di Giustizia e ferirono i suoi occhi come fossero fiamma ossidrica. Aspettò sulla gradinata il tempo necessario perché si diradassero le mille stelline gialle che brillavano dietro alle sue palpebre. Si frugò nelle tasche alla ricerca degli occhiali da sole, niente. Ne perdeva un paio a settimana.

Giacomo, dannazione, dov’era finito? Si guardò intorno indispettito, quel posteggiatore era peggio di un latitante. La mattina arrivava veloce, con solerzia afferrava le chiavi della macchina, abile gli sfilava cinque euro dal portafogli e lo salutava inchinandosi: «Vossà ‘un dubita che la riporto sana e con tutte le cose a posto». Ma era una presa in giro, perché poi ci voleva un battaglione di carabinieri per ritrovare lui e la macchina. Lo sbaglio era suo che lo pagava in anticipo.

Ebbe un capogiro. Colpa dell’afa, o magari del calo degli zuccheri. Cercò tentoni un appoggio e si rese conto che si trovava in mezzo alla strada. Istintivamente fece due passi indietro e l’ombra lo accolse benevola. Doveva tornare a casa, mangiare al più presto, il suo corpo ne aveva proprio bisogno. La fame era un gorgoglio che si mischiava al frastuono del traffico e al rumore del vicino mercato. Le abbanniate dei venditori rimbalzavano da una cantunera all’altra, perdevano il loro vigore lungo il corridoio delle bancarelle e si arrestavano rispettose sulla gradinata del palazzo di giustizia.

«Giacomooo!» chiamò irritato. La sua voce ebbe un tremito sull’ultima vocale, tradendo una intima indecisione, roba da perderci la reputazione di uomo tetragono.

Un tipo dall’andatura scoordinata gli si faceva incontro. “Eccolo quel mascalzone” pensò sollevato. Ma la sagoma corpulenta non appattava con il corpo segaligno del posteggiatore. “Ma iddu è?” si chiese. Era sempre preoccupato per quei continui, inopportuni, supplichevoli questuanti che lo aspettavano ogni giorno all’uscita del tribunale. Chi chiedeva lavoro, chi prestazioni professionali, chi permessi per visitare parenti in carcere. «Dio nni scanzi e liberi!» esclamò facendosi il segno della croce. Ebbe l’impressione che quell’ombra scura che si stagliava in controluce sventolasse un mazzo di chiavi. Mise da parte ogni incertezza e urlò sempre più spazientito: «Giacomo, ‘unn’è la macchina?». Il pensiero che la pasta potesse scuocere – chiusa nella zuppiera ci vuole un attimo per diventare colla – lo fece andare su tutte le furie.

L’uomo piegò a destra, fece un giro largo, salì sul marciapiede camminando rasente le macchine parcheggiate e si ritrovò alle sue spalle, quindi l’affiancò. La sua ombra massiccia si allungava sull’asfalto vicino a quella smilza dell’avvocato. No, non si trattava di Giacomo, ma chi era? Maddaloni si girò per guardarlo dritto in faccia. Un cappellino blu con una visiera calata fin sul naso e un grosso paio di occhiali da sole lo rendevano irriconoscibile.

«Cu si? Fatti accanusciri.» O tempora, o mores! Anni prima nessuno avrebbe osato presentarsi a lui con il capo coperto. «Si può sapere che vuoi?» Il malessere aveva assunto la consistenza dell’inquietudine. Paventava una di quelle seccature che avrebbe potuto ritardare il pranzo e anche la siesta. E poi c’era lei, con i suoi piccoli seni a punta, ebbe un brivido di piacere e sorrise.

Lo sconosciuto sollevò la visiera, e finalmente Maddaloni seppe chi era. Che voleva ancora da lui quello scimunito?

Il primo colpo, violentissimo, arrivò sul ginocchio, l’avvocato cadde a terra con un rumore di canne spezzate. L’asfalto gli bruciò la pelle anche attraverso i vestiti. Gli effluvi del catrame bollente lo fecero tossire. Cercò di rialzarsi facendo leva sui gomiti. Il secondo colpo lo raggiunse al braccio destro, che si fratturò con un crepitio delicato. Ricadde di nuovo sulla schiena. In quella posizione il sole gli inondava il viso e lui riusciva a distinguere a malapena i contorni tremolanti dei palazzi. Ebbe la tentazione di chiudere gli occhi e abbandonarsi al torpore che saliva dalle viscere. Quell’onda di ottundimento prometteva sollievo, una sorta di anestesia naturale per il dolore lancinante che gli bloccava l’aria nei polmoni.

«Che minchia fai?» Ma non riusciva a respirare, figuriamoci a parlare, le parole sembrarono un rantolo.

«Vivo devi restare!» urlò l’aggressore. «Ti lassu vivu ma struppiatu», la mazza continuava a calare su quel corpo molle.

Ai bordi della strada, come statue di sale, un gruppetto silenzioso di passanti assisteva all’aggressione.

L’uomo colpiva con cadenza ritmica, un–due, un–due. La vittima fece appello a tutte le sue forze per sfuggirgli. Cercava di rotolare a destra e a sinistra, ma lui lo anticipava ogni volta aumentando un po’ l’apertura del braccio. L’elegante abito color panna dell’avvocato si era colorato di grigio e di rosso. Il corpo gli si era accartocciato e sembrava una triglia che un cuoco crudele abbia immerso, ancora guizzante, nell’olio bollente.

Poi l’aggressore, forse stanco, smise di picchiare, girò su se stesso come una strummula che sta per esaurire la spinta iniziale e si allontanò senza fretta. Pacificato, quell’uomo grosso, dai movimenti dapprima scomposti, aveva assunto un’andatura indolente e ampollosa, che trasudava orgoglio per il difficile compito portato a termine. L’avvocato, struppiato ma ancora vivo, sollevò la testa: «Rustica progenie…» mormorò. Avrebbe fatto meglio a dire una preghiera. Quelle parole biascicate dovettero suonare come un insulto perché l’altro si fermò di colpo su una gamba sola, sembrava un fenicottero titubante. Aspettò qualche secondo, quasi che un demone lo avesse acchiappato per la giacca e, tirandolo, gli impedisse di allontanarsi. Facendo perno sul piede che poggiava sull’asfalto, si voltò e tornò indietro. Raggiunto Maddaloni, lo afferrò per il bavero, lo sollevò da terra, lo strattonò più volte e lo lasciò cadere. Brandì quindi la mazza, prese la mira e lo finì con un colpo secco alla testa, che si spaccò manco fosse una zuppiera di porcellana sottile.

Quando il sangue cominciò a lambire le macchine posteggiate lungo la carreggiata, solo allora la gente intorno si scosse dallo stato di attonita immobilità e, libera dall’incantesimo, cominciò a urlare. Improvvise risuonarono le abbanniate e rimbalzarono frenetiche dalla cantunera, alla piazza, al quartiere. Questa volta non era il turno dei venditori, ma degli informatori. Di bocca in bocca la notizia dell’agguato attraversò la città. Palermo è una fitta rete di suoni.

Alla moglie la notizia giunse dopo poco, la minestra aveva già cominciato a scuocersi nella zuppiera, regalo di nozze della zia Santina.

Pasta con le pezze

Ingredienti

Spaghetti spezzettati

Tennerumi (pezze)

Pomodori pelati

Aglio

Olio extravergine d’oliva

Sale

Zucchero

Procedimento

Lavare le foglie e i germogli dei tennerumi in abbondante acqua fredda, lasciarli a bagno con un pizzico di sale per circa dieci minuti.

Soffriggere l’aglio, aggiungere i pomodori tagliati a pezzi, sale e un po’ di zucchero. Lasciar cuocere, quindi eliminare l’aglio e allungare con acqua. Portare a ebollizione, aggiungere i tennerumi spezzettati. Cuocere la pasta. Servire con olio extravergine di oliva a crudo.

Cosa sono i tennerumi? Le foglie delle zucchine lunghe.