VIII
Marò era seduta alla sua scrivania, stringeva tra le mani una tazza di caffè caldo e il suo sguardo vagava fuori dalla finestra, oltre l’enorme piazza Ruggero Settimo. Salì lungo la facciata del Politeama, vagò attorno alla quadriga di Apollo del Rutelli, scavalcò i cavalli bronzei del Civiletti, per poi perdersi sul tetto grigio–verde e scivolare verso il porto, era là che la conduceva l’irrequietezza. Le navi ancorate in attesa di salpare le mettevano addosso una strana eccitazione.
Il senso del dovere la riportò alla realtà. «Basta ricreazione» si disse, «è ora di cominciare a lavorare.» Ritornò ai fogli che aveva sulla scrivania, tra quelle righe c’era tutta la vita della vittima, che si intrecciava a quelle dei notabili dell’isola e non solo.
Rilesse con attenzione. Il morto era stato più volte assessore, alla Sanità, ai Lavori pubblici, alla Programmazione economica, consulente di un paio di ministri della Giustizia, aveva fatto parte dei consigli di amministrazione delle più grandi imprese, da tre anni era persino responsabile del comitato per i festeggiamenti di Santa Rosalia – insomma, sempre in mezzo come il prezzemolo. Da quel garantista che era aveva difeso con la stessa passione e il medesimo impegno mafiosi d’alto rango e delinquenti di piccolo calibro. E a tutti dispensava consigli, forniva sostegno, elargiva solidarietà. Le sue parcelle erano roba da miliardari, ma i meno abbienti potevano contare sul patrocinio gratuito. Su di lui mai l’ombra di un sospetto, una diceria, un pettegolezzo, nessun avviso di garanzia, né accertamenti fiscali: un galantuomo. Lo spartito della vita di Maddaloni non conteneva note stonate e l’intero pentagramma risuonava in piena armonia.
Accese il computer, digitò “Ruggero Maddaloni”. Comparvero una infinità di voci, tutte legate alla professione. Ridusse la ricerca alle immagini e con sua grande meraviglia ne comparvero solo tre, due formato tessera e una a figura intera. La ingrandì. Era una tipica faccia siciliana, con i capelli corti brizzolati, un taglio all’ultima moda, da architetto berlinese. Eccola, la prima nota stonata. Gli occhi chiari e vacui, il naso aquilino, i baffi da carabiniere, il doppio mento. Non sembrava muscoloso, ma doveva essere forte se aveva resistito a quella gragnuola di bastonate. Se non gli avessero dato quel colpo in testa… lo fissò a lungo negli occhi, ma cosa sperava, che quel volto sullo schermo si mettesse a parlare e magari le suggerisse il nome dell’assassino?
“Dopo anni di burocrazia il mio intuito è andato a farsi fottere” si rammaricò la commissaria. Si sentì a disagio e anche un po’ stupida. Quindi chiuse tutto, arrabbiata con se stessa, afferrò la borsa e uscì dal commissariato.
L’ispettore Fedeli la intercettò nel corridoio: «Dottoressa, ci sono i verbali degli interrogatori dei testimoni».
«Dopo, Fedeli, ora non posso.» E corse fuori, aveva bisogno di respirare.
La piazza assolata era piena di gente. Palermo non si vuota mai, se non nel giorno di Ferragosto, e solo all’ora di pranzo. I fumi del traffico la fecero starnutire. Per sfuggire allo smog si incamminò verso via Principe Belmonte, l’unica isola pedonale in tutta la città. Marò aveva una terribile sensibilità ai pollini e agli agenti inquinanti, che sfociava facilmente in allergia. Il suo naso, nel corso del tempo, si era allargato e campeggiava, importante e solido, al centro del volto. Oltre al volume, era aumentata anche la percezione degli odori, a conferma del fatto che la funzione sviluppa l’organo. Affinato questo suo talento naturale, era diventata un formidabile segugio: riusciva persino a catalogare le persone sulla base dell’afrore che emanavano. Le capitava per esempio di annusare un profumo e poi prevedere le intenzioni di chi lo portava. Quelle narici svasate conferivano al suo viso un’espressione seria e indagatrice, molto appropriata ora che faceva l’investigatrice sul serio.
Si fermò al bar per una granita di gelsi, ottimo antidoto contro il caldo. Di nuovo in strada, lo sguardo spaziava tra le vetrine eleganti e si incantò su quella di una gioielleria.
Una collana antica attrasse la sua attenzione. Immersi in una fitta rete di pampine delicate, piccoli melograni scolpiti in un pezzo intero di corallo di Sciacca mostravano i loro chicchi sugosi. Entrò e chiese di provarla. Al collo le sembrò ancora più bella. Indecisa, si pavoneggiava allo specchio, del tutto dimentica dell’ansia che da qualche giorno le serrava il petto. Chiese il prezzo, costava molto.
«Sa che il melograno è simbolo di fertilità? Questa collana è una sorta di talismano, guardi quante granatine» disse sussiegosa la commessa.
Marò l’acquistò e dopo si sentì meglio. Non aveva più voglia di chiudersi in ufficio, così decise di andare a trovare la vedova Maddaloni. Chiamò il commissariato per avere l’indirizzo, via Principessa Clotilde, Aspra. Perfetto, proprio quello di cui aveva bisogno, una passeggiata al mare.
Ci andò in moto. Bella, a cavallo di una magnifica Vespa primavera del 1968 di un rosso rutilante, faceva voltare gli uomini al suo passaggio. Ferma al semaforo, un vigile le fece cenno di indossare il casco. «Troppo caldo per ubbidire alle leggi!» rispose con uno dei suoi migliori sorrisi. Ma poiché lui insisteva, Marò tirò fuori il tesserino da poliziotto. I piccoli privilegi erano la parte migliore del suo lavoro. Il vigile salutò con eccessivo ossequio, era chiaro che la prendeva in giro. Il semaforo si fece verde e lei dovette ripartire, rimase sull’asfalto l’impronta del suo tacco.
La fila di eritrine color fuoco ondeggiava alla brezza e a via Messina Marina comparve il mare. Marò guidava con gioia: su quella Vespa si sentiva libera, il vento tra i capelli le dava una sensazione di felicità piena. Godeva del paesaggio così maltrattato eppure ancora magnifico.
La villa era chiusa da un cancello verde, il profumo delle magnolie si mischiava a quello di pitosforo, troppa grazia per il suo naso. Ebbe quasi un capogiro, un olfatto come il suo poteva diventare una maledizione.
Si coprì le narici con un fazzoletto e poi suonò con delicatezza. Un cameriere, forse tunisino, la guidò all’interno. La vedova era seduta all’ombra di un ficus gigantesco, stringeva tra le mani una grossa Bibbia dalla copertina in cuoio.