XIII

Cangemi fermò la macchina al limitare di corso Umberto, dove una piazzola segna la fine del paese e l’inizio della provinciale, alle spalle del cimitero. I cipressi proiettavano le loro ombre ben oltre il muro di cinta. L’aria profumava di resina. D’Alessandro scese e si appoggiò allo sportello. Da lì godeva una magnifica visuale: davanti a lui la strada principale fino alla piazza, alla sinistra la campagna gialla di grano. Accese una sigaretta, la mente sgombra da ossessioni sessuali, e si sentì finalmente in pace con se stesso.

«Cangemi, sai che ti dico? La giornata è bella, lo senti questo venticello che viene da lontano a scompigliare l’erba e le idee?»

«Sì, signor commissario, lo sento!»

«E lo sai, Cangemi, che vuole dire?» la domanda per la verità era retorica, ma l’ispettore rispose lo stesso: «Nossignore».

«… vuole dire che non dobbiamo stare ‘nchiusi, lavoriamo all’aria aperta, che la nostra salute ne guadagna.»

Proprio in quel momento si sentì un rombo assordante.

Una moto di grossa cilindrata aveva attraversato la piazza scodinzolando con la ruota posteriore, aveva saltato a manetta due marciapiedi ed era uscita da Tummina inseguita dal solito coro di maledizioni. I pochi metri prima del cimitero li aveva percorsi su una ruota sola: le pinne faceva, quello scimunito, e senza casco. La marmitta poi perforava i timpani.

«Minchiaaa!» urlò sorpreso il centauro.

Sasà era comparso all’improvviso dietro la curva, mentre lui a tutta velocità percorreva la strada con la moto così inclinata che il cavalletto faceva scintille sull’asfalto. La brusca frenata quasi lo disarcionò. «Minchia!» esclamò ancora una volta, mentre il Sostituto, senza muovere un muscolo, ordinò: «Documenti», e la sua voce pareva venire direttamente dalle viscere della terra.

«Qua ci sono il libretto e la carta d’identità», il ragazzo stava in piedi con le gambe larghe, una mano dentro la tasca, l’altra dritta davanti a sé stringeva un foglio di carta; dietro agli occhiali scuri si indovinava lo sguardo di sfida, le labbra carnose erano appena socchiuse, la bocca una fessura, giusto lo spazio sufficiente a far passare l’aria per respirare.

«Talè, Salvatore Incognito si chiama, il picciotto. Levati gli occhiali che ti voglio guardare negli occhi.»

Cangemi lo prese da parte: «Dottore, lassassi perdere, lo sa come sono i ragazzi, ci piace correre, fare scrusciu».

«Secunnu tia sto perdendo tempo?»

“Tempo ed energia” pensò l’ispettore.

«Ti pare a tia, Cangemi. Io sto combattendo la mafia. Lo so che tutti vi aspettate cose dell’altro mondo, sparatine, inseguimenti, ammazzatine. E invece no: io la penso diversamente.»

Ma cosa sperava di ottenere da quel picciutteddu di sedici anni, anche se era figlio del famoso Pinuzzo Incognito? Questo pensava l’ispettore, tuttavia non volle insistere: «Come dice lei», e si mise da parte.

Il ragazzo era nervoso. Troppo giovane per essere punciutu, i suoi occhi tradivano timore nei confronti dell’autorità. Per ora è così, pensava Sasà, ma tra non molto lo inizieranno. E quando gli faranno uccidere il suo cavallo, o il cane amatissimo, o magari lo scecco che cavalcava da bambino, allora non avrà più paura di niente e di nessuno, e sarà uguale a suo padre, o anche peggio.

Sasà ne aveva visti tanti di simili cambiamenti, perciò cercava di intervenire prima del battesimo, era convinto che in quella fase c’era ancora margine di recupero. Prevenire in fondo è meglio che curare.

«Me la fa vedere l’assicurazione, signor Salvatore Incognito? O preferisce che la chiamo Totò?»

“Di nuovo la camurria dell’assicurazione” pensò Cangemi, “ne ha gana di perdere tempo!”

Sasà sapeva che quella strategia prima o poi avrebbe dato i risultati sperati. In tanti mesi di appostamenti, grazie alle sue iniziative bislacche, come le definivano i colleghi, i paesani avevano cominciato a comportarsi meglio. Le regole, almeno all’apparenza, le rispettavano: miracolo o semplice casualità?

«Che fa, vuole babbiare, commissario? L’assicurazione non ce l’ho» rispose il ragazzo seccato. Benché timoroso, come tutti gli adolescenti aveva assunto un atteggiamento arrogante.

«È lei, signor Totò Incognito, che ha gana di babbiare! Che fa, la lasciò a casa? No, perché se proprio non la possiede io le sequestro il motore e lei le pinne le può fare sulle gambe, e il rombo della marmitta con un pirito!»

«Commissario, è un ragazzino» tornò a insistere Cangemi. «Chiudiamo un occhio per questa volta», in fondo quel picciutteddu poteva essere suo figlio.

«Che fai, ti cachi sotto di Totò Incognito? O forse è a suo padre che pensi?» lo rintuzzò Sasà. L’ispettore questa volta avvampò, ma non era tipo da scatenare duelli.

D’Alessandro non aveva nessuna intenzione di soprassedere, era venuto a Tummina per dare due mazzate e farsi quattro scopate, e fino a quel momento non era riuscito a fare nessuna delle due cose. E ora che gli si presentava l’occasione di dare fastidio a uno della famiglia Incognito…

«Sai che c’è di nuovo, signor Totò? Il motore è sequestrato, cominci a camminare all’appiedi!»

«Commissario, perché proprio a me?» La voce del ragazzo era diventata piagnucolosa. Preferiva umiliarsi con uno sbirro piuttosto che passare per coglione davanti ai suoi parenti: “Che gli dico a mia madre” pensava, “che quel fissa del commissario mi ha sequestrato la moto perché non ho una minchia di polizza assicurativa?”.

«Perché lei, signor Incognito», nel pronunciare quel cognome Sasà sentì le budella farsi a matapollo, “perché lei…” si fermò di nuovo, fu afferrato dall’urgente bisogno di correre al gabinetto «lei non ha l’assicurazione e gli altri sì» concluse veloce.

«Cangemi, metti a verbale, e sbrigati!» Poi si rivolse a Gianni e Pinotto che avevano assistito alla scena con sorrisi di scherno e aggiunse in tono retorico: «Le piccole violazioni sono il punto di partenza per crimini più gravi, creano l’abitudine all’inosservanza delle regole, forgiano personalità inclini a delinquere e, dagli e dagli, si creano le fondamenta del sistema mafioso. E guardate che non l’ho inventato io, ma Hannah Arendt, è questa la banalità del male!».

«Dottore» l’ispettore fece ancora un tentativo, «forse lei non lo sa, ma a Tummina nessuno fa assicurazione, tanto si sbattono tra di loro parenti e nessuno dice niente se il cugino gli ammacca la macchina.»

«Ah, così è? Sai che ti dico Cangemi, che la moto del signor Incognito», di nuovo un movimento delle viscere, «noi intanto la sequestriamo e, visto che qua non si usa rispettare la legge, ora chiamo rinforzi da Palermo, metto uomini a ogni cantunera, con l’ordine di fermare tutti: motori, macchine, trattori, biciclette, tricicli, e se manca l’assicurazione devono sequestrare il mezzo e denunciare il proprietario. La legge prescrive questo e nessuno può comportarsi diversamente.»

In capo a pochi giorni metà della gente di Tummina si trovò senza mezzi di trasporto e senza strumenti di lavoro. La protesta esplose furiosa e arrivò a Palermo, sotto alla questura, il 14 luglio, per i francesi la presa della Bastiglia, per i siciliani il giorno del fistino di Santa Rosalia.