Capitolo ottavo
Si svelano dei peccati che sbalordiscono il confessore

Nei giorni che seguirono a quella domenica d’umiliazione, mio padre fu assiduo al suo lavoro, sì che lo vidi irregolarmente e di sfuggita. Stava così per conchiudersi un’altra settimana: il venerdì (s’era ai trentuno di luglio), mio padre usci di casa nelle prime ore del dopopranzo, essendo di turno sul postale delle quattro, che rientrava nella nostra città all’alba del giorno dopo. Io stessa, rammento, gli preparai il cartoccio della cena: era infatti uno dei miei onori, in quell’età, di farmi assegnare un tal genere d’incombenze, e mettevo grande impegno nella fattura d’involti e di pacchi, sfoggiando addirittura un’arte raffinata nell’annodarne con bei fiocchi la cordicella. In particolare, quel giorno, mio padre si compiacque con me per l’eleganza del cartoccio; e me ne ricordo ancora, perché, da qualche tempo, avveniva di rado ch’egli prestasse attenzione a simili puerilità.

Alle prime luci della mattina seguente, io fui destata di soprassalto dal suono del campanello d’ingresso. Ancor mezzo addormentata, faticando a dissigillare le palpebre, mi dissi che certo mio padre, il quale appunto a quest’ora doveva rincasare dal suo servizio, aveva dimenticato, il giorno avanti, di prender seco le chiavi.

Non era la prima volta che ciò accadeva; e di malavoglia mi accingevo a scender dal letto per andare ad aprire quando, allo strider che fece l’uscio della stanza di fronte, e ad uno scalpiccìo di piedi nudi nel corridoio, intesi che mia madre m’aveva preceduto, e prontamente correva alla porta.

Già il sopore mi riafferrava, allorché udii suonar nell’ingresso una voce estranea, maschile, e blandamente ovattata, la quale, fra altre parole che non distinsi, pronunciava il nome di mio padre; e a cui la voce di mia madre rispondeva appena con dei mormorii. Dopo un istante, mia madre irruppe nella mia camera come un’inseguita e tratte fuor dell’armadio le sue vesti da uscire, prese a vestirsi con dita rapide, incoerenti, che penavano a stringere i ganci e i lacci. La luce biancastra del giorno accentuava il suo pallore; ella mi volse in fretta, nel vestirsi, gli occhi dilatati e attoniti, e mi disse di rimanere a letto quanto volevo, e di non uscire di casa, e di non aprire a nessuno se udivo suonare alla porta, ché, quanto a lei, per rientrare aveva le chiavi. Doveva recarsi fuori senza indugio perché mio padre era rimasto ferito in una disgrazia, e le era impossibile dirmi, adesso, a che ora precisa potrebb’esser di ritorno. Certo sarebbe tornata presto; ma se mi veniva fame, mangiassi pure, senza aspettarla, ciò che potevo trovare nella credenza.

Disse queste cose con una voce affrettata e atona; e un minuto più tardi, udii l’uscio d’ingresso sbatter forte dietro di lei.

Non fui più capace di riaddormentarmi; caddi però in un torpido, interrotto dormiveglia, che durò forse un paio d’ore. Il sole era già alto quando m’alzai: mi diedi a rifare i letti, e spazzar le stanze alla meglio, ma tosto mi mancò la volontà di condurre a fine queste abituali faccende. E per ingannare le ore di quella strana mattinata, presi a sfogliare i miei vecchi libri di scuola, e il romanzo di corsari donatomi da mio padre nel precedente inverno: romanzo che, peraltro, conoscevo ormai quasi a memoria.

S’udì finalmente lo scampanio del mezzogiorno; io ero digiuna dalla sera avanti, ma volli ritardare più che potevo l’ora del mio pasto, nella speranza che mia madre tornasse a tempo per desinare insieme. Ogni occupazione o distrazione utile a ingannar l’attesa mi venne a fastidio; e da questo momento, io non seppi far altro che vagare per le stanze, ora ponendomi in vedetta all’una o all’altra finestra che dava sul cortile, con gli occhi fissi all’arcata dell’androne, donde mia madre poteva spuntare all’improvviso; ed ora tenendomi all’erta in anticamera, gli orecchi tesi ai minimi rumori della scala. Ma dopo aver aspettato invano fin oltre le due e mezzo, trassi dalla credenza un poco di frutta e di pane avanzato dal giorno prima, e mi ritirai nell’anticamera semibuia per consumare qui, sola sola presso l’uscio, la mia colazione.

Or mentre, appollaiata sulla cassapanca, mangiucchiavo svogliata il mio pezzo di pane bagnato di lagrime, s’udì sul ballatoio un rapido batter di tacchetti di legno, quasi in corsa affannosa. La voce strappata e rauca del nostro campanello d’ingresso echeggiò più volte sul mio capo, quindi una mano impaziente si dette a picchiare con rabbia contro l’uscio; e com’io, che trattenevo il fiato, feci involontariamente cigolare la cassapanca su cui sedevo, raddoppiò i colpi. lo balzai giù dalla cassapanca; senza por mente a quel batter di tacchetti da donna poc’anzi udito, pensai trattarsi, forse, del Maresciallo dei Carabinieri, deciso a entrare armato, in nome della Legge, e con voce affiochita dal terrore m’indussi a domandare: – Chi è?

Una voce femminile, singhiozzante e frenetica, ma in cui vagamente avvertivo degli accenti non nuovi, proruppe allora di là dall’uscio: – Chi c’è? chi c’è in casa?

Sei Elisa? sei Elisa? – Si, – balbettai, – sono Elisa. – Apri, apri, Elisa, apri subito, – mi sollecitò la signora invisibile, riprendendo a picchiare. In preda ad acuto orgasmo, esclamai: – Non posso, in casa non c’_ nessuno, la mamma non vuole ch’io faccia entrar gente –. Ma l’ostinata visitatrice mi scongiurò di rimando: – Ah, per amore della Madonna, apri, apri, Elisa mia, – con un pianto così straziato, e un accento così irresistibile, ch’io dimenticai gli ordini materni, e mi risolvetti a ubbidire. Timida, però, e circospetta, andavo schiudendo l’uscio pian piano; quand’ecco, una spinta impetuosa dal di fuori me lo spalancò, gettandomi quasi in terra; ed entrò Rosaria.

Malgrado il mio turbamento, io mirai stupefatta lo straordinario e indecoroso disordine della sua persona.

Ella non aveva cappello, e la sua gran criniera cresputa, libera da pettini e da forcine, le si arruffava intorno al capo, come certe volte ch’ella ci aveva ricevuto in vestaglia o a letto. Non portava addosso alcun gioiello, e indossava per tutto vestito un soprabito da estate di seta nera, che teneva chiuso brancicandolo con una mano sul petto, e sotto il quale, come apparve al suo primo brusco movimento, era mezza nuda, discinta e senza busto, come fosse in camera sua.

Entrata che fu, ella gettò uno sguardo smarrito verso il corridoio, poi, curva su di me, di nuovo m’interrogò s’io fossi sola, se in casa non vi fosse nessun altro. E mentr’io rapida annuivo, mi strinse il volto fra le palme madide e fredde e incominciò a domandarmi in tono di minaccia: – E lui dov’è? non è qui? dove l’hanno portato? dov’è! dov’è! – Non sapendo che rispondere, io badavo a ripetere che mio padre era assente da ieri per il suo servizio, e che mia madre era uscita appena fatto giorno perché eran venuti ad avvisarla ch’egli era ferito.

Allora Rosaria mi lasciò, e si sedette sulla cassapanca, e com’io, richiuso l’uscio, accesi la luce elettrica per non lasciare l’ospite al buio, lei, seduta in posa scomposta, la bocca semiaperta e affannosa, si diede a fissare con attenzione i quadrati del pavimento male rischiarati dalla lampada. Ripeteva con aspra monotonia, come una demente: – Ferito! ... sì!... ferito... Ferito... é rimasto ferito! – Poi, levato su di me uno sguardo avverso, pieno di strano abbrutimento e di stupefazione, usci d’un tratto in un alto gemito acuto, quasi cantante. E scrollando il capo con frenesia, con una voce che mi ricordò mia madre alla funebre nuova del cugino o la gatta di Gesualdo in cerca dei suoi figli, con una simile voce cupida, bestiale e interrogativa, si dette a invocare il nome di mio padre.

Di quando in quando, nel chiamare: – Francesco!

Francesco mio! Francesco mio! – s’interrompeva, e simile a un bambino che altri cerchi distrarre dal suo pianto, fermava un poco su di me, o sulle mattonelle per terra, uno sguardo ingrandito e perplesso. Ma tosto, come se una mano violenta la riscotesse dal trasognamento passeggero, usciva ancora una volta nel suo strano grido selvatico, ricominciando a squassare il capo. Quanto a me, addossata a un angolo del muro, in piedi, la guardavo senza ben capire, e non sapevo far altro che piangere insieme a lei.

Finalmente, ella parve riaversi un poco, e, avvertendo su di sé il mio sguardo stupito, si ricompose il soprabito sul petto. Poi mostrandomi un viso mutato, compassionevole e materno, incominciò a recitarmi la cronaca del suo dolore, al modo delle semplici donne del popolo: con mille particolari, e insistenza, e ripetizioni, quali ritornelli d’un cantico luttuoso, in una voce paziente e piena di strazio. La cosa che le pareva soprattutto amara, incredibile e a cui, senza potervisi rassegnare ella ritornava più spesso nel suo racconto, era di non avere, fino a pochi minuti prima, saputo né presentito nulla, lei, Rosaria, di quanto era accaduto a mio padre nella notte.

Era uscita verso le undici, così raccontava, e se ne era andata a spasso in carrozza, spensierata, tranquilla, fermandosi qua e là a fare acquisti nelle botteghe. Quindi s’era attardata in una pasticceria con certe sue amiche; e verso il tocco, nel tornarsene a casa, aveva fatto fermare la carrozza davanti a un giornalaio: e il vetturino al suo comando era sceso ad acquistare per lei la più recente edizione del giornale. Riservandosi di farselo leggere, più tardi, da Gaudiosa, per un’ora, a casa, ella aveva avuto quel giornale sotto gli occhi, senza sospettare di niente; e toltasi l’abito accaldato e il busto, liberatasi del cappello, delle forcine e dei monili, aveva pranzato, mentre Gaudiosa, per alleviarle il gran caldo, la sventagliava col ventaglio. Sì, aveva mangiato, s’era rimpinzata con tutto il suo comodo, e il giornale stava ripiegato lì davanti a lei, su quella stessa tavola! Preso il caffè, e sdraiatasi per la siesta, ella, come soleva avanti di prender sonno, aveva ordinato a Gaudiosa di leggerle sul giornale i titoli di cronaca e gli spettacoli della sera. E soltanto allora, nel momento preciso che Gaudiosa pronunciava le parole: Ultime notizie della notte, aveva avvertito, o almeno le pare adesso, una sorta di puntura nel petto, come un presentimento. Ma era stata una cosa da poco, impercettibile, tanto è vero che un momento dopo, udendo il titolo Tragico infortunio d’un impiegato ferroviario - Travolto mentre tenta di risalire sul treno in corsa, ella non aveva considerato il fatto degno d’interesse, e aveva lasciato che Gaudiosa passasse ad altri titoli.

Dopo un istante, tuttavia, ripensandoci, aveva ordinato a Gaudiosa di tornare indietro, e di leggere per intero il fatto dell’infortunio; ma nemmeno stavolta, a una prima lettura, aveva afferrato il senso preciso della notizia, pur udendo Gaudiosa compitare dal foglio stampato il nome De Salvi Francesco; ed era rimasta titubante e quasi incredula, sì che, per suo comando, Gaudiosa aveva dovuto rileggerle l’intero articolo, parola per parola. Udito l’ultimo periodo che terminava: ... tratto di sotto le ruote in fin di vita, urlando ella aveva strappato alla serva il giornale, e febbrilmente, fra quelle migliaia di segni indecifrabili, s’era data a cercare le righe funeste, come se a lei, del tutto analfabeta, potessero significare alcunché, o dare una conferma o una prova. Ebbene, mentre fissava quella stampa, proprio come se vi leggesse, ella aveva acquistato finalmente una precisa contezza della verità.

In quell’istante medesimo, tutti i suoi cinque sensi s’eran fusi nell’unica impressione d’un rombo fragoroso e d’un turbinìo, come di torrente che faccia girar le ruote d’un mulino. La sua ragione s’era oscurata; e senza conoscere le proprie mire e le proprie speranze, ella s’era buttata addosso un soprabito, infilata le scarpe; e, respinta da sé Gaudiosa, era corsa in istrada, dove, salita su un’automobile pubblica, aveva gridato al conducente il nostro indirizzo. Era questa infatti la prima direzione suggeritale dalla mente in tumulto: giacché il giornale, nella sua succinta cronaca dell’infortunio, si limitava a raccontare che questo era avvenuto di notte, in aperta campagna, in seguito a una fermata sussidiaria del treno, ma non precisava il nome della località, né diceva dove fosse stato trasportato il ferito. Egli era stato raccolto «in fin di vita», così conchiudeva l’articolo del giornale. Stanotte, mentre lei, Rosaria, dormiva come una bestia, il suo Francesco era caduto steso nel proprio sangue. E nessun sentimento, nessun sogno l’aveva avvertita. Lei dormiva!

Non sapevo io dunque, almeno, s’egli fosse stato portato in un ospedale della nostra città, ovvero si trovasse in qualche paese più vicino al luogo della disgrazia, lungo il percorso della ferrovia? Non avevo sentito dirne niente da mia madre? Nel farmi queste domande, la voce di Rosaria non mutava quella sua dolorosa, uniforme intonazione da cantatrice; e nel suo viso un po’ reclinato sulla spalla s’era fissata una strana mansuetudine, come s’ella ripetesse le proprie interrogazioni alla guisa d’un motivo, non perché nutrisse ancora una qualsiasi speranza. Alle sue domande, intanto, io scuotevo il capo per dire che no, non sapevo nulla più di quel che lei medesima, Rosaria, mi aveva raccontato adesso adesso. Ciò intendevo rispondere; ma potevo soltanto accennarlo, perché le lagrime m’impedivano la voce.

  

L’infortunio, come si seppe in seguito, era avvenuto a circa novanta chilometri dalla nostra città; e i testimoni della scena non avrebbero potuto farne una descrizione gran che più prolissa delle poche righe uscite sul giornale, tanto essa era stata rapida e improvvisa. La colpa non era di nessuno, se non della vittima: la cui disgrazia era stata di quelle che la gente suol chiamare «stupide» e «gratuite», tanta è la sproporzione fra la posta e il rischio, fra l’effetto e la causa.

Ecco, dunque, la storia della disgrazia di mio padre, quale fu poi raccontata da un altro impiegato, suo compagno di scompartimento.

Il treno postale, sul quale essi erano di turno, s’era fermato in aperta campagna, a circa novanta chilometri, come s’è detto, dalla nostra stazione, per una manovra di servizio. Era ancor notte piena, ma dall’oscurità non veniva nessun alito di frescura; e, alle fermate, cessato l’effimero vento della corsa, il vagone-ufficio era soffocante. Dalla campagna secca e deserta sotto il plenilunio si udiva un rumore d’acqua, come d’un fiumiciattolo o sorgente che scendesse da qualche collina a pochi passi di là: e mio padre volle approfittare della sosta per uscire all’aperto, bere e rinfrescarsi il viso. Anzi, poiché l’acqua della bottiglia a cui lui stesso e il suo collega si dissetavano s’era intiepidita al caldo afoso e dava nausea piuttosto che ristoro, egli prese la bottiglia seco, ponendola nell’ampia tasca del suo camice di servizio per riempirla d’acqua più fresca; e scese, lasciando a custodia dell’ufficio il suo compagno. Questi, chiamato di lì a poco per la consegna di certi plichi in uno scompartimento vicino, vi rimase due o tre minuti; e tornò al suo tavolino che già il treno si rimetteva in moto; ma, pur vedendo vuoto il posto di De Salvi, non se ne preoccupò affatto, convinto che, risalito da un’altra parte, il compagno non tarderebbe a rientrare nel loro piccolo ufficio.

La macchina già accelerava la corsa, quando, dal finestrino aperto, egli credette di distinguere, nel fragore, dei gridi di richiamo. E si affacciò a tempo per vedere, sul nero suolo coperto di crepe, alla piena luce lunare, De Salvi che, nel suo camice sventolante, correva a precipizio verso il convoglio; evidentemente egli aveva male calcolato il tempo della manovra e s’era allontanato di troppo dalla ferrovia. Ancora una diecina di metri lo dividevano dal treno in corsa.

L’impiegato s’era appena sporto per gridare al compagno di non fare imprudenze, che già l’altro, raggiunta una vettura, riusciva ad afferrarsi a una maniglia, e anche ad aprire lo sportello: difatti questo fu trovato aperto e, anzi, fu certo la sua spinta medesima a gettare in terra il De Salvi. In quel punto l’impiegato affacciato, che per l’avanzar del convoglio aveva ormai perso di vista il compagno, credette di udirne l’urlo; ma forse fu allucinazione, perché la velocità del treno era già forte, e il frastuono avrebbe coperto la voce del caduto. Ad ogni modo, fu dato immediatamente l’allarme, e il macchinista frenò senza indugio; ma il temerario De Salvi era stato ormai travolto dalle ruote.

  

In tal modo s’era svolta la scena dell’infortunio, secondo la descrizione che, in seguito, ripetuta più e più volte, Rosaria ed io dovevamo udire dall’impiegato viaggiante ch’era stato compagno di mio padre sul postale notturno del 31 luglio. Così pure dovevamo apprendere che a questo medesimo impiegato, non appena, sul far dell’alba, il treno aveva raggiunto la nostra città, era stato affidato l’incarico di avvertire la signora De Salvi; ed era di lui la voce che avevo udito parlare piano nell’anticamera mentre semisveglia giacevo in letto. L’impiegato, del quale avrò occasione di parlare ancora prima di chiudere la nostra vicenda, si chiamava Giuseppe Restivo; il suo aspetto, come vedremo, era giovane, gradevole e assai bonario. Ma il suo nome e la sua persona e ogni altro possibile particolare sulla disgrazia erano ancora ignoti a me e a Rosaria in quel pomeriggio del primo d’agosto, allor che ella mi ripeteva le frasi lette sul giornale dalla piccola serva. E alle rotte sue frasi in aperta campagna, raccolto in fin di vita, d’un tratto la mente mi dipinse una scena immaginaria, che a me parve un ritratto del vero. Mio padre giaceva sanguinante in quella pianura fuligginosa e gelida che avevo intravista mesi prima, dopo l’unica visita fattagli con mia madre alla stazione; e su e giù, attraverso il piovasco, si aggiravano indifferenti, affaccendate, le nere figure degli operai.

Mentre, dondolando il brutto capo occhialuto dal finestrino dell’ ambulante, ovvero sopravvenendo in groppa alla sua cavalcatura, si chinava su di lui con un maligno sorriso, unico suo soccorritore, unico suo compagno, l’odiato cavaliere Caboni.

Sebbene io non avessi mai amato mio padre, tale immaginazione mi fu così insopportabile da inaridirmi perfino il pianto negli occhi. Le membra tese e rigide, ma scosse da un sussulto convulsivo, io gridai con agra voce di ribellione: – No! no, fa’ che non sia vero, Gesù mio! fa’ che non sia vero! – e mi accasciai presso la cassapanca, in modo così violento che i miei denti serrati batterono contro il legno dell’orlo.

Non saprei descrivere la terribile, arida passione che attraversava in quel momento il mio cuore. Fissavo Rosaria con occhi asciutti, senza vederla, e più tardi ella mi disse che i miei denti stridevano e che in faccia ero diventata verde come una serpe. Al guardarmi, ella fu assalita da rimorso e acquistò d’un tratto coscienza della brutalità con la quale, accecata dal proprio dolore, aveva annunciata la sorte di mio padre a me sventurata bambina. La pietà le ridonò subitamente un lume di ragione, e, fattasi in fretta il segno della croce per chieder venia al cielo della propria leggerezza, ella si chinò su di me, e stringendomi con dita affettuose le spalle, e poi chiudendomi fra le palme il volto, mi chiamò con voce supplicante: – Elisa! che c’è? hai male? no, no, non far così! Elisa! Elisina mia! – (prima di lei, nessuno aveva usato, per chiamarmi, simili diminutivi). Quindi, sollecita, corse a cercar dell’acqua, poiché temeva ch’io svenissi; ma, agitata com’era, e non pratica della casa, dovette armeggiare alquanto per le stanze avanti di trovare quel che le occorreva. Ritornata, mi fece bere tenendomi sulle sue ginocchia e porgendo il bicchiere ai miei labbri, come s’io fossi una bambina malata. E in un pianto dolce e misericordioso, stringendomi al suo petto e accompagnando ogni mia sorsata con un bacio, m’andava dicendo: – Su, càlmati, non vedi chi c’è qui con te? C’è qui Rosaria tua che ti consola –. Bevuto che ebbi qualche sorso, io scostai dai miei labbri il bicchiere, ed ella, docile, lo posò sulla cassapanca presso di sé: – Maledetta che sono, – ripeteva, cullandomi e picchiandosi ogni poco la bocca con la palma, – ho parlato come una pazza, come se fossi qui a sfogarmi con gente della mia età, senz’avere né riguardo né compassione per questi poveri orecchi innocenti. Perdonami, perdonami, angioletta mia, perdona a questa malnata villana. Non riconosci più la tua Rosaria? Pure le volevi bene una volta –. A queste parole, suscitatrici di ricordi, il suo pianto ridiventò cupo e disperato; ma bruscamente, quasi ribellandosi contro il nuovo assalto delle sue passioni, ella si levò in piedi, dicendo: – Andiamo, andiamo di là, – e mi portò sulle sue braccia in salotto, per adagiarmi sul divano-letto di mio padre.

Io la miravo, grata; né capivo ch’ella era di nuovo in uno stato quasi vaneggiante, e aveva ben altri in mente che me, pur se ubbidiva alla sua strana ispirazione materna. Dalla quale era spronata a una lotta innaturale contro i propri dolorosi impulsi, e a distornarsi dal proprio pensiero con delle ciarle: – Madonna, come s’è ridotta, questa ragazzina! – prese a dire con una voce schiantata e aspra, deponendomi sul divano, – è scheletrita, pesa meno d’un agnello –. E inginocchiata in terra presso di me, con dei gesti carezzevoli, ma con un viso che la repressa angoscia stravolgeva quanto una rabbia, andava considerando la mia persona, la quale in verità negli ultimi tempi s’era dimagrata all’estremo. Soppesava il mio braccio, i miei polpacci, mi sfiorava la spalla e le scapole sporgenti, mi stringeva appena appena, quasi a misurarmele, la vita e le caviglie; e commentava nel tempo stesso, con quella rauca voce stonata: – Ma guardate che braccino scarnito! che spallucce ha questa creatura! e il collo, che si può rinchiudere in due dita sole, come quello d’un passero! – A questo punto, ella storse con disdegno la bocca convulsa, ed ebbe negli occhi ancor pieni di strazio e lagrimosi un lampo di rancore: – È proprio vero, – enunciò, – che dal vitellino si può conoscere la buona vacca. E la tenesse almeno vestita come si deve, le mettesse addosso qualche straccetto pulito! – Nel dir così, ella esaminava con disprezzo le mie povere vesticciole; ma io, che giacevo ancor mezzo tramortita e tutta tremante, non coglievo nei suoi discorsi i dispregi né le critiche dirette contro mia madre. Neppure alle sue smorfie strane e violente io non davo alcun significato, e contemplavo estatica il suo volto come una maschera misteriosa. Una cosa sola era certa per me: la consolazione del suo tocco gentile e delle sue carezze. Difatti, fra quei suoi pettegolezzi deliranti e quei suoi spasimi, Rosaria mi copriva tuttavia di carezze e di baci: in virtù dei quali il color naturale ritornò sulla mia faccia, e le mie labbra, per ringraziare, accennarono un piccolo sorriso.

– Eh, povera bambina disgraziata, disgraziata come tuo padre! – esclamò Rosaria tentennando il capo con una espressione di furia; poi mi domandò se avessi mangiato qualcosa. Ma senza badare ai miei confusi cenni di risposta, m’investì d’un tratto esclamando: – E tua madre non poteva affidarti a una vicina, a una parente, a qualche diavolo? si lascia una creatura sola tutto il giorno senza un cane che le badi, a rischio di farla morire di paura! Ma già, – soggiunse drizzandosi in piedi, – lei certo non ti può soffrire, come non può soffrire tuo padre. Lei non ha viscere di madre: io, benché sporca, benché malafemmina, mi sento d’aver viscere cristiane meglio di lei!

Così detto, girò per la stanza il viso sfigurato, con uno sguardo non si capiva se d’amore o d’odio; e uscendo in un singhiozzo terribile proruppe: – È lei la colpa di tutto! È lei che l’ha odiato, l’ha avvilito, è lei che me l’ha ammazzato! Sarà contenta, adesso, di vederlo chiuder gli occhi e starà li aspettando come un avvoltoio, a soffiargli in faccia la morte col suo fiato. E quelli, quei disgraziati, hanno cercato lei, hanno chiamato lei; lei può assisterlo, stargli vicino! mentre che io non ho nemmeno la grazia d’asciugargli il sudore della fronte!

Qui ella parve sul punto d’abbandonarsi a uno sfogo di singhiozzi e di lagrime; ma tosto, gettando indietro il capo e ricacciando il pianto, con una espressione risoluta e minacciosa dichiarò: – Ebbene, voglio sapere dove si trova, vederlo. Voglio rivederlo, voglio rivederlo, il mio Francesco! Andrò in cerca di lui per tutta la città, chiederò agli ospedali, alla questura, all’ufficio delle Poste, voglio trovarlo prima di notte! – Fra questi discorsi, ella rabbiosamente si stringeva i legacci allentati delle calze, si chiudeva sul petto il soprabito, e si passava le dita fra i capelli, come per assestarsi alla meglio prima d’uscire. Ma nel suo gesticolare disperato e sconnesso s’avvertiva un sentimento d’inutilità, quasi ch’ella s’accingesse al tentativo soltanto per una smania o un puntiglio, senza però alcuna fede.

– Ah, dove sei, dove sei, Francesco mio? – supplicò d’improvviso rilasciandosi, con una voce dolce, piena di sconforto e d’umiliazione. E fra le lagrime soggiunse: – Ma tanto, a che mi servirebbe sapere dove sei? Non mi lascerebbero entrare da te lei mi scaccerebbe. E tu stesso, tu stesso, se ti restasse un soffio di voce, la scacceresti da te, la tua Rosaria! – A questo punto, ella si guardò intorno ancora una volta, come per dare addio alla casa del suo Francesco, e disse con una voce smorta: – Ebbene, che sto a far qui? Me ne vado, è ora.

Pareva del tutto dimentica di Elisa. Ma io, che già al veder i suoi modi feroci e bizzarri ero stata ripresa dallo sgomento, vedendola partire alzai con gesto di supplica le due mani chiuse a pugno e scossa da singulti esclamai: – No, non andartene, non andartene, se non vuoi farmi morire!

Ella mi guardò interdetta: – Ah, non lasciarmi sola, rimani qui con me! – ripetei così smarrita, come se davvero la sua partenza significasse per me la morte. E poiché ella impietosita mi si accostò, la afferrai per gli abiti, quasi volessi costringerla con le mie forze a restare.

– Eh, angelo mio caro, io resterei con te, – ella diceva, – ma tua madre che dirà? tua madre non mi vuole –.

Neppure questo argomento, però, di solito così forte, valeva oggi contro la mia frenesia, e contro la tristezza che mi vinceva al pensiero della solitudine. – Rimani, rimani, – ripetevo, e ci stringemmo insieme in uno sfrenato abbraccio, e mescolammo il nostro pianto. Persuasa ad indugiarsi un poco, ella si accosciò di nuovo presso di me, e in quel punto disse, mirandomi: – Ah, come sei bella, sei tutta il ritratto di tuo padre!

Pur nella sua compiacenza, tuttavia, ella tentava di convincermi, fra dolci blandizie, della necessità di separarci. E per consolarmi, favolosamente mi prometteva, con sorrisi lagrimosi e folli, che mi lascerebbe, sì, ma ritornerebbe presto, e mi ricondurrebbe mio padre vivo e sano. E che da quel momento lei stessa, mio padre e io, vivremmo insieme noi tre soli e per sempre. Il giornale che cosa diceva infatti? Diceva in fin di vita. Ebbene, a quest’ora egli poteva essere ancor vivo, anzi lo era di certo, e la Madonna e santa Rosalia potevano ancora farci il miracolo.

Mentre così diceva per tranquillarmi, essa pareva riattingere nuova fiducia e speranza alle sue stesse parole.

Un’espressione esaltata e intenta le apparve sul viso: – Vedrai, vedrai, – ripeté, – che riceveremo la grazia. Ma adesso, – seguitò, come ispirata, congiungendo insieme le mie mani, – prima ch’io esca di qui, tu, che sei un’anima innocente, devi fare un voto alla Madonna e a santa Rosalìa, a nome di Rosaria –. E spiegatami in fretta la sostanza del voto, ch’era un sacrificio di tutti i suoi gioielli alle due Vergini, se, per loro intercessione, la vita di mio padre fosse salva, mi incitò a manifestare subito tale sua intenzione a quelle abitatrici del Cielo; pregandomi di trovare io stessa, meglio istruita di lei, le parole più acconce a commuovere i loro santi orecchi.

E, aspettando ch’io cominciassi, pendeva dal mio labbro. Compresa della grande ambasceria che m’era affidata, io mi raccolsi un istante, chiamando a me tutta la mia sapienza e la mia accortezza. Ma quando mi disposi a parlare, notai che Rosaria s’era fatta confusa ed esitante, quasi per uno scrupolo sortole d’improvviso. Difatti, come già le mie labbra palpitavano per formulare il messaggio, m’arrestò in fretta con un cenno, e la vidi nel tempo stesso (lei così ardita e sfacciata!), coprirsi di rossore. Piegato il viso sulle mie mani congiunte, me le strinse baciandole, e bagnandole di lagrime; e mi confidò il dubbio, venutole in quell’attimo, che il suo voto potesse non ottener credito in cielo, se prima ella non si liberava la coscienza di due gravi offese, una recente e l’altra antica, da lei fatte a mio padre. Perciò, avanti d’iniziare la nostra preghiera, intendeva di confessare tali offese a me, figlia di Francesco e anima innocente, con la medesima devozione che se fosse in chiesa, al cospetto del Bambin Gesù.

Non senza curiosità, io mi disposi allora ad ascoltare la doppia confessione di Rosaria.

Incominciando dall’offesa più recente, la mia peccatrice spiegò che essa risaliva a circa due mesi innanzi, e precisamente all’ultima volta che mio padre s’era recato a visitarla. Certo, ella soggiunse con un’occhiata dolorosa, certo egli non s’era fatto più vedere proprio a causa di quel trattamento offensivo usatogli da lei durante l’ultima sua visita. In sostanza, ecco che cos’era avvenuto: era avvenuto che lei, Rosaria, aveva preso mio padre a schiaffi.

Nel fare questa confessione, la mia penitente ebbe in viso un’espressione di crudele rimorso; mentre che il mio aspetto dovette certo manifestare la mia incredulità e il mio sbalordimento. Rosaria, però, che mi sogguardava, credette forse di leggervi una seria riprovazione; e s’affrettò ad aggiungere che sì, riconosceva d’essersi comportata male, ma d’altra parte il suo comportamento non era poi del tutto ingiustificato: esso infatti era stato una risposta a un insulto fattole da mio padre. Un insulto supremo, unico, insomma il peggiore insulto che si possa fare a una donna. E nel dir ciò, Rosaria s’aggrondò in faccia e corrugò i sopraccigli, come se, malgrado tutto, ella non potesse ancor perdonare quell’incomparabile oltraggio.

– Ma quale insulto era? – io mormorai con un filo di voce: ricordavo fra me le mille contumelie e partacce che, in mia presenza, Rosaria aveva sopportato da mio padre al modo d’un’agnella; e mi dicevo che certo l’insulto doveva essere d’una gravezza inaudita. Alla mia domanda, Rosaria mi guardò perplessa; poi cominciò a dire che, veramente, era difficile spiegarmi la faccenda di quell’insulto, trattandosi d’una sorta di questioni che una fanciulletta della mia età ignora e non può capire.

Ad ogni modo, ella avrebbe cercato di spiegarmi il caso con parole adatte, e senza offendere la mia santa innocenza; poi, quando fossi stata più grande, ripensando a quel ch’ella oggi m’aveva detto, avrei potuto capirne il valore e il significato.

E con frasi studiate e incerte, con molte esitazioni e reticenze, perfino con dei pudori, la mia peccatrice s’ingegnò di farmi capire qual sorta di provocazione avesse ricevuto da mio padre. Sorridendo appena (quasi non ricordasse la presente realtà), esordì informandomi che, prima di tutto, io dovevo sapere, se ancora non me n’ero mai avvista, che lei, Rosaria, e mio padre erano in qualche modo due fidanzati. O meglio, erano stati fidanzati da ragazzi; ma adesso, mentre che lei, Rosaria, seguitava ad amare mio padre quanto e più d’una volta, mio padre invece amava soltanto mia madre e di lei non si curava più. Tuttavia, c’era una cosa riguardo alla quale mio padre si comportava con lei come se lei stessa, Rosaria, e non mia madre, fosse la sua vera moglie. E questa cosa era così importante e di prim’ordine che Rosaria, in virtù di essa, si consolava d’ogni altro affronto.

S’io poi desideravo conoscere che fosse mai questa cosa, aggiunse Rosaria, dovevo accontentarmi, per adesso, di farmene un’idea provvisoria e vaga, in attesa di averne una conoscenza precisa e definitiva non appena fossi una donna sposata. Giacché, si capisce, io dovevo diventare una signora sposata in chiesa con tutti i Sacramenti, non già una vacca al par di lei, Rosaria.

Dunque, ella seguitò, la cosa di cui si parla, per dirla con parole adatte al mio piccolo intendimento, la cosa di cui si parla era precisamente il dormire. E cioè, dovevo sapere che il principale motivo per cui due persone son chiamate marito e moglie, è questo: che si mettono insieme a dormire. Se due persone, uomo e donna, ma che non siano fratello e sorella, si capisce, si mettono insieme a dormire, non c’è più niente da fare: sono moglie e marito.

Ebbene, su questo riguardo del dormire, lei, Rosaria, poteva considerarsi moglie a mio padre, mentre che mia madre non gli era niente. Anch’io, difatti, potevo testimoniarlo: era vero, sì o no, che mia madre non dormiva mai con mio padre? E a questa domanda, come punta da un sospetto, Rosaria mi gettò un’occhiata indagatrice. Ma io, con un tono tanto più trionfale in quanto che avevo appreso giusto adesso la suprema importanza di tal cosa, la liberai subito dal dubbio, esclamando:

– No, mia madre dorme con me! – e per rispetto della verità soggiunsi: – fuorché nelle ultime notti, che ha dormito sola, per una questione che non ti riguarda.

– Va bene, questo vale per la notte, – insisté la diffidente Rosaria, – ma anche di giorno si può dormire. Durante il giorno, per esempio, lei non dorme mai con tuo padre?

– No, – risposi non senza pavoneggiarmi, – certi giorni lei si mette a dormire sola sul lettuccio della nonna, e io posso andare là a scrivere i còmpiti, per farle compagnia. E certe volte si mette a dormire sola in camera, e anche allora posso andare là e stare con lei.

– Dunque, lo vedi ch’io non ti racconto delle. frottole, ma delle verità sacrosante, – esclamò Rosaria, rassicurata dalle mie conferme. E riprendendo la spiegazione interrotta, mi spiegò che mio padre, il quale, appunto, non dormiva mai con mia madre, con lei Rosaria, invece, sovente si metteva a dormire. In verità, sui primi tempi dopo quel famoso pomeriggio dello scorso inverno che l’avevamo incontrata in istrada, sui primi tempi mio padre non voleva assolutamente favorire Rosaria, la quale, ricevendolo e facendolo accomodare in casa propria, non mancava d’invitarlo a dormire. Nossignore, lui non aveva mai sonno, e quando andava in visita da lei si tirava dietro me apposta per mortificarla: e cioè per farle subito capire, senza equivoci, che lui andava a casa sua come si va al caffè, per sedersi in poltrona e far quattro chiacchiere insulse; non davvero per dormire. Ciò avvenne da principio; ma piano piano, mio padre finì col dare a Rosaria questa soddisfazione. Soddisfazione! a tale proposito, la mia penitente m’ammonì a non cadere in errore. E cioè: non dovevo mica credere, a sentirla, che mio padre le facesse poi questa grande degnazione mettendosi a dormire come lei gli chiedeva. C’erano dei signori di prim’ordine, i quali le offrivano un capitale in cambio d’un sonnellino. Mio padre, invece, per il bene che lei gli voleva, dopo aver dormito tutto un pomeriggio la salutava senza nemmeno dirle grazie. Ma basta: l’importante era che adesso, quando aveva un pomeriggio libero (per lo più ciò avveniva di domenica), mio padre andava a farle visita solo solo, e, senza perder tempo in chiacchiere insulse, preso da un gran sonno si metteva a dormire con lei, come fosse suo marito. E appena incominciava a dormire, – qui Rosaria mostrò un viso trasfigurato, pur se rigato d’amaro pianto, – appena, dunque, dormiva, lui diventava con lei tutt’altro da quel che era di solito. Non la insultava, non la mortificava più; ma, all’opposto, la trattava come una regina. E faceva dei complimenti così preziosi e cari; con una voce così angelica; e diventava così bello, che, s’io volevo tentare di figurarmelo, dovevo pensare a san Michele, al Trovatore, all’eroe Garibaldi! Davvero, potevo crederle: ché lei, Rosaria, aveva sperimentato molti mariti, essendosi coniugata e riconiugata più volte. Ma a nessuno di coloro il dormire si addiceva quanto a mio padre. E a proposito, precisò a tal punto Rosaria, certo io non dovevo essere tanto scema da immaginarmi che il dormire degli sposi fosse un dormire semplice e qualsiasi, rassomigliasse al sonno mio, per esempio. Già, se così fosse, varrebbe proprio la pena di maritarsi! Tanto varrebbe di rimanere zitella, e dormire col gatto! No, il dormire che fanno gli sposi (mi bastasse di saper ciò finché rimanevo signorina), il dormire degli sposi è un dormire magnifico, tutto un unico sogno! Ma la meraviglia è questa: che moglie e marito sognano insieme un medesimo sogno uguale, e in questo sogno gemello si ritrovano insieme così ricchi e contenti che un pezzente, un pecoraro, quando dorme con la sua sposa, gode la stessa signoria d’un papa, – no, Dio mi perdoni, che bestemmie vado dicendo (e Rosaria si segnò), – la stessa signoria d’un principe, d’un barone! Soprattutto sul finire del sogno, un minuto arriva nel quale entrambi gli sposi volano fino all’Empireo: tanto che, se non si risvegliassero proprio in quel punto, si riterrebbero morti, e già gloriosi in cielo. E fra i due la più gloriosa è la moglie, la quale è certa di essere, in quel minuto, l’unico tesoro del suo sposo: più che madre, più che sorella, tutto, insomma, per lui: il Paradiso incarnato. Allora, una come Rosaria, al trovarsi lassù insieme a uno sposo come mio padre, quasi ne ride; e avrebbe voglia di dirgli: «Tu non mi ami, non mi curi e mi disprezzi. Ma in questo momento, se t’offrissero un sacco d’oro in cambio di Rosaria, tu rifiuteresti l’oro. Ecco scancellato il mondo intero per te. Addio bellezze, addio ricchezze, addio signore e dame. Il tuo mondo è Rosaria!»

Questa era la cosa, appunto, che ricompensava Rosaria di tutte le cattiverie e gli sgarbi di mio padre. Eppure, lui non gliene risparmiava, di sgarbi! Mi bastasse sapere, ad esempio, che lei, per il bene che gli voleva, gli aveva comperato spesso dei regali, un orologio, una cravatta, una sciarpa. Ma lui, pur accettandoli, dopo averli intascati con aria sdegnosa e portati via (per rivenderseli forse, e comperarci dei doni a sua moglie) non le aveva dato mai più la soddisfazione di mettersi addosso quei segni dell’amor suo, di adornarsene sia pure una volta. No, neppure una volta le aveva dato questo piacere, come se stimasse indegno della sua persona qualsiasi oggetto gli venisse da lei (e si ch’era sempre roba finissima, di prima qualità!) Ebbene, anche di questo, lei non se ne adontava.

Che le importava più d’essere così angustiata e mortificata da lui? Che le importava più ch’egli non l’amasse? e che non fosse suo marito a pranzo, a cena, e alla paga del sabato sera, se poi, venuto quel momento beato, la faceva dormire come una moglie? Questa era la certezza più preziosa di Rosaria. E mio padre, sebbene, con amaro dispetto di lei, sovente mancasse ai convegni e le facesse alquanto sospirare ogni sua visita, tuttavia, non appena si ritrovavano insieme, la ripagava di tutto il patire. Difatti, ormai non c’era caso che, venuto in visita da Rosaria, ben presto egli non desse in certi piccoli sbadigli di sonno.

Dopo i quali finiva sempre col mettersi giù a dormire, in quel modo signorile ed eroico che sopra s’è descritto.

Tutto dunque procedeva alla perfezione; e col passar delle settimane Rosaria s’andava quasi illudendo che, adagio adagio, mio padre si persuaderebbe di nuovo ad amarla come al tempo che erano ragazzi, e riconoscerebbe in lei la vera sua moglie. Allorché, un giorno, durante uno dei soliti loro sogni nuziali (il quale doveva purtroppo esser l’ultimo), una parola di mio padre rovinò ogni cosa. Erano proprio giunti al minuto più bello del sogno, che gli sposi volano insieme in Paradiso. Ma come Rosaria, gioiosa al pari d’un cherubino, stava per toccare le porte del cielo, mio padre con voce d’innamorato gridò: – Anna mia!

Al momento di ripetermi questo grido di mio padre, Rosaria storse le labbra come chi morde un frutto perverso e acidulo; e la sua voce suonò sforzata e alquanto più bassa di tono. I suoi sguardi lampeggiarono, evitando i miei; ma io, senza comprendere, interdetta sussurrai:

Anna mia... è mia madre.

– Già, è tua madre! – pronunciò Rosaria, come se queste sillabe le allegassero i denti. E, corrucciosa e disgustata, soggiunse: – Tu, si sa, non puoi capire che affronto sia stato per me sentire quel nome. Però una donna sposata mi capisce e tu, se riceverai un affronto simile da tuo marito, potrai levare su di lui non ti dico le mani, ma il coltello, e nessuno ti darà torto. Basta. Con quella sola parola tuo padre, dal Paradiso dove credevo di essere mi precipitò nel fondo dell’inferno e da pecorella che ero mi trasformò in una tigre: – Vuoi Anna tua? – gli gridai, – va’, dunque, vattene da Anna tua! Ma da Rosaria non tornarci mai più! – e poiché lui rispose a queste mie parole con lo scherno, io... lo presi a schiaffi. Dio mi perdoni, ma lui se li meritava. Così se ne andò.

Qui Rosaria fu interrotta da un acuto singulto; e riprese a dire, piangendo:

– Aveva sbattuto appena la porta, che spedii Gaudiosa come un fulmine a rincorrerlo (io stessa non potevo, trovandomi senza vestiti a letto); ma lui, raggiunto dalla ragazza, la scacciò con bestemmie e ingiurie delle quali mandò a dire la mia parte anche a me. E io, come Gaudiosa tornò a raccontarmi il suo bel successo, me la presi con lei tanto che fu un miracolo se non uscì ammazzata dalle mie mani. Quanto piangere ho fatto! Da quel giorno, in tutti i modi ho cercato di far sapere a tuo padre che lo aspettavo – e che mi perdonasse com’io l’avevo perdonato – e che tornasse per pietà di me. Gli ho dato la caccia dappertutto, ho girato come un’anima del purgatorio per le strade dove lui passava. Ma lui s’è ostinato e non m’ha fatto più sapere nemmeno una parola di compassione!... fino a questo giorno! Così sia! Dio così ha voluto! – E Rosaria tacque, soffocata dal pianto.

Ella si asciugò gli occhi con la mia vesticciola; poi, vinto l’affanno, passò a confessarmi la seconda offesa fatta a mio padre.

Seconda, come s’è detto, nella sua confessione, ma prima nel tempo, e, occorre aggiungere, alquanto più grave dell’altra: forse per questo motivo, Rosaria, a imitazione delle penitenti codarde, se l’era riserbata per dopo.

A me, invero, questa seconda confessione suonò solo sibillina e stramba, ancor più della precedente. Ma la stessa cosa, spero, non potrà accadere ai miei lettori, i quali, a differenza di me, confessora ingenua, non ignorano certi antichi peccati di Rosaria. È una fortuna per loro: giacché il discorso tenutomi dalla mia peccatrice fu così confuso, ed ermetico, e sconnesso; e soffocato da gemiti e singulti; e interrotto da assalti di rimorso durante i quali la colpevole si puniva da se stessa mordendosi le mani, battendosi coi pugni il viso e coprendosi dei più feroci improperi; insomma, fu un garbuglio tale che sarebbe occorso non un confessore, ma un indovino, per cavarne un peccato ragionevole.

Io, per mio conto, non potei capire più di quanto segue: che lei, Rosaria, al tempo antico, era sposa di mio padre, amata e onorata da lui come una Maddalena; quando, un giorno, sporca donnaccia qual’era (ma tale l’aveva fatta sua madre e non poteva cambiarsi), aveva venduto l’amore e l’onore di mio padre per dei gioielli. Non basta: il piacere di sfoggiare questi gioielli in istrada, al ristorante e per i caffè l’aveva consolata del perduto possesso di mio padre in meno di ventiquattr’ore. E ancora non basta: fino all’ultimo recente incontro (sarebbe come dire il famoso convegno degli schiaffi), ella aveva giurato e spergiurato a mio padre di non aver mai fatto un simile mercato di lui medesimo. Ebbene, oggi, ella si dichiarava qui, al cospetto del Cielo, mentitrice e spergiura.

Dopo simile dichiarazione, accompagnata da un violento gesticolare e da molte amare lagrime, Rosaria spiò sul mio volto l’effetto della propria sincerità. E vedendomi, oltre che sbalordita, piuttosto perplessa, ebbe un istante d’esitazione; poi con atto risoluto si frugò dentro il corpetto (poco lontano da dove soleva tener celata la santa Rosalìa), e compunta ne staccò un gingillo minuscolo ivi appeso con una spilla. Dapprima, come s’accingesse a farmi chi sa che rivelazione, tenne chiuso il gingillo nel pugno; finalmente schiuse la mano a mezzo e me lo mostrò nella palma raccolta, con l’aria di chi mostra un segno d’infamia e tuttavia non senza una certa compiacenza di padrona. Riconobbi allora il bellissimo anello, adorno d’un rubino e d’un diamante, che il giorno del nostro primo incontro avevo veduto splendere sulla sua mano; e misteriosamente sparirne, per non riapparirvi in seguito mai più. In quella prima rapida apparizione esso aveva con la sua doppia luce vinto ai miei occhi i mille splendori della mia signora straordinaria; ed anche oggi, al vederlo, non seppi nascondere l’invaghita ammirazione del mio cuore. La mia penitente allora alitò col respiro sulle due gemme incastonate e se le stropicciò contro la seta della sottoveste per farne meglio risaltare il pregio. E com’io rimiravo estatica il multiplo, iridato sfavillio del diamante e il profondo, puro fuoco del rubino, mi confidò che l’anello le era stato donato da un gran signore innamoratosi di lei follemente, uno della vera nobiltà, un feudatario delle alte sfere. Di costui, Rosaria non aveva più notizie da allora né le importava d’averne; ma l’anello, oltre ad essere il primo oggetto di gran prezzo da lei posseduto, era stato nella sua vita l’araldo e il segnale dell’abbondanza. Il giorno stesso (molti anni fa), che se l’era infilato al dito per la prima volta, ed era andata in giro a sfoggiarlo, quel medesimo giorno (oro chiama oro), ella s’era imbattuta in un Pollo Faraone, che ad ogni chicchirichì sprizzava monete. Così dalla sera alla mattina aveva cambiato stato. E da misera ciabattona senza camicia, che cavarsi un dente cariato costava più di lei, s’era ritrovata signora. Da quel giorno, teneva l’anello come una sorta di faro o specchietto per la fortuna; e aveva tal fede superstiziosa nei suoi poteri che non se ne separava mai, né di giorno né di notte, portandolo nascosto addosso anche quando non lo teneva al dito. E qui, la mia penitente, con voce quasi strozzata dal rimorso, mi confessò di non distaccarsi dal prezioso amuleto neppure in certe occasioni, come dire in quelle meravigliose dormite o sogni che faceva insieme a mio padre: durante le quali teneva l’anello celato o qua o là, sotto i panni o per il letto, ma sempre in vicinanza della propria persona. Tuttavia, soggiunse, un poco di coscienza pure le restava: tanto è vero che, sebbene mio padre non potesse riconoscere l’anello non avendolo mai prima veduto, ella, per una sorta di scrupolo o timore, non osava adornarsene in presenza di lui, nemmeno adesso ch’eran passati tanti anni; e non dimenticava di sfilarselo dal dito e di nasconderlo prima d’ogni loro incontro: quasi che su quelle due pietre mio padre potesse leggere la vera storia dell’antico delitto, o il nome del donatore.

Il qual donatore dell’anello, notò fra parentesi Rosaria, oltre ad essere il gran signore e gentiluomo che s’è detto, era anche il peggior malfattore, il peggior bruto e impostore nato da madre cristiana; e il più nero traditore di mio padre. Lei, Rosaria, da parte sua, l’aveva sempre detestato e schifato; i regali da lui ricevuti, e in particolare l’anello, quelli no, erano un altro conto. La grazia di Dio è sempre buona grazia, la roba porta sempre salute e onore, e ai regali, se non ti vengon da un lebbroso, digli sempre benvenuti e benedetti. Si guarda in faccia alla mercede, non al pagatore. E anche sul quattrino del porcaro c’è stampato sopra il muso di Sua Maestà il Re.

Questa mirabolante esplosione di sapienza fu conclusa da Rosaria con un gran sospiro, che avrebbe potuto sembrare di liberazione. Invece, esso fu il preludio a uno scoppio d’acuto pianto: nel mezzo del quale, con voce rotta, ella proclamò: – Ma io, se avessi avuto un poco di rispetto e di coscienza, avrei fatto meglio a buttarlo in un pozzo, quest’anello, invece di tenerlo caro come la medaglia della comare! Buttarlo, avrei dovuto, maledetta me, come i danari di Giuda! sì, che Dio mi faccia morire impestata! ch’io per quest’anello ho venduto il mio Francesco! – e in simile sconcertante affermazione, Rosaria fissò, fra le lagrime, l’anellino che le scintillava in mezzo alla palma dischiusa. Con lo sguardo inorridito, ma tuttavia soggiogato, col quale una bambina fisserebbe, senza osar di scacciarla, una vespa posatasi sulla sua piccola mano.

Quindi, Rosaria serrò l’anello nel pugno e levato il pugno al cielo girò all’intorno uno sguardo così febbrile e rovente ch’io sospesi il fiato supponendo che si accingesse a far in qualche modo giustizia dello sciagurato gingillo. E tale fu, suppongo, il primo violento consiglio della sua collera; senonché, non senza un turbamento sacro, ella tosto si rammentò d’aver promesso il gioiello alla Vergine: – Oh, Maria, – bisbigliò, segnandosi premurosa con due dita del pugno che rinchiudeva l’anello, – perdona alla mia testa matta! non pensavo che quest’anello non è più mio, ma tuo... – Quindi, riaperta la mano a rimirare il bel cerchio gemmato, osservò: – Veramente, sarebbe degno piuttosto del demonio che della Madonna; ma anche le ortiche diventan gigli sull’altare di Maria Santissima –. E dopo nuovi segni di croce, baciò l’anello divenuto santo, e me lo porse affinché a mia volta io vi deponessi un bacio. Poi se l’infilò al dito, con atto sconsolato e umile, decidendo che l’avrebbe tenuto là, per propria mortificazione, fino all’istante che, ricevuta la grazia, insieme lo recheremmo alla Vergine: – Ah, bella Madre! – invocò, fra singulti e gemiti, – Tu mi vedi se son sincera. Vorrei, per tutte le volte che l’ho sfoggiato, che questo cerchio mi consumasse il dito, come un anello di fuoco! – E, gli occhi fissi sulla propria mano gemmata che le giaceva abbandonata in grembo, la mia peccatrice rimase per qualche minuto taciturna, immersa in uno di quegli stupori che succedono di solito alle ubriachezze.

Poi, levati gli occhi, li girò lenta lenta per la stanza; e io li vidi, in questo lento moto, riempirsi di nuova ambascia e di paure, come s’andassero risvegliando in un luogo terribile e fantastico. Allora, timidamente, m’informai se la confessione fosse finita, e se fosse ora di recitare la nostra preghiera; e Rosaria, in risposta, mi dette solo una occhiata senza espressione, quasi che, in quell’intervallo di silenzio, avesse dimenticato il nostro voto. Ma subito si riscosse, e con ansia superstiziosa m’esortò a incominciare l’orazione; e come ambedue ci fummo poste in ginocchio, lei per terra e io sul divano, nei suoi occhi gonfi e arrossati si riaccese una fanatica speranza.

La mia voce timorosa aveva pronunciato appena: – O Maria bella madre di Gesù, o santa Rosalìa nostra... – quando, in una pausa, s’udì lo scatto della serratura alla porta d’ingresso. Dopo una breve titubanza, tralasciata l’orazione, io balzai giù dal divano per correre incontro a mia madre che rincasava; ma questa era già sulla soglia del salotto, di fronte a noi due.