Capitolo quinto
Mia madre fa un peccato e un’offerta
espiatoria
Vi dissi già di quanto apparisse mutata mia madre dacché era incominciata la nostra assiduità presso Concetta. Ora, via via che si susseguivano le nostre visite al Palazzo, il suo mutamento si faceva più profondo e visibile: e all’avvicinarsi dei mesi estivi, mia madre appariva quasi trasformata.
Non credo che in nessuna precedente epoca della sua vita ella fosse mai stata altrettanto bella. Il suo viso serbava adesso, giorno e notte, quella freschezza estrema che già lo attraversava per attimi durante le nostre prime veglie notturne. Il suo pallore si tingeva d’un lieve incarnato, e l’occhio, intorno all’iride grigia e lucente, si velava d’un vapore azzurro che dava ai suoi sguardi il color del cielo. I capelli attorcigliati sulla nuca in una lenta crocchia erano il nero, unico ornamento del suo collo candido e nudo, così nobile nella sua povertà. E il suo corpo grande, materno, aggiungeva a queste sue bellezze un sentimento di maturità e di languore, sì ch’ella risaltava, vicino alle ragazze, come una sovrana rispetto alle sue damigelle. Trasandata, senza belletti né cipria, ella splendeva più delle signore eleganti e dipinte. E faceva venire in mente i colorati uccelli dei Tropici, i quali s’adornano, senza pensarci, della propria sontuosità naturale, respirandola nel clima fiammeggiante e pigro dei loro paesi.
Fu quello il solo tempo della mia vita che lo schivo mio cuore conobbe i piaceri della civetteria. Difatti, in istrada quasi tutti i passanti fissavano mia madre con ammirazione, molti si voltavano a riguardarla, e alcuni le volgevano, a voce alta o bisbigliando, parole invaghite.
Lei, però, camminava, secondo il suo costume, tanto assorta in se medesima e noncurante, che d’esser guardata neppur s’avvedeva, e rispondeva alle lodi, le rare volte che vi porgeva ascolto, con un rigido e severo atteggiamento del capo. A me, invece, l’ammirazione da lei suscitata era motivo di grande e presuntuoso piacere. Proprio come una civetta, non perdevo neppure uno degli omaggi che la seguivano, e di ciascuno godevo come del primo. Fiera al pari del paggio che regge lo strascico alla sposa, o del ragazzo che, in testa alla processione, porta lo stendardo della santa, avrei voluto che tutte le compagne di scuola mi vedessero, e mi ritenevo una delle prime signore della città.
Anna aveva dunque aggiunto ai suoi molti prestigi il trionfo, per meglio avviluppare nelle sue reti la frivola Elisa.
Anche nell’indole, Anna appariva mutata non meno che nell’aspetto. L’antico suo dispregio e rancore verso gli altri pareva dissolversi, e spesso ella lasciava stupiti coloro che l’avevano conosciuta prima. Quale una distesa gelata, che il viaggiatore credeva un lago di ghiaccio; e che invece, alla stagione tiepida che discioglie le nevi, gli si rivela per una vallata profonda, verdeggiante, nel pieno d’una fioritura selvaggia a lui forestiero ignota.
Le maniere di mia madre, nei suoi radi e casuali rapporti col prossimo, s’eran fatte più indulgenti, e quasi gioconde; fin la sua voce aveva un altro suono, palpitante, sensibile e un poco incrinato. V’eran dei momenti in cui mia madre sembrava ansiosa di perdonare a tutti le loro colpe, ed anche di comunicare con tutti, sebbene in un modo effimero, ché senza posa ella si perdeva a vagheggiare un suo privilegio occulto e indivisibile, un miracolo inaspettato della sua sorte. Quindi, pur con l’apparenza della simpatia, rimaneva, in realtà, sempre distratta e appartata. Simile ad un fanciullo ispirato, che, pur mescolandosi un poco agli studi, ai giochi degli altri, ogni momento è rubato ad essi dalle voci dei celesti araldi chini su di lui. Né, in luogo dell’antico odio, gli estranei potevano concederle amore o simpatia: soltanto una subdola, e vendicativa diffidenza.
Con me, però, ella non si celava! E quei giorni, che mi preparavano così grandi sventure, furono i più felici della mia fanciullezza.
La realtà, infatti, oltrepassava i miei sogni più temerari: Anna mi trattava ormai come un’amica, e non solo accettava i miei servigi, ma quasi mi chiedeva protezione, spogliandosi per me d’ogni pudore e d’ogni segretezza. Mostrava nei miei riguardi la massima indulgenza, ridendo con leggerezza di certi miei falli puerili che in altri tempi l’avrebbero resa furiosa. E arrivava fino a scherzare con me, assumendo delle arie di fanciulla che mai prima avrei potuto aspettarmi da lei.
Per esempio, notando a un tratto, mentre mi si confidava, l’espressione intenta e piena di sussiego ch’io prendevo nell’ascoltarla, usciva in una risata allegra, e tirandomi per le due trecce mi faceva dondolare un poco avanti e indietro. Oppure avveniva, cosa inaudita! che, in compagnia d’estranei, mi sogguardasse con occhi furbeschi e languenti, come per un richiamo lusinghevole a ciò che sapevamo noi due sole.
Verso mio padre, ella mostrava un altero distacco, e quasi dell’ironia, ma non più l’odio di poche settimane avanti: egli era, tuttavia, la sola persona che ancora ritrovasse in lei la nota asprezza. Ma piano piano, come un’ultima ombra fredda che svanisce allorché il sole tocca il culmine, tale asprezza s’andò attenuando in una specie di distratta indulgenza. In realtà, io credo, Anna somigliava a un grande ambizioso, il quale, giunto ai massimi onori, non pone più mente a certe sue povere inimicizie di ragazzo. Ella risparmiava il suo nemico per un sentimento non di carità, ma di gloria. Certa del proprio bene, non curava nessun’altra cosa, e confidava che, là dov’essa aveva il proprio aereo tesoro, nessuno più potesse raggiungerla né farle male. Per questo, non fuggiva più mio padre come una volta, e appariva, quand’egli era presente, meno severa e scontrosa. Nelle piccole questioni familiari, si mostrava più arrendevole; e, pur mantenendosi alquanto taciturna con lui, non poteva tuttavia, nel volgergli il più casuale discorso, soffocare quelle nuove, dolci modulazioni della voce, che parevan dare ad ogni parola da lei pronunciata un senso di lusinga. Allo stesso modo, la carezzevole voluttà che la accompagnava in ogni suo atto la faceva sembrare, suo malgrado, sempre gentile.
Al veder ch’ella non lo odiava più, mio padre parve ringiovanito; ma non era difficile d’indovinare quali tormenti gli causava la speranza. Egli non trovava riposo, e spesso, rinchiusosi nel salotto, come soleva, per dormire un poco durante il giorno, dieci minuti dopo ritornava fra noi nella cucina. Offriva a mia madre ogni sorta di umili servigi, aveva delle turbolente, animalesche allegrezze, e, cosa insolita, mi abbracciava stretta, lasciando la mia guancia irritata dai suoi baci. D’altro canto, cercava di sfuggire, e di sottrarsi; e come chi teme, se si mostra indiscreto, di perdere i favori d’un potente, nelle ore libere adduceva questo o quel pretesto per assentarsi da casa.
Erano, per lo più, dei pretesti poco convincenti; e nel dirli, prima d’accingersi a uscire, egli guardava sua moglie, quasi illuso ch’ella potesse invitarlo a non affannarsi per motivi così futili, e a restare con noi. Ma lei non l’aveva forse neppur udito e non diceva nulla: onde egli usciva nel gran caldo per ritornare troppo presto, tutto in sudore, con la finta spavalderia d’un ragazzetto che vuol mostrarsi indipendente, ma appena, poi, si allontana un poco dalla madre, non sa che uso fare della propria libertà.
Non imprecava più contro la gravezza del lavoro sui postali, e talora si perdeva a discorrere del futuro, enunciando propositi grandiosi quanto inverosimili. A quel che sembra, egli non voleva perdere l’occasione di profondere la sua magniloquenza e le sue stolide manie di grandezza. Mia madre, forse, non lo ascoltava nemmeno, o, in ogni caso, non si curava di rispondergli: sul viso di lei non si scorgeva nessun altro segno se non un sorriso ambiguo, fra l’indifferenza e lo stupore, simile al sorriso d’una morta.
Venne il giugno, che fu caldo, quell’anno, come una piena estate, con l’unico ristoro dei temporali portati dallo scirocco. Incurante dei tristi doveri quotidiani che, senza affetto, s’era imposta dopo il matrimonio, mia madre si abbandonò del tutto all’indolenza nativa. Alla mattina, adesso, lagnandosi che il caldo la spossava, ella indugiava a lungo nel letto: sì che, secondo i miei voti, toccava a me di servirla e di sbrigare, avanti di recarmi a scuola, le prime faccende quotidiane. Avevo imparato anche ad accendere il fuoco, finalmente, e, con quest’ultima vittoria, le mie filiali ambizioni furono esaudite. Al suono mattutino della sveglia (ch’io stessa, da qualche tempo, caricavo ogni sera), balzavo fuor dal letto con una sorta d’orgasmo, timorosa, se indugiavo appena un minuto, di cedere all’indolenza e al sonno. E in verità sentivo non poca voglia di cedere, ma l’esser costretta ad un sacrificio aumentava il mio grande onore e la mia presunzione. Fino il non ricever mai, per tanto zelo, nessun elogio da mia madre, m’accendeva di gratitudine: sembrandomi ch’ella, così tacendo, riconoscesse il mio diritto d’esser sua serva.
Allorché, alzandomi, io la esortavo a riposare ancora, a non darsi pensiero di niente, nella mia voce premurosa risuonava, io credo, un’eco di boria. D’altronde, simili esortazioni eran superflue, o meglio, utili solo alla mia vanità: Anna infatti si lasciava servire naturalmente, come s’io fossi sua madre, e lei la mia bambina viziata.
Si accontentava solo di domandarmi, con voce neghittosa, se avessi terminato i còmpiti di scuola. A dire il vero, in quei giorni io trascuravo alquanto lo studio, e certo dovetti solo all’antico mio prestigio, o alla pochezza delle mie concorrenti, se mantenni in classe il primato fino alla chiusura del corso; ma tuttavia rispondevo a mia madre d’aver eseguito scrupolosamente ogni mio dovere. Né lei badava troppo alla mia risposta: lisciava, sbadigliando, la fresca tela del cuscino con la guancia accaldata, e richiudeva le palpebre. Uscivo ch’ella ancor sonnecchiava nel letto: e mi doleva di lasciarla. Ma verso la metà di giugno, secondo il solito, le scuole si chiusero per le vacanze d’estate, e io potei dedicarmi tutta a lei.
Ella pareva ormai non aver nessun interesse, né forza, né volontà, se non per la sua passione segreta. Non si occupava più delle faccende, e non le importava nulla che la polvere e il sudiciume invadessero le stanze; quanto a me, sebbene mi sforzassi di sostituirla, ero troppo inesperta, e debole e inetta, così che in casa regnava il peggior disordine. La sola persona, tuttavia, che avrebbe potuto ribellarsi, voglio dire mio padre, non accusava nessun disagio: egli non badava ad altro che a meritare la strana benevolenza di mia madre, a trepidare ad ogni suo mutamento d’umore, e a sperare nella felicità.
Fra le mie nuove incombenze, toccava a me, adesso, di uscire per le spese domestiche. Un giorno, mentre, con la mia grossa sporta appesa al braccio, mi affaccendavo dall’una all’altra bottega, feci un incontro inaspettato: m’incontrai, cioè, con Rosaria. Fu lei che mi riconobbe da lontano, mi chiamò e mi rincorse: era, secondo il solito, sgargiante, imbellettata, e risonante d’ori. Mi parve diventata più grassa e imponente: sudava per la corsa e aveva le nude, lentigginose braccia arrossate qua e là dal sole estivo.
A quell’apparizione, io mi feci di fuoco, ma piuttosto per la sorpresa che per il piacere. Difatti, da quando il mio vero e grande amore aveva raggiunto la beatitudine perfetta, io non avevo più neppure pensato a Rosaria, e anzi al vederla, adesso, mi domandavo come avessi potuto provare un così forte affetto per lei. Di più, le ultime visite fattele in compagnia di mio padre m’avevan riempito d’amarezza, ed io gliene serbavo rancore. Ella, tuttavia, pareva non tener conto, anzi non avere neppur coscienza delle gravi offese da me subite: al contrario, si comportava in una maniera espansiva, pomposa e condiscendente, come se non dubitasse d’avere innanzi a sé una sua grande amica, pronta a mentire e a dannarsi l’anima per renderle servigio. Di certo, ella rimase convinta che il rossore della mia faccia al vederla fosse di commozione e di allegrezza.
L’averla incontrata dalle nostre parti non era un caso straordinario come a me sembrava: ella, infatti, non osando mettere in opera la sua minaccia di cercare mio padre all’ufficio o a casa, e non osando neppure avvicinarsi troppo a tali vietate dimore, andava aggirandosi, da alcuni giorni, là dove si poteva sperare ch’egli passasse. La fortuna, invece, le aveva soltanto concesso d’incontrarsi con la mia persona; e decisa a valersi, bene o male, di questo incontro, commossa e impaziente ella mi propose di sederci insieme alla latteria, per mangiare le paste e sorbire il gelato al cioccolatte. Ma io, superba in cuore dei grandi còmpiti cui sacrificavo senza rimpianto certe frivolezze, rifiutai l’invito, spiegando che mia madre m’aspettava con le spese per il desinare. Allora, ella mi spinse in un angolo della via riparato dal sole, e con irruenza mi domandò notizie di mio padre.
Io non le risposi null’altro se non ch’egli viaggiava sempre sui postali e nelle ore libere usciva quasi sempre solo senza dirci dove andasse. A queste notizie, lei mi afferrò una spalla, e stringendomela forte s’informò s’egli lasciasse supporre d’avere qualche altra signora, qualche amica; ma io, tentando di liberare la mia spalla, risposi che non sapevo niente di ciò, non sapevo niente di niente.
– Ecco! – ella esclamò piena di corruccio, – da te non si può avere nessuna soddisfazione! – E poi mi raccontò che da più d’un mese mio padre non s’era fatto vivo con lei, pur avendole promesso di ritornare. Ed ella, sebbene conoscesse ch’era un uomo senza onore, continuava ad aspettarlo ogni domenica, ed anzi solo per lui si tratteneva ancora nella nostra città. Dalla Capitale, tutti la sollecitavano: anzitutto la sua amica, che insisteva per riavere il proprio appartamento di qui, a lei ceduto in prestito, e poi tutti i suoi conoscenti. E lei seguitava ad inventare ogni sorta di scuse, tanto che un suo amico, un vero signore, e una persona ammodo, il quale valeva per mille impiegatucci come mio padre e la amava alla follia: un milionario!, s’era disgustato e non voleva più saperne di lei. Ecco quanto le costava l’amore per mio padre!
Tutto ciò, mio padre doveva saperlo; ella mi ingiungeva di raccontargli tutto (badando bene che non sentisse mia madre), e di avvertirlo, in più, che si ingannava se credeva di finirla così... che lei, Rosaria, non meritava e non sopportava simili affronti... E qui Rosaria prese a singhiozzare mordendo dei lunghi guanti di trina che stringeva nel pugno.
S’io ricordo qui la sostanza del suo discorso, tralascio le contumelie e le minacce infernali ch’ella aggiunse all’indirizzo di mio padre, raccomandandomi di riferirgli tutto, ogni parola. Accennò pure alla questione del debito, ch’egli non le aveva pagato, e m’incaricò di dirgli che se non altro per quest’obbligo d’onore avrebbe dovuto presentarsi a lei; ma subito si spaventò d’aver parlato in tal modo, e mi raccomandò di non tener conto di questa sua parola, di non farne cenno a mio padre, di ripetergli, sì, tutto ciò che lei m’aveva detto, ma di non fiatare sul debito... Così ciarlando turbinosamente, ella non cessava di stracciare i suoi guanti coi morsi, e di piangere e singhiozzare, senza occuparsi affatto dei passanti che si voltavano allo spettacolo.
Piena di vergogna, io diventavo ogni minuto più impaziente di accomiatarmi, e infine le sussurrai: – Bene, adesso... addio... devo andare. – Eh, quanta fretta! – ella esclamò gettando lampi dagli occhi, – la gran signora di tua madre non morirà mica se mangerà il suo pranzo due minuti più tardi!
Questo discorso finì di rendermela odiosa. Ella poi non voleva lasciarmi s’io non le giuravo di riferire a mio padre ogni cosa nel preciso modo che lei me l’aveva detta. Ma io le feci osservare che giurare non è permesso, un giuramento, pur se veritiero, è un peccato secondo la legge cristiana. Ed ella mi guardò con ammirazione, al sentirsi fare la lezione da me.
Così mi lasciò andare, ed io, poi, non trasmisi affatto a mio padre il suo messaggio, e gli tacqui perfino d’averla incontrata. S’io tacqui, fu certo per timidezza di fronte a mio padre, ed anche perché mi ripugnava ormai d’aver parte in segreti che mia madre non doveva conoscere. Ma il motivo principale del mio silenzio fu ch’io volevo far dispetto a Rosaria, e vendicarmi dei dispiaceri avuti in altri tempi da lei. Dimostrare, soprattutto, che, non amandola più, ero libera di disubbidirle, e non ero una schiava ai suoi comandi.
Mi figuravo, così, che fra me e Rosaria tutto fosse finito. E avrei certo creduto a una favola se m’avessero detto che, non molto tempo dopo l’incontro di quel giorno, la sorte doveva riunirci ancora una volta insieme per non separarci mai più.
La grande luce del giorno annoiava mia madre e la indeboliva al punto ch’ella pareva caduta in una specie di continuo, leggero malore. Passava intere giornate mezzo svestita sul suo letto disfatto, quasi sorridendo nella sonnolenza, con gli occhi aperti e umidi. La più piccola fatica le dava disgusto, eppure ella si levava e usciva qualche volta, anche nelle ore torride, non soltanto per le visite alla zia, ma apparentemente senza scopo alcuno.
Ciò avveniva una o due volte alla settimana: talvolta io l’accompagnavo ed ella mi conduceva a certi squallidi e vecchi quartieri, ancor più poveri del nostro, e nei quali, in verità, io non vedevo nulla che mi attraesse. Ma ella, invece, pareva ricevere un turbamento quasi religioso dal loro sordido aspetto, e non era difficile indovinare che cercava laggiù delle immagini defunte. Altre volte, usciva da sola, e al suo ritorno, io capivo ch’era stata ancora laggiù, vedendo le sue scarpe e vestiti coperti di polvere, i suoi pomelli infocati, gli occhi febbrili, e la sua nervosa malinconia. Accadeva in simili occasioni che agitata, collerica, piangesse o mi maltrattasse per un nonnulla. Ma dopo queste crisi, diventava più stanca e più dolce di quanto non fosse mai stata, misericordiosa come una santa, e mi pregava di starle accosto, di tergerle il sudore, col tono di chi vuol farsi perdonare un’offesa. Invero, nessuna offesa poteva venirmi da lei: perfino la sua brutalità m’era cara, perché ad essa tornava il merito della sua cortese pietà.
Salvo che nei giorni suddetti, mia madre evitava d’uscir di casa, e trascinava le ore nell’ozio sospirando il ritorno della sera. Col buio, una vita violenta entrava in lei. Si sarebbe detto ch’ella personificava una forza intensa, a cui, come fiamme, si tendevano dalla penombra tutte le cose; ma nel tempo stesso si aveva il senso che, al pari d’una fragile corda vibrante, ella potesse spezzarsi ad ogni minuto. Diventava irrequieta, avventata, facile alle risa e al pianto; i suoi capelli, allorché si pettinava avanti di coricarsi, crepitavano sotto il pettine, dando un piccolo e fatuo sfavillio.
Quanto a me, stanca delle mie giornate laboriose, m’ero appena coricata che già cadevo in un sonno profondo, in cui giacevo immersa, quasi sempre fino al mattino. Sì che mia madre, in quelle notti, trascorreva senza compagna le affascinanti sue veglie. Talora, avvertivo l’attimo preciso ch’ella si levava dal letto, ma solo come un evento remoto, irreale, subito confuso nel sonno.
Altre volte, afferravo in un dormiveglia i suoi dolci lamenti e le sue voci enfatiche: si aggirava per le stanze, nel buio o nella burrascosa luna del solstizio, come una sonnambula, cercando inquieta Edoardo. Ovvero, sporgendosi dal davanzale sull’umida e deserta tenebra di fuori, mormorava dei richiami, e delle strane promesse di lussuria, che suonavano per me misteriose al pari di vaticinî.
Una notte, fui ridestata del tutto da un pianto doloroso e acuto. Ebbi spavento perché, dal giorno che la nostra fantastica illusione era cominciata, non avevo più udito la voce di mia madre esprimere un simile dolore.
Mi accorsi subito ch’ella non era nel letto, ma non riuscii da principio a scorgerla, per via che d’estate, dormendo con la finestra aperta, non accendevamo il lucignolo che avrebbe attirato gli insetti notturni; e dal cielo illune scendeva nella camera appena un debole riflesso.
Pur senza vederla, intesi subito tuttavia ch’ella era in preda alle solite immaginazioni della sua insania, e che nel pianto invocava il nome del cugino, lo accusava di tormentarla e gli chiedeva pietà. Più volte la udii ripetere: – Io credo in te! credo in te! credo che tu puoi tutto ciò che vuole il tuo capriccio! – con l’accanimento disperato di una suora, che, tentata da dubbi nella sua cella, trascorra la notte in penitenza a pregare. E dopo un poco, volgendo gli occhi per la camera, scorsi in un angolo la bianca macchia della sua camicia da notte, e, senza vederla in viso, mi accorsi ch’ella stava in ginocchio e a mani giunte come per un’orazione cristiana.
Le parole ch’ella andava dicendo, e la folle volontà che suonava nella sua voce, ridestarono in me degli antichi, superstiziosi terrori; al punto ch’io non osai chiamarla, né muovermi, né quasi far udire il mio respiro. Ella accusava il suo diletto, perché, dopo aver avuto da lei tante prove di fede, non si manifestava ancora, e non le svelava la propria figura, finendo questa lunga attesa ch’ella non sopportava più. E poi, con accenti da strega, lo chiamava e lo richiamava per nome. Temeva egli forse, gli domandava ridendo, temeva egli forse di farle paura?
Ah, che idee strane! in verità, la faceva ridere come una pazza il pensiero che lui potesse temere d’impaurirla. Ecco, ella era qui, lo aspettava: ch’egli si mostrasse, si mostrasse almeno per un minuto, magari sotto un aspetto fantastico, incorporeo, come un’allucinazione della vista!
E se non voleva mostrarsi, le usasse la carità, allora, di toglierle il giusto uso dei sensi, così che i suoi propri nervi, e gli occhi e l’udito si facesser gioco di lei, suscitandole apparizioni menzognere. Ella voleva esser l’ingannatrice di se stessa; e lusingarsi e innamorarsi d’una finzione, vaneggiando dietro le invenzioni della sua propria mente!
Sì, voleva credere al non vero ed esser cieca alla realtà che le era insopportabile nel suo squallore da quando lui l’aveva esaltata con la sua promessa! Fra simili insane preghiere mia madre rimaneva ferma nella stessa posa in cui l’avevo scorta al primo momento, con le mani giunte, e in ginocchio; e quantunque non distinguessi bene il suo viso, indovinavo ch’ella fissava l’oscurità come se per opera del suo sguardo la sostanza delle tenebre potesse comporsi nella figura del Cugino.
Allora, per la prima volta dopo molti giorni, costui parve alla mia mente non già il familiare, luminoso Pensiero del quale m’ero innamorata; ma una sorta di folletto ibrido e maligno, che si faceva gioco delle nostre esistenze, e che, apparendomi nella nostra camera, mi avrebbe empito d’orrore.
Ma nessun segno apparve nell’oscurità, e neppure il più lieve rumore turbò la calma afosa della notte; io mi feci coraggio e chiamai pian piano mia madre. Ella sussultò, forse inconsapevole ch’io l’avevo fin qui veduta e ascoltata; e, come se l’incanto fosse stato rotto dalla mia voce, ubbidiente al mio richiamo si avvicinò al letto. Il suo pianto si fece tuttavia più forte, e, rannicchiandosi, come soleva, sul pavimento, presso la sponda, ella incominciò a confidarmi le sue pene. Mi disse che la voce incessante di lui la perseguitava, bisbigliandole nell’orecchio i loro ricordi più felici, e carezzandola con promesse così incantevoli ch’ella non poteva più sopportare l’attesa. Che, per ubbidire agli ordini del Cugino, ella era tornata a pellegrinare nei luoghi dei loro antichi convegni; e in certi momenti le era parso di veder balenare qua e là a un crocicchio, o dietro le vetrate di una caffetteria, la figura del giovinetto; ma un istante dopo, s’era accorta d’aver avuto una semplice illusione, prodotta da un gioco d’ombre nel sole, o da un riflesso nel vetro. Eppure il miraggio aveva potuto illuderla tanto che gli era corsa incontro, avvertendo già quasi, nelle mani, la freschezza della tela di lino che il giovane usava per gli abiti d’estate; e, nella bocca, il sentore particolare delle labbra di lui, della sua gota ancora imberbe, delicata e tiepida. Cosiffatti miraggi e sentori e voci erano la sua peggiore condanna: giacché, nel momento stesso che il cugino si rappresentava a lei come una cosa viva e prossima, si negava; e nulla concedeva di sé che non fosse inafferrabile e fatuo, quanto un soffio. Ciò la gettava nell’impazienza e nei dubbi più meschini: eppure, ella non ignorava che solo una cosa, e cioè la diversità presente delle loro due persone, la separava ancora da Edoardo. Ciò ch’ella doveva odiare, era il suo proprio corpo, giacché era questo il muro che le impediva di vedere e di toccare il cugino; e basterebbe distruggere questo solo ostacolo per unirsi a lui. In verità, ella odiava il proprio corpo ed era spesso tentata, come le suggeriva il suo angelo, di liberarsene con le proprie mani; ma era una vigliacca, le mancava la forza al momento della decisione. Perché dunque lui non le veniva in aiuto? perché non la liberava infliggendole magari i peggiori strazi? Qualsiasi strazio inflittole da lui le sarebbe piaciuto... Così detto mia madre si raccolse il volto fra le mani ed esclamò: – Edoardo! fa’ di me quel che tu vuoi, fa’ di me quel che tu vuoi, – ridendo flebilmente, come una bambina assopita che una sua compagna vellichi con una piuma.
All’udire tali discorsi, io piansi, intendendo ch’ella chiedeva al cugino di farla morire. E parlando in quel tono saggio e ragionevole che negli ultimi tempi usavo talora con lei, tentai dissuaderla da una voglia così funesta. Ammisi anzitutto che, sì, non avendo fede nel Signore, ella potesse anche esser contenta di morire prima del termine stabilito. Ma non pensava che, morendo, avrebbe lasciato me sola nella sventura? e come avrebbe potuto, dunque, esser felice insieme al Cugino, sapendo che la sua felicità era causa del mio dolore? Certo, la visione della mia faccia lagrimosa avrebbe guastato la sua gaiezza. Perfino Lazzaro in Paradiso era addolorato vedendo le sofferenze del ricco Epulone, che pure lo aveva trattato in vita con disprezzo e crudeltà. E dunque, avrebbe lei potuto assistere al tormento di una che l’aveva amata e sempre continuerebbe ad amarla? Invece, io la supplicavo di sopportare la vita per amor mio, fino al giorno ch’io pure fossi vecchia e in età di morire: così potremmo spegnerci ambedue nello stesso giorno, e poi, tutti e tre uniti, io, lei e il Cugino, trascorrere l’eternità sempre insieme e in gran festa.
Credevo d’avere usato degli argomenti giusti e persuasivi; tanto più terribile, perciò, mi suonò all’orecchio la perversa risata con cui mia madre interruppe il mio discorso. Ella rise così per qualche secondo, poi disse: – Ah, vicino a me e a lui non c’è posto per te, povera Elisa! – e ripeté – povera Elisa, povera Elisa, – in accento schernitore, seguitando a ridere con un gusto che pareva echeggiare una intesa malvagia. Come se là accanto a lei fosse presente anche il cugino, e insieme si divertissero a ridere di me.
Veramente mai, neppure al tempo della sua peggior cattiveria, avevo ricevuto da mia madre una risposta così crudele.
Due o tre giorni dopo la scena descritta, avvenne che, al termine di una delle nostre visite al Palazzo, la cameriera (istruita certo da Augusta), consigliò mia madre di aspettare almeno un paio di settimane prima di ritornare per un’altra visita. Infatti, certi parenti di don Ruggero, residenti al Nord, dovevan passare per la nostra città recandosi a un loro feudo, e avevano annunciata l’intenzione di fermarsi una diecina di giorni a palazzo Cerentano. Si aspettava il loro arrivo da un’ora all’altra, e poiché la loro presenza causerebbe un insolito movimento nella casa, e donna Concetta sarebbe assiduamente circondata da quella premurosa parentela, sembrava opportuno che mia madre interrompesse le sue visite fino a dopo la partenza di coloro. Certo anche mia madre capirebbe tale opportunità e scuserebbe l’avvertimento... E la cameriera suggerì essa stessa a mia madre una data conveniente, in cui potremmo, senza imbarazzo, ripresentarci alla casa della zia.
L’interruzione all’amata abitudine turbò l’umore di mia madre e accrebbe il disordine della sua mente. Difatti, le frequenti visite a zia Concetta eran l’unico avvenimento delle sue giornate oziose, anzi l’unica norma della sua presente vita. Ella non aveva altra società che zia Concetta. E solo vicino alla madre di Edoardo poteva illudersi d’accostarsi un poco alla presenza carnale di lui.
Si era in luglio, l’aria nella città era polverosa e soffocante, ma mia madre non soffriva più del gran caldo come al principio dell’estate. Guarita dell’inerzia che la spossava durante le lunghe ore di luce, parve a un tratto, come le piante dei climi aridi, attingere nell’aridità la propria esuberanza, la propria forma irregolare e fantastica. Divenne preda a una costante animazione, che non si volgeva ad alcuna attività proficua (ella, anzi, ancor più di prima, trascurava ogni suo dovere e viveva nell’ozio), e destava in chi la vedesse un sentimento quasi doloroso. Tutti conoscono l’affetto mescolato di pietà che si prova dinanzi al fervore eccessivo di certi fanciulli, soli e disarmati nel freddo regno degli adulti.
Mia madre parve sopraffatta da una ricchezza troppo grande, che non trovava oggetti su cui prodigarsi. Mi accadeva di vederla, lei che un tempo mostrava sdegno e ripugnanza per gli animali, accarezzare la criniera d’un cavallo, o il dorso d’un sonnolento asinello aggiogato; o fissare le pupille attente e commosse nei patetici occhi d’un cane; o ridere al guardare una ingorda capretta che brucava l’erba; o godere di lisciare lungamente la testolina d’un gatto sdraiato al sole, accostando la guancia alla pelliccia vellutata di lui.
Talora, vinta d’un tratto da una sorta di frenesia festosa, immergeva il viso nelle proprie vesti, come per celarlo, e incominciava a ridere. Ovvero, stranamente si baciava le sue proprie braccia, e si accarezzava i capelli; ma simili stranezze preludevano sovente a inaspettati mutamenti d’umore, a rabbie, a violenze, e a lagrime estenuate.
Lei così avara, un tempo, dei propri affetti, mostrava una emotività singolare e sproporzionata alle cause: la volgare musica d’un organetto, fermatosi sotto le finestre, la turbava al pari d’un coro meraviglioso; si commuoveva al sottile odore selvatico dei papaveri ch’io raccoglievo per lei sulla montagna di cocci (mentr’io ricordavo che, un tempo, ella lasciava morire per incuria fino le rose). Ed echi lontani, voci delicate o festanti, aromi campestri portati dal vento estivo, mille sentori e suoni ch’io non avvertivo neppure, le davano una sorta di stupore carezzevole, che tardava a dileguarsi: mentre che il suono d’un campanello, lo sbatter d’un uscio, o una voce concitata, la impaurivano, come s’ella fosse sempre in attesa di chi sa quale arcano intervento nella sua sorte.
Talvolta, improvvisamente mutava di colore e mi diceva: – Elisa! che è questo? non hai sentito chiamare dabbasso? – oppure: – non odi un passo sulla scala? – e sebbene io le dicessi che non s’udiva nulla, mi faceva nervosamente segno di tacere, e rimaneva in ascolto.
Il vizio dell’iracondia si riaccese in lei più forte, e un nulla la irritava, soprattutto contro mio padre. Ma ella non sapeva più tenere il contegno vendicativo e umiliante del quale un tempo era stata maestra; e simile a certe deboli ragazzette che presumono troppo di sé, allo scoppiar d’un litigio ben presto si lasciava sopraffare dal pianto. A questi pianti, si abbandonava con una sorta di violento gusto, come se, appartata da noi, si consolasse fra le braccia d’un suo amico segreto, il solo che poteva intenderla.
Una compiacenza misteriosa apparve in ogni sua movenza, come se uno, invisibile a noi, fosse sempre là a sussurrarle nell’orecchio le lodi delle sue bellezze, e lei, costretta a tacere, per divieto, questo suo romanzo incantevole, godesse di lasciare, almeno, indovinare la sua gloria.
Ogni suo gesto era un subdolo tradimento dei suoi segreti, e alludeva a chi sa quali peccati o trionfi. Ma, sebbene tanto compiaciuta di sé, ella diventò nell’aspetto sempre più trasandata. Interrotte le visite al Palazzo, rimaneva spesso in casa durante l’intero giorno, e non si curava di vestirsi né di pettinarsi. Alla mattina, s’infilava al posto della camicia da notte una semplice sottoveste, o la vestaglia di cotone leggero, e fino all’ora di dormire s’aggirava discinta, coi capelli scomposti come al momento che s’era levata dal letto, i piedi nudi nelle ciabattelle consunte. Il suo fosco, ombroso pudore dinanzi a mio padre, parve d’improvviso caduto, ed ella non ebbe più alcun ritegno di spogliarsi e di acconciarsi in presenza di lui, ma anzi ostentava in questi atti una noncuranza provocatrice, e un languore maligno, quasi un piacere della spudoratezza. In verità, fin da piccolina io m’ero avvezzata a vederla spogliarsi con libera semplicità e senza vergogna quando eravamo sole noi due; ma tale materna costumanza, che a me pareva naturale ed eterna, non rassomigliava in nulla a questo suo nuovo comportamento. Allora, come già vi dissi, ella usava comportarsi innanzi a me con la medesima placidità distratta che se fosse stata sola, e non si nascondeva alla mia innocenza come non ci si nasconde agli occhi degli innocenti animali; a me il suo corpo appariva casto e venerabile come una statua consacrata né avrei potuto mai rassomigliarlo a quello delle altre donne.
Adesso, invece, mentre ad usci spalancati, in camera, si toglieva l’abito e si sganciava il busto; o, seduta mezzo nuda sul divano del salotto, si infilava le calze quasi indugiando, aveva, pur senza guardarci, nelle sue pupille scure un’espressione accesa e sfrontata con cui sembrava rinnegare il suo sposalizio, la sua maternità, e avere a scherno la nostra devozione. Ostentava sovente le sue bianchissime spalle, e il petto mezzo scoperto, con l’aria di dire a mio padre: «Vedi quanto son bella. E sono amata. E ti odio». E spesso prorompeva senza ragione in risate morbide e squillanti in cui mi pareva di riudire, esclamate in mille toni, le parole: «Povera Elisa! Povera Elisa! Povera Elisa».
Dimentica del rispetto dovuto a se stessa e al proprio orgoglio, sembrava gustare una sorta di gioia torbida nell’impartire ordini a mio padre, come a un servo, e nel vederlo ubbidire. Egli le ubbidiva sempre. Una sera, al ritorno da uno dei nostri soliti assurdi vagabondaggi, trovammo mio padre già in casa; e lei, tutta accaldata, ansante, appoggiandosi col gomito al ripiano della credenza, gli si rivolse con una voce ilare e volgare che non pareva la sua, comandandogli di slacciarle le scarpe. Egli si dispose subito a ubbidirle, chinandosi ai suoi piedi; quando d’un tratto, chi sa perché, la vista di lui destò in mia madre un riso prolungato, folle, ch’ella fu incapace di calmare sebbene si lagnasse di provarne un acuto dolore al petto: e che rassomigliava non tanto a uno sfogo di gaiezza, quanto a una crisi nervosa. Così ridendo e lagnandosi nel tempo stesso, come in preda a una sofferenza, mia madre si abbatté a sedere col capo riverso, scuotendosi tanto che le forcine le caddero dalla crocchia; intanto ella si brancicava la camicetta e tentava di liberarsi dal busto che la opprimeva. E come mio padre ed io venimmo in suo soccorso, poggiò sulla spalliera della sedia il volto chiazzato di rossore, dalla bocca ilare, sogguardandoci con occhiate oblique e sonnolente. Ogni tanto, si volgeva trasognata alla mia voce febbrile, che la supplicava di tornare in sé. Io temevo infatti, inspiegabilmente, che quella risata la uccidesse gettandola nell’inferno, come un peccato mortale; e non riconoscevo più la mia bella signora in quella donna sguaiata e pazza.
Fra simili disordini eran trascorsi i primi giorni di luglio; e giunse la prima domenica di questo mese. Mia madre ed io passammo la giornata in casa; mio padre, invece, dopo aver dormito qualche ora, uscì, solo, sul tardo pomeriggio. Durante il giorno, il caldo era stato insopportabile; ma verso il tramonto, un vento leggero portò un poco di refrigerio. Mia madre mi ordinò di spalancare tutte le finestre e gli usci e si sedette presso la finestra della nostra camera, in una posa tranquilla, godendo i soffi del ponente. Perché soffrisse meno il caldo, io le avevo rialzato intorno alla testa, in un’alta corona di trecce, i capelli madidi di sudore. Seduta accanto a lei, nella penombra, contemplando ora il suo bianco profilo, ora i suoi piedini nudi, vissi alcuni minuti felici.
Sul far della sera, rientrò mio padre e si sedette un poco accanto a noi; ma poiché mia madre si lagnò di aver sete, e disse che aveva voglia di ghiaccio, egli si offerse di andare a cercarne alla più vicina birreria.
Quand’egli tornò, eravamo in cucina per i preparativi della sera; mia madre si rallegrò vedendo il ghiaccio e raccoltine alcuni pezzi nelle mani vi premette contro la gola, la fronte, e le guance arrossate dall’ardore delle braci. Così facendo, ella dava delle piccole risate palpitanti e con sottili, incoerenti voci di spasimo ripeteva che quel ghiaccio la bruciava come un fuoco. Sì, ricordo ogni particolare di quella domenica sera, anche le cose di nessuna importanza.
Mia madre non mangiò quasi nulla, era di umore svagato, ma bizzarramente affettuoso. Volle ch’io le toccassi la guancia con la mano per sentire la freschezza che vi aveva lasciato il ghiaccio; poi trattenendo accosto al suo viso la mia sudata manina, mi disse in tono allettante, ma quasi severo: – E adesso, perché non mi baci? – Io mi strinsi a lei con impeto, e mi parve davvero, baciando il suo viso fresco, di toccare con le labbra una rosa.
Seduta presso la finestra, col capo un poco ripiegato e le opulente sue spalle mezze scoperte, ella rassomigliava proprio ad una grande rosa estiva, piena di effimero fervore e di malinconia. Non l’avevo mai tanto amata come quella sera; avrei voluto ch’ella, quale una matrigna fiabesca, mi sottoponesse a fatiche astruse e perigliose, a servigi mortali; poiché, ferita e sanguinante per sua colpa, nel mezzo d’un dolore inflittomi da lei stessa, io forse avrei potuto, col dirle: ti amo!, farle capire veramente quanto l’amassi.
I suoni delle sere domenicali giungevano, attutiti e spezzati, coi radi soffi del vento: i gridi dei gelatai, le rauche voci dei cantanti girovaghi con l’accompagno delle fisarmoniche e degli organetti, il brusio delle comitive, e la musica stridente della giostra che da qualche giorno era stata eretta non lontano dalla nostra casa. Fra i molti suoni, si distinsero alcune note d’una romanza d’amore allora in voga; e mia madre, in una maniera proterva e insieme adescatrice, simile a quella usata poc’anzi con me, disse a mio padre: – E tu, che cosa fai?
Non sai più cantare?
Indi, sempre nello stesso tono, lo invitò a cantare quella romanza; e mentr’egli cantava, mostrava di dilettarsi nell’ascoltarlo, quasi che nelle strofe amorose non riconoscesse oggi la voce odiata. C’era nel suo viso un’espressione cupida e insieme inanimata, come di chi aspiri un profumo troppo forte. La sua bocca lievemente corrucciata aveva un ansito dolce appena percettibile, e gli occhi uno splendore velato e stagnante, sì da non parere occhi di donna, bensì di gatta o di cavalla o di altra creatura inferiore e soggetta alla volontà altrui. Finita la romanza, ella fece una smorfia, e in tono arrogante, come se pronunciasse un insulto, disse a mio padre: – Tenore!
– Quindi incominciò a sbadigliare, e a lagnarsi del caldo; e d’un tratto propose a mio padre d’uscire in istrada: – Tu, Elisa, – soggiunse, – non guardarmi con quegli occhi di cagnòlo spaventato. Si capisce che verrai con noi.
Dal tempo che incominciavano i miei ricordi, era questa la prima volta che uscivamo insieme tutti e tre, io, mio padre e mia madre. Passato il portone del casamento, l’insolito terzetto s’avviò a destra, lungo la via regolare, e scarsamente illuminata, in fondo alla quale s’apriva un largo spiazzo incolto e senza costruzioni. Come altrove già vi dissi, in primavera quello spiazzo si tramutava in una campagna erbosa e fiorita dove andavano a godere il sole i ragazzi con le loro madri. In ogni stagione, solevano accamparvisi talvolta zingari di passaggio. E nelle sere d’estate, vi si svolgevano i divertimenti popolari del quartiere, cui s’era, quest’anno, aggiunta la giostra. Per simili divertimenti a buon mercato, mia madre aveva sempre mostrato non solo disprezzo, ma fastidio: al punto che evitava di attraversare quel sito affollato e rumoroso e fin la lontana eco di quegli schiamazzi e di quelle musiche volgari bastava ad esasperarla. Stasera, invece, ella era in balìa di un’esaltazione che le accendeva il sangue, trasfigurando ogni cosa intorno a lei: la festa, infatti, che si svolgeva nello spiazzo, era la medesima di tutte le domeniche, ma mia madre, in luogo di fuggirla, ne pareva attratta e addirittura incantata. Nel suo vestito di poco prezzo, negletto e senza garbo, nell’affrettata acconciatura, si muoveva col passo voluttuoso, con lo stupore inebriato e dolce di una signora a un gran ballo. Quanto a me, devo dirvi che, senza dichiararlo neppure a me stessa, in realtà avevo sempre celato una inconfessabile attrazione per quel parco sì da provare quasi un morso d’invidia vedendo le sue luminarie che splendevano da lontano. Per cui, mia madre sanciva in questa domenica un culto segreto del mio cuore; e neppure un’ambiziosa fanciulla al suo primo ingresso a Corte avrebbe potuto essere più fiera e più felice di me.
Nell’attraversare lo spiazzo, costeggiammo quasi la giostra, ch’io reputavo fra me a quel tempo non già un divertimento accessibile a tutti, ma una sorta di girante equipaggio riservato a qualche famiglia di altissimo rango, o favolosamente ricca, o altrimenti privilegiata. In mezzo al parco, le lampadine multicolori della giostra giravano; e intorno, sui margini, scintillavano le fiamme ad acetilene dei cocomerai, dondolavano le lanterne appese alle capanne dei limonari o dei mescitori di cocco o d’orzata, mentre che nella baracca del Tiro a segno brillavano innumerevoli, minuscole lampade, disposte in forma di cerchio o di stella, le quali altro non erano che i punti di mira dei tiratori: onde ogni momento una ne scoppiava, spegnendosi con un piccolo strepito e un tintinnìo. Si aggiunga a tante e così diverse luci il movimento incessante della folla, e il vario frastuono delle voci, delle risa e delle musiche, su cui, di tutte più assordante, quella monotona della giostra. Or ecco io supponevo che tutta quanta la folla, mercanti, compratori e popolo, si ritenesse privilegiata e onorata per la visita di mia madre, si accalcasse per ammirarla, e si ritraesse per lasciarla passare. Mi figurai che il valente giovane tiratore il quale, alla baracca del tiro a segno, spense, con un fitto fuoco di colpi, una perfetta stella di lampade, e guadagnò (dopo avere, s’intende, pagato i propri colpi), una bottiglia di spumante con la sua vittoria; mi figurai, dico, che questo campione fosse fiero soprattutto perché alla sua vittoria aveva assistito mia madre. Perfino nelle voci degli imbonitori, dei venditori ambulanti con le lor cassette a tracolla e dei gelatai fermi fra le stanghe del loro carrettino, perfino in queste voci credevo di sentire un’intenzione galante, o servizievole, all’indirizzo di mia madre; e sospettavo che appunto in onor di lei, per farsi belli e piacerle, quei venditori celebrassero le proprie merci con frasi così ricamate e fantasiose. Giudicavo, insomma, un grande avvenimento per la popolazione del quartiere il fatto che mia madre si fosse degnata finalmente di entrare nel parco e di partecipare alla festa.
In realtà, la bellezza esaltata e languida di mia madre attirava molti sguardi; ed ella, per la prima volta da quando uscivamo insieme, pareva accorgersi e compiacersi dell’ammirazione altrui. Non guardava mai nessuno in viso, ma tuttavia, se avveniva che uno sguardo estraneo si posasse su di lei con singolare ardimento, pareva ch’ella lo sentisse giacché i suoi occhi sfavillanti si raddolcivano e i suoi cigli battevano come per un cenno dietro la sua veletta nera. I suoi labbri si sporgevano in un finto broncio e una specie di sorriso invitante e malinconico le splendeva per tutta la faccia.
Così attraversammo il parco e ne uscimmo, ritornando sulla via di casa e lasciando dietro di noi quel gaio frastuono, sempre più fioco ad ogni nostro passo. Mentre percorrevamo con lentezza la via, semibuia e poco frequentata in quella sera festiva, io vidi mio padre stringere il braccio di mia madre; ed ella non respingerlo come avrebbe fatto per solito, ma, quasi domata da una subitanea stanchezza, appoggiarsi alla spalla di lui con un movimento d’abbandono. Il portone del palazzo, a motivo dell’ora tarda, era ormai chiuso, e mi accorsi che mio padre faticava ad aprirlo, tanto gli tremava il polso. Egli poi ne richiuse il battente, alle nostre spalle, con una violenza inutile e smodata, causando un fracasso cupo che riecheggiò nelle volte. Ci inoltrammo lungo la scala fino al nostro terzo piano: essi mi precedevano, quasi avvinti, e vidi la bocca di mio padre accostarsi all’orecchio di mia madre bisbigliando inafferrabili parole.
Entrati appena nell’ingresso, mia madre girò l’interruttore della lampada, e in una sorta di smemoratezza o di apatia si arrestò dinanzi allo specchio dell’ombrelliera come per togliersi il cappello. In quel momento stesso mio padre sopravvenne e la strinse fra le braccia; ed ella, come già poc’anzi, non lo respinse, ma, chiusi gli occhi, prese a carezzargli, alla guisa di una cieca, il collo e il busto, con un bizzarro sorriso da malata, e un pallore estremo, e una remissiva debolezza delle membra che parevano lasciarsi alla volontà di lui. Sentii mio padre gridare: – Anna mia! – con voce d’orgoglio vittorioso; poi li vidi ambedue sparire nella nostra camera di cui fu chiuso l’uscio.
Allora io fuggii nella cucina, e al buio, coprendomi gli orecchi con le due mani, mi accovacciai per terra, nell’angolo del focolare, fra singhiozzi desolati e rabbiosi.
Quando, placata un poco, mi tolsi le mani di sugli orecchi, nella casa regnava il silenzio. Nessun riflesso o rumor di voci veniva dal cortile, anche le ultime finestre illuminate s’erano spente, e gli echi festosi delle strade eran cessati del tutto. Pensai d’essere stata dimenticata da ognuno; e decisi di rimanere sola, in quel nero angolo della cucina, per tutta la notte, senza dar segno di vita. Dalla gola mi salivano tuttavia lamenti e singulti ch’io mi sforzavo di soffocare; ma il sentimento più acerbo, che mi faceva stringere i denti, era un terribile rancore verso mio padre, congiunto a una assurda smania di vendetta. Infine, tutto ciò si risolse nella grande e unica paura del buio: così forte, ch’io non osavo muovere un passo per accendere la lampada. Come spesso facevo in occasioni simili, mi diedi allora a balbettare in fretta in fretta una preghiera onde aver coraggio; e difatti, racconsolata un poco, stavo quasi per assopirmi, allorché un passo risuonò nel corridoio. La chiavetta dell’interruttore fu girata, e nella cucina inondata di luce l’odiata voce di mio padre esclamò: – Che fai qui, Elisa? – Ancora nella sua voce risuonava quell’accento trionfante e diabolico. – Va’ dunque a dormire, – egli soggiunse, – la mamma ti aspetta.
Torcendo gli occhi per non guardarlo in faccia, uscii dalla cucina, e attesi nel corridoio finché non lo vidi ritirarsi nel salotto e chiuderne l’uscio. Allora, col batticuore, la mente ingombra di dubbi confusi e conturbanti, entrai nella nostra camera. La luce era accesa, e mia madre mi gettò uno sguardo severo senza peraltro dirmi nulla né mostrarmi in alcun modo d’avermi aspettato o di occuparsi di me. Era in piedi, mezzo svestita, presso il letto in disordine, e il suo viso, fattosi tanto pallido da sembrar d’una tinta olivastra, aveva un’espressione dura. I bei capelli, ch’io stessa le avevo pettinati nel pomeriggio, le cadevano sulle spalle arruffati e scomposti; ed ella fissava, quasi ammaliata, ora il letto su cui si vedeva una delle sue scarpette, ora un suo fermaglio da capelli che giaceva in terra ai suoi piedi. Nel tempo che io, tacita, frettolosa, mi svestivo e mi coricavo, ella rimase rigida nel medesimo atteggiamento, come vinta da un incanto, fra i suoi vestiti e i suoi oggetti in disordine.
Finalmente andò a spegnere il lume, ma non si coricò né si stese sul letto durante tutta la notte; svegliandomi, infatti, ogni tanto, da un sonno nervoso e leggero, la scorgevo, nel debole chiarore del sereno, o appoggiata al cassettone come se meditasse, o diritta nell’angolo della parete come una bambina in castigo. Rimaneva però silenziosa, e si muoveva senza rumore al pari d’una gatta; io non osai di chiamarla.
Era ancor notte fonda, quando mi giunse dal salotto vicino il suono soffocato della sveglia: giacché mio padre doveva trovarsi sul primo postale che partiva alle quattro. Mi riassopii subito, sì che non udii mio padre uscire di casa; ma egli doveva esser partito appena, quando fui ridestata da un rauco singhiozzo di mia madre. Certo, ella s’era dominata fin qui nel timore che mio padre potesse udirla piangere; e per un consimile timore non aveva osato di rifugiarsi in camera della nonna. Il suo subitaneo scoppio di pianto m’era appena giunto agli orecchi, quando, maldesta ancora, io m’avvidi ch’ella fuggiva dalla nostra camera. Un istante dopo, mi pervennero, dalla stanza della nonna, i suoi singhiozzi aridi e laceranti; e accorrendo per confortarla, io trovai l’uscio della stanzetta chiuso a chiave.
Dalle fessure non trapelava alcuna luce: evidentemente mia madre non si curava di accender la lampada, e il pensarla sola nel buio accresceva la mia pietà. Di tanto in tanto, ella interrompeva i suoi singhiozzi e con una voce monotona, crudele, come recitando una perfida litania, si dava ad accusar se stessa, ripetendo in mille modi d’esser colpevole, d’esser indegna, di meritare ogni oltraggio e ogni castigo. Poi, come se le sue proprie accuse le dimostrassero con sempre maggiore istanza la gravità della sua colpa, di nuovo prorompeva nel suo pianto aspro e isterico, invocando il nome del cugino e scongiurandolo di non condannarla. Per me che la udivo, tutto ciò era un enigma: infatti, malgrado l’impulso d’odio provato. verso mio padre, io non potevo, in verità, intendere in nessun modo che cosa fosse avvenuto in quella notte, e le colpe accusate da mia madre rimanevano un mistero interdetto alla mia ragione. Né io cercavo la rivelazione di tal mistero: anzi, rifuggivo da essa, per quella istintiva difesa della propria innocenza che talora, al cospetto d’un’esperienza adulta, fa scudo a certi ombrosi fanciulli. Una cosa, però, mi apparve sicura: e cioè, che quella notte era stato commesso un affronto, e oltrepassato un limite che non si doveva varcare; e che Edoardo, il nostro nume, era offeso, il suo grazioso, incorporeo volto respingeva mia madre con atti di dolore e di sdegno, e le negava il perdono. Se avessi osato sperare ch’egli mi ascoltasse, avrei voluto intercedere a favore di mia madre. Ma come invocare il Cugino? e chi era Elisa per lui? Veramente, da molti segni, e in particolare dalla famosa risposta di mia madre, sembrava chiaro ch’egli mi giudicava un personaggio insignificante e risibile, e non voleva allacciare la più piccola relazione con me. La mia voce varrebbe certo per lui quanto il ronzìo d’un insetto. Onde io non seppi far altro che unire il mio pianto a quello di mia madre attraverso il legno dell’uscio.
Al suono dei miei singhiozzi, mia madre tacque, e, dopo un silenzio, con voce spaventata esclamò: – Chi c’è? – Son io, – risposi bussando leggermente, – Elisa –.
Ma a queste mie parole udii mia madre balzare contro l’uscio, e gridarmi di là da esso, con voce minacciosa e stridula: – Che fai qui? Via, tornatene a letto, vagabonda, intrigante. Non voglio più vederti, brutta genìa dei De Salvi. Vattene, se non vuoi ch’io ti rompa il viso!
Ubbidii, pur lasciando socchiuso l’uscio della nostra camera; e rannicchiatami fra le lenzuola, piangendo invocai da Dio di farmi morire in quella stessa notte, tanto era il mio dolore per le parole déttemi da mia madre: e fra queste preghiere, soffocavo i miei gridi, temendo l’ira di lei. Dopo che lo scalpiccìo dei miei piedi nudi s’era dileguato nel corridoio, ella era rimasta ancora un poco in silenzio, come in allarme; poi la udii riprendere, ma in tono basso e interrotto, le sue pietose querele, mentre il suo pianto si faceva più raro, come quello di una bambina estenuata. Io tendevo l’orecchio all’amata sua voce, ed ero certa che non avrei potuto mai più trovar sonno, tanto mi doleva il cuore: invece, senza avvedermene, ancora una volta mi assopii.
Non posso dirvi, perciò, in qual modo si sia svolta la notturna penitenza di mia madre nella stanzetta: mi ricordo, invece, di una scena ch’io credo d’avere intravvista nella realtà, e verso il mattino di quella famosa notte, sebbene sia possibile ch’io l’abbia soltanto sognata, e non già quel mattino stesso, ma in seguito. Mi parve, dico, di scorgere, fra il sonno e la veglia, mia madre, che ritta dinanzi allo specchio della nostra camera, nella prima luce, s’intrecciava adagio adagio i capelli. Ultimate le trecce, ella non se le fermava sul capo, ma se le lasciava pendere sul petto, ai due lati del volto; ed io vedevo riflettersi nello specchio l’immagine di lei che si contemplava con una espressione altèra e ambiziosa. Intanto, il sonno mi richiudeva gli occhi, ma prima di ricadere addormentata mi sembrava d’udire un piccolo rumore secco, ripetuto e stridulo, quasi un sottile ticchettio; però tale suono resta, anche nel ricordo, così vago e nello stesso tempo così beffardo e lugubre da somigliare, in verità, piuttosto alla fantasia di un sogno.
Il fatto si è che la mattina, al mio risveglio, m’avvidi che il posto di mia madre nel nostro letto era rimasto vuoto. E presa da nervosismo, immaginandomi chi sa quali strane sventure, corsi fuor della camera (di cui l’uscio, che io nella notte avevo lasciato accostato, era stato chiuso nel frattempo), ed entrai nella stanzetta della nonna, non più chiusa a chiave. Vidi allora mia madre addormentata al suo scrittoio, con la guancia posata su alcuni foglietti sparsi. Ella era nelle medesime vesti succinte con cui l’avevo veduta uscir dalla nostra camera quella notte stessa, ma c’era nella sua persona alcunché di nuovo, ch’io notai subito con un brivido di spavento: le sue bellissime trecce erano state tagliate e in luogo di esse erano rimaste soltanto delle corte ciocche nere, le quali, arruffate dal sonno, lasciavano scorgere qua e là dei capelli bianchi.
Al veder questa cosa, tremando io chiamai sottovoce mia madre; ma ella s’agitò appena e si rivoltò sulla tavola, con un roco lamento di noia, senza svegliarsi. Mi sedetti allora sul lettuccio di ferro, in balìa di timori inverosimili; e là rimasi rannicchiata, finché mia madre si riscosse, destata forse dai rumori mattutini della corte, o dai miei grossi sospiri. Ella girò pigramente il busto, senza levarsi dalla sedia, e al vedermi non si meravigliò né mi scacciò, ma dopo un poco mi disse: – Che hai per fissarmi in quel modo? ti faccio paura? – passandosi le dita fra i capelli, con un gesto sonnolento, e un sorriso malevolo e scaltro.
Aveva un volto sfatto, livido, e una maligna spavalderia nelle maniere. Venne a sedersi accanto a me, sul lettuccio della nonna, e una sorta di piacere le lampeggiò negli occhi alla vista del mio sgomento. Con un tono misterioso, ma cattivo, come già pregustando l’annuncio di nuove amarezze per me, disse: – Tu vuoi sapere l’accaduto, vuoi sapere, madama curiosa? – e prese una strana fisionomia, poi con voce bassa, fanatica, mi svelò che, in quella notte stessa, il Cugino le aveva dato degli ordini e imposto dei sacrifizi per punirla delle sue colpe. Ella infatti lo aveva tradito, aveva profanato il loro fidanzamento, e mancato al loro patto, coprendosi di vergogna: e adesso doveva accettare qualsiasi pena egli le imponesse.
Prima di tutto, egli le aveva ordinato di tagliarsi le trecce, delle quali, fin da ragazza, s’era troppo compiaciuta: e adesso lui le voleva in pegno. L’ordine era stato di reciderle subito, avanti il sorger del sole; ella aveva ubbidito, e nel pomeriggio si recherebbe sola dalla zia Concetta, affinché le trecce venissero poste nella camera d’Edoardo, come offerta votiva, fra i ricordi delle sue molte amanti: e ciò doveva servirle di mortificazione. Ella insisterebbe per essere ricevuta ad ogni costo da zia Concetta, pur se i parenti di Ruggero si trovavano ancora nella città; e, ammessa alla presenza della zia, si getterebbe ai suoi piedi, confessando d’essere una svergognata e una sudicia sgualdrina, e supplicando la vecchia di perdonarle. E se la vecchia le negava il perdono, ella si umilierebbe ancor peggio, e le bacerebbe i piedi, chiamandola madre benedetta e madre santa, finché non la muovesse a pietà. Così dicendo, mia madre s’era alzata dal lettuccio, e lagrimava, con atti, però, di esaltata vanagloria, piuttosto che di contrizione. Ella sembrava vedere nella sua prossima umiliazione quasi un gesto da regina, e si sarebbe detto che mai s’era lusingata d’esser l’eletta, e la sposa d’Edoardo, come oggi che lui la sfidava a umiliarsi.
Tale, dunque, era la penitenza inflittale dal cugino in quella notte; ma, ella aggiunse, il cugino l’aveva avvertita che la sottoporrebbe a nuove prove e a mortificazioni assai più gravi, avanti di perdonarle. Ella però accoglierebbe come una grazia ogni nuovo dolore: poiché lui le aveva promesso che il suo perdono precederebbe di poco tempo il loro sposalizio. Intanto, era volontà di lui ch’ella non si coricasse più nella nostra camera, nel letto matrimoniale, ma dormisse sola nella stanzuccia della nonna, e senza materasse né guanciali, distesa sui nudi ferri del letto: così, il suo corpo conoscerebbe un giusto tormento dopo aver soggiaciuto alla vergogna. E mia madre ebbe, nel dir queste parole, un accento di voluttà quasi religiosa.
Ella parlava, invero, delle proprie insensate macerazioni, e dei propri giochi fantastici, col tono d’una suora che abbia tradito i voti santi; ma io (tanto ero presa e allacciata nei suoi stessi sogni), non provavo stupore, né sdegno. E invece di piangere sulla stoltezza di lei, piangevo sulla crudeltà del cugino. Piangevo per i bei capelli, la cui fine m’offendeva come s’io fossi stata ferita o mutilata nella mia persona stessa; e per il male che mia madre proverebbe nel sottoporsi a penitenze tanto selvagge; e per le mortificazioni inflitte alla sua fierezza, che m’incitavano alla rivolta. Ma, più amaro d’ogni altra cosa, mi faceva piangere il pensiero che dovrei, d’ora innanzi, dormire sola nel nostro letto matrimoniale, e sarei privata così della mia compagnia più cara e del mio più grande privilegio.
Fin da quel giorno stesso, mia madre mise in atto le volontà di Edoardo. Nel dopopranzo, mentr’io, seduta in cucina, rammendavo certi miei straccetti, ella uscì di soppiatto e a mia insaputa, certo per recarsi dalla zia.
Quando, prima del tramonto, rincasò, io non fui capace di leggere sul suo volto trasognato e febbrile se donna Concetta l’avesse o no perdonata. Ella, poi, di questa sua visita al Palazzo (dove la sorte, per il volgersi degli eventi, non doveva dopo di allora condurmi mai più), non mi raccontò né mi disse nulla, né quel giorno né in seguito.
Quella sera medesima, si trasferì dalla nostra camera nella stanzetta della nonna. E da questo punto, la nostra vicenda familiare si fa nei miei ricordi precipitosa e confusa; le poche scene che ne affiorano, e delle quali fui testimone e partecipe, mi appaiono, se le riguardo con la mia mente di allora, soltanto dei misteri inumani. Cercherò tuttavia di rievocare, come meglio posso, con l’aiuto della mia ragione adulta, gli episodi più notevoli di quegli ultimi giorni che precedettero l’epilogo.
Mio padre non fu meno stupito e addolorato di me quando vide mia madre senza più le sue trecce. Mia madre gli disse di averle tagliate perché quei capelli troppo lunghi le davano caldo e la importunavano: e così pure addusse il pretesto del caldo per il cambiamento della camera, affermando che la stanzetta della nonna era più fresca. Ella aveva di nuovo assunto verso mio padre il contegno chiuso e aspro dei tempi peggiori, ed anche per me non aveva più amicizia né confidenza, ma anzi una specie di avversione. Il suo fervido, incostante e affascinante umore degli scorsi giorni era scomparso: adesso, ella serbava sempre un’espressione calma e accigliata e sul suo viso c’era quel tristo pallore quasi grigio ch’io le avevo già veduto entrando in camera, nella famosa notte di domenica.
Accadde però che mio padre mostrò nel proprio contegno qualcosa d’inusitato e di nuovo. Egli non aveva più l’antica sommissione da servo, e mentre non si rassegnava a ritrovare mia madre nemica dopo averla conosciuta dolce e affabile, sembrava persuaso d’aver conquistato un diritto su di lei nel momento stesso che, in anticamera, ella gli si era abbandonata fra le braccia.
Quell’odioso accento di vittoria, inebriato e crudele, che avevo udito nel suo grido «Anna mia», riecheggiava tuttora nella sua voce ad ogni occasione. Così, allorquando egli si risentiva per il taglio delle trecce, diceva a mia madre: – Non dovevi, non dovevi mai tagliare i tuoi capelli, – con un tono di gelosa rivolta, come se le bellezze di mia madre non appartenessero a lei stessa, ma a lui.
Quand’ella se ne stava silenziosa, egli insisteva per conoscere a che cosa ella pensava, e se avesse male, o che cosa avesse: con una ostinazione tirannica, quasi intendesse dirle: «è giusto ch’io sappia i tuoi pensieri, sono il tuo sposo». E vedendola fredda e chiusa in sé la seguiva con degli sguardi interrogativi, aggrondati e pieni di una volontà selvaggia.
S’ella distrattamente posava una mano sulla tavola, egli posava carezzevolmente la propria mano su quella di lei; com’ella poi si ritraeva in fretta, sul viso di lui passava un’espressione ribelle e minacciosa.
Una simile, dubbiosa pace durò fin verso la metà della settimana. La terza o quarta sera, poco dopo il tramonto, mia madre, mio padre ed io sedevamo tutti e tre nel salotto, ma divisi uno dall’altro e in silenzio. Mia madre, nel vano della finestra, s’indugiava all’ultima luce in attesa d’accender le lampade; ed io, dall’angolo del divano in cui me ne stavo accovacciata, vedevo in fondo alla stanza già quasi buia risplendere gli occhi di mio padre, che non si staccavano un istante dalla persona di lei.
D’un tratto, con una voce strana egli esclamò: – Anna! – e mia madre si volse, e si levò bruscamente in piedi, nell’atteggiamento d’un animale che si adombra; ma già mio padre le era vicino e la stringeva fra le braccia, come poche sere prima dinanzi allo specchio dell’ingresso. – Che fai! – gli gridò mia madre, e con la stessa violenza di chi dovesse lottare per la propria vita, si dibatté e lo respinse, ritraendosi contro la parete e sogguardandolo piena di sgomento e di repulsione. Ella tremava, e aveva tutto il volto sudato: – Che vuoi da me? – disse con voce interrotta, – guàrdati dal fare un passo verso di me. Non accostarti a me, non toccarmi, tu mi sei odioso.
La bocca di mio padre si contrasse con cattiveria: – Non m’importa di esserti odioso, – egli disse, – commettesti un errore sposandomi. Ora sei mia moglie, e farai ciò che mi piace, secondo il mio diritto.
– Tu non hai più diritti su di me, – rispose mia madre, – io t’ho sempre odiato, e ti sposai per necessità, ma ora nessuna cosa mi è più necessaria. lo sono in casa tua, sì, è vero: ebbene, se vuoi, scacciami, abbandonami sulla strada. Oppure vattene di qui, non curarti della mia sorte, ma lasciami, non accostarti a me. Non ti stancherai di perseguitarmi? Sbagliai sposandoti, è vero, ma adesso è finita. Voglio esser gettata sulla strada! La mia persona non t’appartiene, io non sono più tua moglie!
Un’espressione capricciosa e sconvolta apparve sul viso di mio padre: – Non sei più mia moglie! – esclamò egli con ira, – e allora, s’io ti sono straniero, tu eri forse una sgualdrina quando, poche sere or sono, mi sorridevi e mi adescavi? E se adesso mi respingi, tu non mi respingesti allora, e se dici di odiarmi, non erano d’odio le parole che tu mi dicevi...
Mia madre si fece bianca bianca e le tremarono le gote, sì ch’io credetti di vederla abbandonarsi a piangere per la vergogna. Invece, proruppe in una risata astiosa e impavida: – Tu hai creduto, – disse, – ch’io sorridessi a te, hai creduto che fossero per te le mie parole d’amore!
Sappi ch’io non ero sveglia quella notte, agivo come in sogno. Tu eri con me, ma io, io stavo con un altro, e tu non eri che un sosia, un fantoccio. Io ti odiai sempre, e ancor più ti odiavo allora, e amavo un altro, e sempre amai lui da che vivo. Ascolta quel che ti dico, e uccidimi pure se credi: io amo lui, lui è il mio marito, e il mio amante!