Capitolo secondo
Il butterato ha qualche sfortuna in amore

Francesco aveva poco più di sette anni, allorché una mattina verso le undici, i De Salvi ricevettero una visita inaspettata. Sedevano tutti e tre in cucina per il pasto, quando sull’uscio apparve Nicola Monaco: forse un caso lo aveva condotto da quelle parti, e il ricordo, insieme con la curiosità, lo aveva spinto fino a quella casa.

Damiano si riparò gli occhi con la palma, ad osservare incerto quella figura contro luce, ed esclamando poi: – Toh, don Nicola! – si fece incontro al visitatore, che invitò a dividere il cibo e il vino. Ammutolita, Alessandra osservava quell’immagine, rimasta quasi identica dopo otto anni. Quanto a Nicola, egli osservava Francesco, e volle vederlo in piedi, facendolo girare a destra e a sinistra, e ammirandolo. Con un tono allusivo che solo Alessandra poteva intendere, egli esclamò: – Che bel figlio ti è nato, Alessandra! – ed ella non arrossì, ma sorrise, in atto di beato compiacimento. Poiché Damiano, col suo parlare stentato, vantava a Nicola i talenti non comuni del bambino, il visitatore incominciò a interrogarlo, e rimase meravigliato delle risposte di lui. Francesco, timido e scontroso al primo istante, fattosi poi più ardito, fissava gli occhi luminosi sullo straniero, mirando il suo vestito e il suo volto, senza perdere una sillaba delle sue parole. La sconosciuta figura, di cui, nella breve vita, egli non aveva mai veduta l’uguale, avvinse il cuore infantile di Francesco, per sempre. Nicola, dal canto suo, come l’altra volta aveva desiderato brillare nella conversazione per la sola Alessandra, così adesso faceva pompa di sé in onore d’uno solo, del bambino. Chiacchierando, sogguardava ogni tanto quel piccolo volto, a spiarvi l’effetto dei propri discorsi; e si lusingava nella sua vanità quando leggeva su quel volto l’attenzione, la fede, o la fantastica meraviglia. O quando, a un suo comico aneddoto, scelto apposta da lui perché tale da piacere ai fanciulli, s’udiva squillare un candido, spontaneo riso, come voce d’un galletto silvestre. Non senza intenzione, Nicola favoleggiava di dame e di principi, di palazzi, feudi e cavalli, come di sue proprie signorie, dimore, schiavi. E allorché, avendo egli interrotto un racconto, il bambino, dimentico di se medesimo e della propria timidezza, nella curiosità che lo stringeva gli chiese avidamente il seguito, a Nicola brillarono le pupille, come per una vittoria.

Partito che fu Nicola (promettendo di presto ritornare), il piccolo Francesco non si stancava di domandare ai suoi chi fosse quello splendido, arcano personaggio. E Alessandra, cui non era stato mai concesso di parlare dell’amante senza timore, appagava adesso questa naturale sete. Scendendo col bambino il viottolo che portava ai campi, gli andava spiegando come quell’uomo fosse un gran signore, uno che amministrava terre e palazzi senza numero per conto di principi e baroni. Era un alto onore per loro, diceva, d’essere visitati da un signore simile; e chiedeva, sorridendo lusingata, al bambino: – Hai visto com’era ben vestito? – Sì! – esclamava il bambino, con entusiasmo, – aveva degli anelli d’oro, e anche un braccialetto, e sul petto una catena d’oro, con tanti ciondoli e medaglie. E com’è bello! – aggiungeva, – pare Garibaldi, pare Napoleone, imperatore dei Francesi! – Alessandra ignorava chi fosse Napoleone, ma, fatta rispettosa da questo nome risonante, taceva per un poco, finché il bambino con nuove domande la incitava a parlare. Ai suoi piccoli vicini, il giorno seguente, egli celebrava quella visita con aria di vanto; e poiché un giovanotto, figlio di colui che aveva, otto anni prima, ospitato per una notte Nicola, gli dichiarò alzando una spalla, di conoscere meglio di lui quel signore, che anzi aveva dormito in casa sua, Francesco lo guardò incredulo. – Non ci crede! – esclamò il giovanotto, rivolgendosi con aria sprezzante agli altri piccoli ascoltatori, – sì, mio padre gli dette la sua camera, me ne ricordo benissimo, e andò a dormire nel letto con mio fratello maggiore. E la mattina appresso, don Nicola si fece lucidare gli stivali da mia sorella con grasso di capra. Mia sorella poi lo aiutò a infilarsi gli stivali; e lui, prima di andarsene, mi regalò due lire, dicendomi di comprarci quel che volevo. Poi ritornò un’altra volta, per vedere i nostri cavalli, e disse che forse voleva comperarne uno. Anche ieri, passando davanti a casa nostra, si fermò a salutare mio padre. Domandalo a mio padre, se non ci credi –. E il giovanotto, con un sorriso di vittoriosa sufficienza, nuovamente guardò gli ascoltatori, quasi per chiamarli a testimoni di quanto affermava. Il piccolo Francesco non disse nulla: dubitava, in cuor suo, che don Nicola potesse dormire semplicemente in un letto, come gli altri mortali. La somma di due lire, poi, gli pareva favolosa. – Si chiama Nicola Monaco, – soggiunse il giovanotto, ostentando, non senza degnazione verso quegli ignoranti, l’esattezza delle proprie informazioni, – ci ha dato l’indirizzo, abita in un palazzo baronale, a P. – Lo sapevo anch’io, l’indirizzo! – esclamò Francesco. Ma il giovanotto, senza badargli, soggiunse che suo fratello era stato a P. una volta, per la visita di leva; e che lui stesso fra due anni, in età di fare il soldato, si sarebbe recato a P. Allora Francesco bramò ardentemente, in cuor suo, d’esser già grande, e soldato, per visitare la città che aveva il privilegio d’ospitare Nicola Monaco.

Costui gli apparve in sogno, quella medesima notte, com’egli raccontò a sua madre Alessandra. Gli pareva, disse, di passeggiare solo solo in una grande città, fra case alte di pietra. Ed ecco nel mezzo passare don Nicola, su un cavallo alto e bardato con frange d’oro, rose e garofani d’oro fra le orecchie. Don Nicola passando gettava monete, senza badare, e, dalle due parti della strada, i pezzenti e gli infelici raccoglievano quelle monete, baciandole prima di riporle. Ma per lui, Francesco, don Nicola si piegava un poco da cavallo, porgendogli uno speciale regalo che s’era tolto di sotto la giubba, dal lato del cuore. Era una cartolina bellissima, colorata; in cui, dentro un fregio di nastri intrecciati e di bandiere, si vedeva dipinto il ritratto suo, di don Nicola.

Nicola Monaco mantenne la promessa di ritornare; non certo con molta frequenza, poiché le sue visite, negli anni che seguirono, furono quattro o cinque in tutto.

Due volte, arrivò in groppa a un cavallo, che legò per la cavezza all’ingresso del villaggio, dove cominciava la salita: quivi Francesco si precipitò in corsa, ad esaminare con sommo interesse la bestia, i suoi zoccoli e finimenti, la sua nerissima, lucente criniera. Lui stesso volle recare la sacca dell’avena a questo animale glorioso; e sentendosi partecipe, agli occhi altrui, di una simile gloria, spiegò ai convenuti che quello era un cavallo di P., detto Morello, buono per combattere in battaglia. E che lui, Francesco, da grande, ne avrebbe cavalcato uno simile, per recarsi a fare lo studente e il militare.

Nicola Monaco arrivava or con l’uno or con l’altro pretesto; ma in realtà le sue visite eran tutte per il bambino. Ciò aveva capito la stessa Alessandra; la quale, in luogo di provarne gelosia, se ne inorgoglì. D’altra parte, avvenne che Nicola, trovandosi per caso, un giorno, solo con la bella donna, tentò riallacciare gli antichi rapporti; ma lei, così docile altra volta, fu adesso irremovibile. Un religioso timore le dette la forza di respingere quell’abbraccio; stavolta, sì, le sarebbe parso, cedendo, di macchiarsi di tradimento e di colpa. Non tanto verso Damiano, quanto piuttosto verso il piccolo Francesco.

Quelle visite rare, a intervalli di mesi, e di anni perfino, furono per Francesco memorabili. Nicola, entrando nella cucina, subito gli gettava un’occhiata. E considerava i suoi progressi con meraviglia e curiosità mescolate a una sorta d’invidia paterna. Sebbene non fosse mai stato un buon padre, pure gli veniva fatto di paragonare i propri figli legittimi a questo contadinello, e la vittoria di lui lo ingelosiva un poco. Non che quegli altri mancassero d’intelligenza, e neppure di grazia o di salute; ma, cresciuti quasi nella strada, in disordine e abbandono, eran tutti ignoranti, sudici e cenciosi come vagabondi. Ciò lo indispettiva, allorché li confrontava a Francesco; e, in cuor suo, ne faceva ricader la colpa su donna Pascuccia, sua moglie.

Questo piccolo bastardo, com’egli in cuor suo lo chiamava, questo di cui nessuno sapeva che fosse suo, nato in un villaggio di caprai, gli appariva tale da soddisfare la sua vanità, s’egli avesse potuto proclamarlo suo figlio. Ciò lo spingeva, talvolta, ad una specie di polemica: notando, con atto lievemente sprezzante, i difetti del bambino, e cioè la pelle così scura, le membra un poco tozze, le manine rosse e ruvide, i polsi grossolani, gli diceva, con accento ironico, in presenza d’Alessandra: – Eh, eh, bambino mio, queste cose qui, le hai prese dalla razza di tua madre! – Il bambino, interdetto, lo guardava coi grandi occhi aperti, quasi intuisse in simili accenti (di lode o d’accusa?), un’intenzione oscura. Da parte sua, la madre usciva in un riso vago, senza capire il dispetto maligno che si celava in quelle parole.

Altre volte, Nicola vantava la nativa delicatezza e piccolezze delle proprie mani, e si scopriva un poco l’avambraccio per mostrare come la sua pelle fosse bianca, là dove il sole non l’aveva bruciata. Quei poveri contadini ammiravano. E il piccolo Francesco, sebbene incapace nel suo giudizio inesperto, di apprezzare simili virtù, le stimava indiscutibili poiché appartenevano a Nicola; e brutto gli appariva tutto quanto differiva da costui. La sola ch’egli ancora non giudicasse, era sua madre, rimasta per lui, nella sua bellezza, intangibile e vittoriosa.

Francesco aveva assunto, nei riguardi del visitatore, maniere di devota confidenza. Talora, attratto dall’aspetto e dai discorsi di lui, quasi senza avvedersene gli si accostava; e, intento alle sue parole, seguendo con avidi occhi fin i moti delle sue labbra, gli stringeva con la manina il risvolto della giubba, o giocava coi suoi ciondoli. Anche, arrossendo un poco, gli chiedeva una canzone; e Nicola compiacente non tardava ad esaudirlo.

Egli s’era presto accorto che Francesco aveva comune con lui l’amore per il bel canto e per i teatri, la facilità d’imparare i motivi, la voce armoniosa. Soddisfatto, insegnò al bambino buona parte del suo repertorio, anzitutto Bella figlia dell’amore, La donna è mobile, e il tracotante Credo di Jago. Abbandonandosi al piacere del teatro, arrivò perfino a rappresentare da solo un intero melodramma, davanti al felice bambino. Incominciava col descrivergli la sala dello spettacolo, i palchi, l’orchestra; e poi le scene dipinte, le sfavillanti lampade, i costumi dei personaggi. Di costoro raccontava con enfasi le vicende, inframmezzando il racconto con le romanze preferite. Qui alfine si levava in piedi, e coi gesti dei veri cantati nei teatri si trasformava nel personaggio, fingendo azioni molteplici e adattando la voce alle parti dei bassi e dei tenori, e finanche a quelle dei contralti o dei soprani. Riusciva, o miracolo, quell’eccelso mimo, a moltiplicarsi, suscitando con la sua sola voce una moltitudine che annunciava: – Una vela! Un vessillo! È l’alato leon! –; o una ciurma ubriaca; o a sdoppiarsi nei duetti, raffigurando nel contempo Otello e Jago, a cui si aggiunse, sventolando il fazzolettino perfido come tela di ragno, il frivolo Cassio. Ma non basta: eccolo piegare la fulva testa sulla spalla, socchiudere gli occhi, muovere i polpastrelli sulla mandòla che non esiste, il bel Trovatore! al posto del quale, poco dopo, una lugubre, angosciosa pretaglia invoca: «Miserere – per l’anima che sale – verso il viaggio che non ha ritorno!»

E questo gobbetto, questo farnetico che ride urlando:

«Vendetta! Tremenda vendetta!», è sempre lui? Sì, è lui, l’infelice ribelle! A cui da lungi fa eco, gentile flauto, una che ricorda: «Tutte le feste al Tempio, mentre pregavo Iddio!…» Ahimè, vergine illusa! Ahimè, vittima dei granducali privilegi! Ma verranno, verranno gli Ottantanove e i Quarantotto, verranno a vendicare le figlie del popolo!

Così avvinto era il bambino da tali spettacoli che non di rado, senza avvedersene, per appassionato mimetismo, atteggiava il volto a somiglianza di quello di Nicola: corrugando i cigli allorché l’attore li corrugava, o socchiudendo, come lui, gli occhi e le labbra, al formarsi di una modulazione estatica. Non sempre i De Salvi erano i soli spettatori: spesso un pubblico di compaesani invadeva la cucina, e Francesco, se da una parte ne era lusingato, si corrucciava un poco, giacché avrebbe preferito di non dividere con altri il suo cantore. Questi soleva commentare o alternare gli spettacoli con osservazioni, discorsi e massime audaci, di un genere che noi già conosciamo. Sforzando il suo precoce intendimento a capire quelle parole, Francesco le rivestiva, nella mente affascinata, di solenne gravità: e tutto ciò che Nicola diceva, era per lui rivelazione e legge. Fu da Nicola ch’egli udì per la prima volta maledire le ingiustizie del mondo, e annunciare una riscossa. Da Nicola, grande agli occhi suoi perché splendido signore, ma ancor più attraente perché ironico sprezzatore di ciò che, per l’appunto, lo faceva grande. Ironia, rivolta e sprezzo lo elevavano più alto non solo di tutta la gente che Francesco aveva finora incontrata, ma anche di quella ignota, principesca società di cui Francesco lo credeva un membro.

Se Nicola disprezzava questa società, anche Francesco era convinto di disprezzarla. E tanto più, al confronto di Nicola, diventavano umili e meschini certi parenti di suoi compagni di scuola, commercianti o speziali o impiegati della piccola città dov’egli si recava a studiare: i quali, in un primo tempo, per la loro qualità di cittadini e di borghesi, avevano goduto agli occhi suoi di qualche prestigio. Ma colui che più di tutti usciva umiliato dal confronto, era il vecchio Damiano. Fin dai primi anni della sua vita, Francesco aveva accompagnato al cieco amore per sua madre una sorta di diffidenza e distacco nei riguardi del padre legittimo. Allo stesso modo che Alessandra gli appariva bella, così Damiano appariva brutto e sordido al suo severo giudizio infantile. La bocca sdentata, la barba ispida e grigia, quegli stracci di cui si copriva, e le fasce annerite e infangate che gli avvolgevano le gambe, e ch’egli non si mutava neppure i giorni di festa, erano un fastidio per il bambino, accurato e ambizioso per sua natura. Fin dall’infanzia, lo avevano colpito certi soprannomi con cui suo padre era noto nel vicinato: lo chiamavano Nerofumo, e da ultimo, per la sua persona piccola e contratta dal troppo curvarsi sulle zolle, lo chiamavano il Gobbetto. Lui stesso, Francesco, (prima d’ammalarsi e di diventare il Butterato), era Francesco del Gobbetto. E allorché, incominciando a frequentare il Ginnasio pubblico del centro vicino, aveva paragonato suo padre con gli altri genitori che aspettavano all’uscita i suoi compagni, un rossore amaro gli era salito alle guance. Se Damiano, sceso alla piccola città per le sue faccende, lo aspettava all’uscita, al vederlo il piccolo Francesco si mutava in viso, e subito cercava di staccarsi dai suoi compagni, fra cui gli pareva cogliere occhiate di scherno. Pieno d’onta, rapido e furtivo come un prigioniero condotto per le manette, attraversava al fianco di suo padre quella piccola folla maligna e all’uno e all’altro in fretta diceva: «Addio», bramoso di trovarsi infine sulla strada campestre che portava al villaggio, per sottrarsi a quei giudici, e sentirsi libero. Il suo cuore generoso lo spingeva allora a far dimenticare al vecchio, con le feste e le premure, la freddezza restia, l’oltraggioso silenzio con cui poco prima lo aveva accolto. Ma ciò non era neppure necessario: ché il vecchio Damiano, candido e benigno, e oltremodo fiero del suo studente, non s’era accorto di nulla; con gli ammiccanti occhi celesti, con sorrisi cortesi e timidi, aveva salutato i privilegiati compagni del suo prezioso bambino. Non era egli riuscito, coi suoi soli mezzi, a introdurre suo figlio fra loro, come un loro pari? Ciò lo rendeva glorioso e felice; né Francesco, per timidezza oltre che per il rispetto verso i genitori cui s’avvezzano i fanciulli nelle campagne, aveva svelato mai con doglianze, o rimproveri o consigli, il proprio fastidioso sentimento al vecchio. Neppure aveva osato di esortarlo ad una maggior cura della persona, e ad un maggiore rispetto di sé; ma sempre aveva celato il proprio pensiero dietro la severa sua fronte.

Però, fin da quando aveva incominciato a ragionare, e anche da prima, un’oscura ritrosia lo allontanava da Damiano. Schermendosi alle ruvide tenerezze di lui, correva subito, come ad un rifugio, verso sua madre. E se, da piccino, Damiano lo prendeva in collo, egli gridava, non di rado, e si ribellava, come faceva con gli estranei. Di ciò Damiano rideva, e lo rimproverava con beffe indulgenti; e talvolta per gioco fingeva di maltrattare la mamma, o di volerla uccidere, per provocare la passione del bambino.

Poi, diventato il bambino un fanciullo, Damiano aveva spesso innanzi a lui l’atteggiamento di chi si trova alla presenza di un sapiente, di un gran dottore. Quella promessa, quell’insperata gloria toccata alla sua casa, gli parevano già un tal premio, ch’egli non chiedeva di più.

Né, d’altra parte, gli accadeva di sospettare che il fanciullo potesse nutrire qualche sentimento ostile verso di lui. Mai gli balenarono per la mente pensieri di questa sorta, né egli dubitò mai che, pur nei suoi modi ritrosi e selvatici, Francesco non provasse per lui l’affetto che tutti i figli provano per un buon padre.

Durante le visite di Nicola Monaco, non sfuggivano all’attenzione di Francesco le maniere servili di Damiano verso il forestiero; né gli atti pieni di condiscendenza e familiarità superba di questi verso di lui. Nello stesso tempo, come una luce piena svela ogni macchia e ogni vizio nelle cose, in ugual modo la presenza raggiante di Nicola faceva risaltare la goffa miseria di Damiano.

Francesco si sorprendeva a fantasticare qual gloria sarebbe stata per lui, se Nicola fosse venuto a prenderlo all’uscita della scuola; e se i compagni l’avessero creduto un suo parente, suo zio, o suo padre! Ah, vicino a Nicola, com’egli si sarebbe sentito a tutti superiore, come forte e libero! Con quanta sicurezza avrebbe varcato ogni confine, e percorso la terra, tenendo la propria mano nella mano di lui. Quale dichiarazione di possanza, e di grazia, e di altèra casta, apparire a lato d’un simile compagno! Al pari di Davide, o d’un arcangelo, Nicola gli pareva destinato ad ottenere sempre vittoria, ad essere fra tutti il più bello, ad umiliare tutti. S’egli aveva dei bambini (e vi accennava infatti, talvolta, dicendone pure il nome: uno di loro aveva nome Vito, una Liliana), come eran fortunati quei bambini, e qual vanto per loro passeggiare con lui! E quei signori delle terre, di cui spesso parlava, come dovevano sentirsi fieri di frequentarlo, di vederlo ogni giorno, senza doverlo aspettare invano, e salutarlo ogni volta chi sa per quanto! di vederlo, come si vede uno qualsiasi! un amico!

Una volta accadde che, cedendo a un ingenuo trasporto, Francesco rivelasse a sua madre i propri sentimenti. Era una sera estiva, dopo la seconda o terza visita di Nicola Monaco, il quale da poco era ripartito. Sul finire di quelle giornate calde, spesso madre e figlio prima di coricarsi uscivano all’aperto, a godere qualche minuto di riposo e di frescura; per lo più, a loro si univano Damiano, o alcuni vicini, ma, quella sera, essi erano soli.

Si erano spinti sul declivio che conduceva ai campi, e qui Alessandra sedeva in silenzio su una pietra, reggendo ancora nella mano abbandonata la matassa che aveva avvolta, con l’aiuto del bimbo, fino a poco prima, quando s’era spento l’ultimo chiarore del giorno. Il piccolo Francesco (aveva allora circa otto anni), giaceva accanto a lei, supino, sull’erba bruciata dall’estate. Egli girava gli occhi per la volta celeste, e, possedendo da qualche giorno un atlante in cui, fra l’altro, eran ritratte in figura le costellazioni, ricercava quei disegni fantastici del Toro, dei Gemelli, della Bilancia, e l’aureo, non visibile filo che legava l’una e l’altra stella. Come un maestro gioielliere infila le sue pietruzze sparse, il piccolo immaginoso voleva ricomporre quella disordinata fuga di stelle, avendo l’ordine e la fantasia compagni nel gioco: finché il cielo gremito di figure come l’atlante, s’incurvava su di lui, che, supino, in ogni punto non vedeva altro che il cielo stesso. Talvolta, guardando, ritratto su di un libro, il panorama di una città, era piaciuto a Francesco di rappresentarsi quella minuscola immagine ingigantita, e se stesso a passeggio, fra le strane, sconosciute architetture; allo stesso modo si fingeva adesso non già sottostante e remoto, ma passeggero nel bel mezzo di quella popolazione aerea. Fra i navigli stellari e i pesci di luce, fra i carri ronzanti e le comete e belve dalla coda di stelle, godeva di avventurarsi in quel paese selvaggio; a lui più familiare e vicino che non l’Africa e l’Asia, di cui leggeva sui libri cose troppo insuete e stravaganti. Cosiffatto, e non altrimenti, egli si figurava a quel tempo il curvo universo, e compiacendosi di percorrerlo, meditava di accompagnarsi nel suo giro con qualcuno che gli fosse caro. Con sua madre, per prima. E poi, con chi?

Al pensiero di sua madre egli si volse a guardarla; e più bella che mai, simile a una fanciulla, gli apparve Alessandra in quell’ombra stellata. Allora gli salì alle labbra una domanda spontanea, che suonò innocente quanto audace: – Perché, mamma, – le chiese, – voi che siete così bella, avete scelto uno sposo brutto come il babbo, invece che uno bello come don Nicola?

Alessandra arrossì, perché la domanda la sorprendeva in un momento in cui lei pure aveva Nicola nel pensiero.

Non già rimpiangendo o desiderando (la passione d’amore le era ignota); ma con ammirazione e fierezza, allo stesso modo che, se un nostro fratello è valoroso, ci onoriamo d’esser suoi congiunti del sangue. Ella rise forte alle parole del bambino; e lo rimproverò per aver pensato una tal cosa. Ma da quella volta madre e figlio ebbero quasi coscienza della loro muta complicità nei confronti di Damiano: poiché Alessandra pure, suo malgrado, lo aveva talvolta, in cuor suo, messo a paragone con don Nicola. È vero che l’anima di lei, così umile e insieme così superba, a quel paragone, invece di mortificarsi, provava un fremito d’orgoglio. Infatti, ripensando alla propria sorte di fanciulla non bella, senza pretendenti, e povera come una mendìca, ella considerava sempre il proprio matrimonio col vecchio una fortuna, e Damiano un benefattore: a lui sarebbe, perciò, grata e sottomessa fino alla morte, senza dimenticare che gli era stata serva. Ancora adesso, che era sua moglie, ella non si sentiva tuttavia sua pari, avendo conservato per lui l’antico rispetto dovuto ai padroni. S’immagini dunque se doveva parerle pazza la presunzione di Francesco, che uno sposalizio fosse possibile fra un personaggio quale Nicola Monaco e una povera schiava; solo in una mente fanciullesca, accecata dall’amore per la madre, poteva germinare una tale presunzione. Ma pure, Alessandra sapeva, nell’intimo, che Nicola, nel peccato, era suo sposo; e questo segreto sposalizio era una sorta di sigillo reale sulla sua sorte. Per questo, ella fremeva in sé d’orgoglio paragonando il suo legittimo marito con Nicola.

  

L’ultima volta che Nicola Monaco fece visita ai De Salvi, Francesco aveva circa dodici anni di età. Nicola non s’era fatto vedere da più d’un anno: e in questo intervallo, Francesco era stato ammalato di vaiolo, e in pericolo mortale. Guarito, gli erano rimaste però sul volto le impronte della malattia, che guastavano i suoi tratti per sempre. Nicola non nascose la propria meraviglia allorché Francesco gli apparve innanzi coperto dalle cicatrici ancora recenti. Meraviglia, ma indifferenza del cuore, senza rammarico; giacché, in quell’intervallo, altre cure della sua vita difficile avevano cancellato in lui l’immagine diletta del bambino. Ormai quel legame puerile non significava più niente per lui; né questa sua visita era, come le altre, per Francesco. Stavolta, gli affari e gli interessi non erano un pretesto alla sua venuta, ma il vero fine: senza il quale egli avrebbe trascurato di salire ancora al piccolo villaggio.

Quando Francesco gli apparve, dunque, Nicola Monaco lo trasse per un braccio verso l’uscio di strada, allo scopo di meglio vederlo. E senza badare che quel visetto sfigurato si copriva di rossore, commentò crudelmente:

– Ehi, ragazzo mio, che cosa hai fatto? Hai la pelle ridotta come una grattugia –. Poi si voltò nell’interno verso Alessandra, chiedendo di Damiano; e come gli fu detto che Damiano era sceso all’uliveto, egli ordinò a Francesco di correre a chiamarlo. Confuso, e quasi grato per quel comando, Francesco s’apprestava ad ubbidire, quando un ragazzetto dei vicini che curioso s’era affacciato sulla soglia, lo prevenne esclamando sollecito: – Ci vado io!– e, levati nella corsa i piedi nudi, sparì. Nicola, allora, si sedette in attesa al solito posto, sulla panca; e mentre Francesco si ritraeva in un punto meno illuminato della cucina, cercando di nascondere il volto a quegli occhi inquisitori, Nicola non si curava più di guardarlo.

Seduto, le pupille chine, in aria preoccupata e impaziente, egli udiva distratto Alessandra, che coi suoi modi gravi e le sue cadenze malinconiche raccontava la malattia di Francesco. Quando poi la donna, come valido compenso allo sfregio di quel volto, gli dette l’annuncio che Francesco era scolaro delle scuole superiori, egli non mostrò d’interessarsi o congratularsi in alcun modo. Ma, poiché in quel momento appunto Damiano compariva sulla soglia, si levò dalla panca e senz’altro disse al vecchio che desiderava parlargli da solo a solo, di una faccenda riservata. Alessandra e Francesco si ritirarono allora dalla cucina, e ne chiusero l’uscio, per lasciar soli i due uomini, secondo la volontà di Nicola.

Era quella l’epoca in cui, come si ricorderà, Nicola s’accorgeva di aver perduto, a causa dei suoi pochi scrupoli e delle troppe imprudenze, la fiducia dei padroni; e di aver compromesso non solo il posto in casa Cerentano, ma anche ogni speranza per il futuro. Egli continuava tuttavia la sua solita vita dispendiosa; ma non osando, in quelle circostanze incerte, di attingere come prima dai fondi dell’amministrazione, aveva fatto molti debiti e si trovava in istrettezze. Perciò, nella sua continua ricerca di espedienti, conoscendo che il vecchio De Salvi possedeva dei risparmi, si era risolto a proporgli una combinazione: la quale egli intendeva di fare apparire a Damiano sotto la specie di un ottimo affare; ma si riduceva nei fatti ad una anticipazione di denaro con poche garanzie di guadagno. Per convincere il vecchio, egli fece sfoggio delle sue virtù di persuasione e di eloquenza, sapendo di aver già confuso con questi mezzi, in casi simili, l’avarizia e la diffidenza dei campagnoli. Ma noi sappiamo come Damiano fosse, nelle questioni d’interesse, accorto e insensibile ad ogni lusinga. Per conciliare il proprio rifiuto con la sottomissione e il rispetto, egli ricorse al solo stratagemma che potesse valergli contro qualsiasi argomento. E cioè, con accento servile e lamentoso, e senza guardare Nicola in volto, si disse dolente, rabbioso e disperato per non potere approfittare di un’occasione simile, di cui vedeva tutto il vantaggio; e grato alla cortesia di don Nicola, che aveva pensato a lui.

Ma purtroppo, egli non possedeva più neppure un centesimo di denaro contante, al punto da doversi mettere anche la festa gli stracci che don Nicola gli vedeva addosso: il cattivo raccolto dell’estate, e la malattia del figliolo, avevano esaurito i suoi ultimi risparmi. – Eh, via!

– disse Nicola ridendo e battendo sulla schiena al vecchio, – a chi vuoi farla credere? Lo sai ch’io non credo nemmeno alla Santissima Trinità! – Ma Damiano, raddoppiando i suoi lamenti, proteste e deplorazioni, si riparava dietro la propria affermazione di miseria come dietro un intrapassabile scudo. Dal canto suo, Nicola, celando l’irritazione che quel testardo ipocrita provocava in lui, non rinunciava all’idea di un qualunque successo, e si riduceva a diminuire via via la somma richiesta, raddoppiando per contro i vantaggi promessi. Ciò, s’intende, sempre con tono di condiscendenza, come chi volesse ad ogni costo, e magari a suo dispetto, beneficiare Damiano. Il quale, ad ogni nuova proposta, si mostrava sempre più desolato: – Anche un cieco, don Nicola, – esclamava, – anche un pazzo se avesse un solo centesimo, vedrebbe l’interesse e il vantaggio d’impiegarlo come dite voi. Ma quel centesimo, io non ce l’ho –. Infine, Nicola dovette rassegnarsi alla sconfitta; e poiché Damiano, fermo nella propria negazione, ma tuttavia mortificato sinceramente all’idea di fargli un torto, gli consigliava di proporre l’affare a questo o quel paesano danaroso, e suggeriva dei nomi, egli esclamò sdegnato: – Non ho bisogno dei tuoi consigli! Se in questo miserabile villaggio la gente non sa fare i propri interessi, cercherò i miei soci altrove –. Così detto, si levò, come per accomiatarsi; e, premuroso, Damiano chiamò la moglie e il fanciullo affinché salutassero l’ospite. Ma Nicola, irritato in cuor suo per essere salito inutilmente fino a questo barbaro, sudicio paese, non si curava di mascherare il proprio umore cupo. Assetato e stanco, risparmiò ai De Salvi l’affronto di rifiutare il vino che Damiano, secondo il solito, gli offriva. Ma, nel bere, se ne stette silenzioso e scontroso, pronunciando solo qualche frase che suonava disprezzo o ironia. Di Francesco che, seduto sulla pietra del focolare, non distaccava gli occhi da lui, pareva aver dimenticato l’esistenza. Come si avviò all’uscita, il fanciullo lo precedette di corsa; giacché aveva saputo dagli altri ragazzi, mentre don Nicola discorreva con Damiano, ch’egli era arrivato a cavallo; e intendeva slegare lui stesso la bestia prima che Nicola arrivasse, quindi aiutarlo a montare e vederlo infine allontanarsi per i campi, al galoppo sulla sua cavalcatura.

Così aveva fatto in altre simili occasioni; e ogni volta, alla presenza degli altri ragazzetti accorsi a vedere, Nicola dall’alto della sella si era curvato a salutarlo, con una bella risata. E tirandogli un poco i capelli o addirittura stringendogli la mano, gli aveva detto: «A rivederci, morettino», o «maschiettino», o «ricciutino», o simili frasi gentili. Una volta, lo aveva invitato perfino a fare una corsa per la campagna insieme con lui, sul suo cavallo. E mentre Francesco, grave e raggiante in viso, e senza timore alcuno, se ne stava raccolto addosso a lui, fra le sue braccia che reggevano la briglia; mentre così galoppavano, Nicola gli aveva detto scherzando: – Adesso, su questo cavallo, ce ne andiamo fino a Roma.

Ma oggi, alla fine di questa visita così diversa da tutte le altre, Nicola si accostò alla sua bestia, in fretta, e ricevette le briglie dalle mani di Francesco senza badare se fosse questi o un altro che gliele porgeva. E poiché, al solito, numerosi ragazzetti del paese si affollavano attorno alla bestia come se questa fosse un essere fantastico, e non un cavallo comune; al vederli, Nicola bestemmiò irritato contro quella piccola calca. E respingendo con colpi brutali i più vicini, esclamò: – Levatevi, marmaglia! Non avete mai visto un cavallo? – Poi, balzato in sella, senza far caso di Francesco che, in attesa, levava gli occhi verso di lui, dette di sprone e partì.

Alessandra e Francesco non seppero, né intuirono mai, la vera causa di quel malumore di Nicola, e il vero scopo dell’ultima sua visita. Infatti, come abbiam già detto altre volte, era costume del vecchio di trattare e risolvere per proprio conto ogni questione d’affari, senza farne parola ad alcuno, e neppure alla propria famiglia.

D’altro canto, non era la prima volta che Nicola s’appartava col vecchio, per trattare con lui qualche faccenda; anzi, abbiamo veduto com’egli, per prudenza, inventasse ad ogni sua visita qualche pretesto d’affari. Una volta aveva pure concluso l’acquisto di due damigiane di vino, da lui pagate, e mandate a ritirare per mezzo d’un garzone a dorso di mulo. Fuori di questa volta, in tutti gli altri casi, le sue trattative private con Damiano non pareva fossero giunte ad alcuna conclusione pratica; ma non per questo il contegno di Nicola verso i De Salvi era mutato né egli aveva perduto il suo buon umore. Alessandra, intuendo il vero motivo di quelle visite, non interrogava mai su simile argomento Damiano; né costui, d’altronde, era disposto a rompere il proprio tirannico riserbo intorno agli argomenti di denaro. La moglie e il figlio non conoscevano neppure a quanto ammontassero i suoi risparmi; che egli, per gelosa diffidenza, non aveva mai deposto in banca, conservandoli invece presso di sé in qualche suo nascondiglio. Economo e quasi avaro in tutto il resto, Damiano però non badava a spese per gli studi e l’avvenire del figlio: egli era persuaso, in cuor suo, che questo fosse il migliore impiego delle proprie economie.

Tornando a Nicola Monaco: soltanto Damiano, dunque, avrebbe potuto rendersi conto, in parte almeno, dei motivi per cui l’umore dell’ospite s’era tanto mutato; ma il vecchio non credette necessario parlarne. In seguito, poiché Nicola, col passare dei mesi e degli anni, non si fece più vivo, forse Damiano ripensando talvolta al forestiero, si accusò d’aver provocato quella rottura col proprio rifiuto; e forse appunto perché si sentiva in colpa evitò anche allora di raccontare alla moglie e al figlio quell’ultimo colloquio con lui. Talvolta, accadde che egli dicesse soprappensiero, scuotendo il capo: – Don Nicola non s’è più visto –; ma poiché, a tali parole, la moglie e il figlio restavano in silenzio, egli non aggiungeva altro. Del resto, sebbene lusingato dalle visite di Nicola Monaco, egli non aveva mai dato a questo personaggio un gran posto nella propria mente; e pur rammaricandosi d’aver perduto quell’invidiata conversazione, si lodava sempre tuttavia per aver saputo resistere alle lusinghe, evitando una sicura perdita di denaro. L’idea che Nicola fosse un signore furbo, il quale aveva tentato d’imbrogliarlo, approfittando del proprio prestigio, si affacciò subito, è chiaro, alla mente disincantata del vecchio. Ma un tal sospetto, egli lo tenne per sé. E l’affascinante forestiero scomparve nel mondo sconosciuto donde era apparso: mondo che, al pari della lontana America (tanta vantata, al loro ritorno in patria, dai compaesani emigrati), non destava in Damiano desiderio né curiosità alcuna. Suo figlio avrebbe conquistato quel mondo: ecco il grande riscatto del vecchio De Salvi non solo sul mondo medesimo, ma sulla propria senile noncuranza per esso.

Quanto ad Alessandra, ella notò, s’intende, il bizzarro e sgarbato comportarsi di Nicola; ma non tentò di spiegarsene le ragioni, riponendole in quell’arcano che circondava agli occhi suoi la figura del personaggio. Il timore ch’egli rimanesse scontento o deluso a ritrovare il bambino così mutato era già nato in lei prima ancora che Nicola mostrasse il suo malanimo, anzi prima ancora della sua visita. Perciò, raccontandogli la malattia del bambino, e subito dopo i suoi brillanti studi, ella aveva l’aria di dire al padre: «Mi duole, certo, che il figlio non sia più bello come prima; tu, però, non mortificarmi, e non accusarmi di non avertelo custodito degnamente.

Francesco, è vero, è un poco mutato all’aspetto; ma con ogni sforzo e cura, e rischiando la morte, io ho salvato la sua vita. Francesco è vivo per merito mio, che l’ho difeso con volontà e con rabbia; e se pure il nostro bambino è meno bello, adesso, si avvia però a diventare un signore, un sapiente, degno del padre».

Simile a questo era il senso nascosto nelle parole di Alessandra; ma Nicola, indifferente e distratto com’era, non lo avverti: egli aveva, lo si è visto, altri pensieri nel cervello. D’altra parte, alla madre il viso di Francesco non appariva gravemente mutato: ben più orribile e stravolto le era apparso nel punto acuto del male, eppure, anche allora, in quella maschera ella riconosceva il suo caro, bel viso. Adesso che gli occhi di lui s’erano riaperti in tutta la loro luce, e i tratti ricomposti nella loro forma, la vittoria e l’amore ingannavano la madre, mostrandole il diletto volto poco mutato, e quasi intatto.

Come accade solitamente in simili inganni, Alessandra ignorava che ad altri esso apparisse diverso; e le deprecazioni, pietose o maligne, di alcune vicine, le parevano effetto d’invidia, ché esse avrebbero voluto morto di quel male il suo bel figlio, così diverso dai figli loro.

In conclusione, Alessandra, senza troppo indagare su quella visita breve e sgarbata, giudicò il contegno di Nicola quale un capriccio misterioso da signori, un vapore incomprensibile e passeggero: né dubitò ch’egli sarebbe tornato, fra un mese o un anno, con modi più affabili.

Difatti, avendo il proprio amore materno quale paragone e specchio, ella s’ingannava nel misurare l’invaghimento di Nicola per il figlio; né pensava ch’egli potesse dimenticare e tradire.

Ma a Francesco, quei modi insoliti di Nicola Monaco parvero la manifesta dichiarazione d’una condanna: egli giudicò, senza alcun dubbio, che il forestiero, al vederlo così difforme, avesse provato orrore; che, non riconoscendo più in lui l’amico d’una volta, gli avesse tolto per sempre il proprio ricordo fedele, la propria confidenza; e avesse deciso di ripartire presto per non ritornare mai più. Un tal pensiero occupò la mente sbigottita di Francesco durante tutto il tempo che Nicola (non più festoso, ahimè, non più loquace e fervido), sedeva sulla panca della cucina. Ma il peso di quest’angoscia ancora incerta si trasmutò d’un tratto in un dolore irresistibile e acuto, allorché Nicola, bevuto in fretta il vino e uscito dalla casa, si fu allontanato sul suo cavallo nel modo che s’è visto, senza un addio per lui. Francesco seguì fino all’ultimo con lo sguardo la figura del cavaliere che s’allontanava, in attesa forse che costui si voltasse, o facesse un cenno bastevole, anche se piccolo, a dare un pretesto alla speranza nei giorni futuri. Ma come il cavaliere si dileguò senza saluto o cenno alcuno, una voce immaginaria, tanto spietata da parere beffarda, gridò a Francesco:

– È finita! – Francesco si volse allora di nuovo, in un rapido sguardo, al piccolo gruppo dei compagni, i quali gli apparvero come nella febbre, fantocci ostili, falsi e contratti nei volti; e tosto, quasi di corsa si staccò da loro, cercando un luogo solitario, dove sfogare il pianto che già gli oscurava la vista.

Le colline molteplici che circondano il paese di Francesco, al di là della grande pianura, sono rocciose in alcuni punti, soprattutto verso le cime. Là, dove nessuna coltivazione è possibile, cresce solo la ginestra e altre piante selvatiche e tenaci; e la roccia, incavandosi, forma grotte, per lo più anguste, ma talvolta ampie e prolungate nel sottosuolo. Queste caverne hanno ciascuna il loro nome: una si chiama del Brigante, una del Garibaldino, una dello Scomunicato, derivando tali nomi dai personaggi, tutti perseguitati, o evasi, o fuori legge, che secondo la tradizione vi trovarono nascondiglio o asilo. A causa del loro nome, e delle avventure ch’esso ricorda, quelle nere, echeggianti camere non sembrano mai disabitate ad una mente fantastica. Non senza paura, specie se vi si arrischia da solo, il fanciullo deve misurarsi, là dentro, con quegli ospiti antichi, tragici e affascinanti. E neppure è impossibile un incontro con qualche vero ospite, che abbia cercato riparo fra quelle rocce: per esempio, un mercante o suonatore girovago, che nei giorni torridi si riposi nella loro frescura; o semplicemente una capra allontanatasi dalle compagne, e che il pastore chiama a gran voce per nome, non potendo udirne più il campanello né il belato.

In una di tali grotte, appunto, Francesco andò a gridare il proprio dolore; e i suoi singhiozzi, i suoi gridi venivano riecheggiati dalle pareti di selvaggia pietra. Come se un compagno fosse là, a piangere con lui; ma un compagno incapace di consolazione, buono solo a ripetere, con voci spettrali e solitarie, il suo medesimo pianto: quasi per confermare che il suo dolore non aveva rimedio. Gli pareva, questo compagno, un uomo grande, come lui sfigurato e solingo: un se stesso, insomma, cresciuto e fatto adulto, e recante per sempre sul volto i segni che lo distinguevano dai più felici.

Era il tempo delle vacanze, e gran parte dei suoi pomeriggi, Francesco li trascorreva solo su per le colline fiammeggianti nell’estate non ancora spenta; rifugiandosi, allorché lo vinceva la stanchezza e il sonno, dentro le grotte, o nelle corti delle case in rovina. ciò era cominciato il giorno in cui, dopo la guarigione, per la prima volta egli aveva rivisto il proprio volto nel frammento di specchio, opaco e scrostato, che Damiano usava per radersi. Ma dopo la crudele partenza di Nicola Monaco, il suo desiderio di solitudine si accentuò. Perfino sua madre egli fuggiva: lei che spesso, negli impeti dell’affetto, aveva prima lodato la sua bellezza, e gli pareva adesso un giudice severo. Talvolta, però, bramoso di tenerezza, correva a ricercarla, giacché essa lo amava tuttavia; ma gli altri eran tutti suoi nemici.

Egli trovava un po’ di pace nei luoghi aridi e bui, nella compagnia degli animali i cui teneri occhi non sanno distinguere il bello dal deforme; e allorché si accostava, per dissetarsi, al secchio del pozzo, serrava le palpebre per non vedere il proprio viso che si rifletteva nell’acqua.

Le fughe, l’appartarsi di Francesco, meravigliavano Alessandra, avvezza, nelle precedenti estati, ad esser seguìta in ogni suo passo da lui. Talvolta, se l’assenza del figlio si prolungava oltre l’usato, ella si faceva sulla soglia, o sul margine dei campi, e con voce cadenzata ed alta chiamava: – Francesco! Francesco!– Allora le vicine s’affacciavano per informarla d’aver visto il fanciullo salire per di qua, o di là, o avviarsi da quell’altra parte. Ed ella si inoltrava sui prati, ripetendo ad intervalli il proprio richiamo che nelle prolungate cadenze suonava quasi supplice e drammatico. Spesso ogni ricerca era inutile, e delusa Alessandra ritornava indietro. Ma accadeva pure che, a quei gridi, una vocina remota, e simile all’altra nelle cadenze, rispondesse: – Mamma! Vengo! – ed ecco Francesco apparire in corsa, da qualche punto della campagna. Ai corrucci materni, egli si chiudeva in sé, scontroso e assorto; oppure d’un tratto cingeva sua madre, col gesto che gli era stato solito nella prima infanzia. E la guardava con occhi luminosi e adoranti, ma dubbiosi; quasi che, pur trovando ristoro in quell’abbraccio, celasse tuttavia dei pensieri che non voleva dire.

Un giorno, poiché sua madre gli rimproverava più del solito la sua selvatichezza, Francesco ruppe in pianto; e disse fra le lagrime ch’egli voleva rimaner solo, e non voleva ritrovarsi con gli altri fanciulli, i quali non lo amavano e lo chiamavano butterato. A queste parole, gli occhi di Alessandra fiammeggiarono: – chi, – ella domandò al figlio, con voce tesa e minacciosa, – chi, ti chiama con questa parola? dillo, cuore di mamma, chi? – Raddoppiando i singhiozzi, pieno di sdegno, egli pronunciò alcuni nomi; e Alessandra, levando la testa, con gli occhi fissi e scintillanti, le labbra serrate, affrettò il passo verso la vendetta, che il suo cuore sollecitava.

Uno dei ragazzetti nominati da Francesco sedeva fra gli altri ai suoi giochi, su uno spiazzo poco lontano dalle «case rotte», allorché la donna sopravvenne con occhi di furia, e con voce acuta gli domandò se fosse lui che aveva chiamato Francesco per soprannome. Titubante e smarrito, l’accusato arrischiava una difesa: – Gli ho detto così perché… –, ma Alessandra incominciò a percuoterlo con violenza selvaggia sulla nera testolina dai ricci impolverati e crespi. E mentre lo sciame dei compagni fuggiva, con veloce scalpiccìo di piedi nudi, ella teneva stretto l’accusato sotto i duri colpi; ammonendo nel tempo stesso non solo lui, ma anche i fuggitivi: – Se tu, o qualcun altro ripetete ancora quel nome, io vi morderò la testa, e sputerò il vostro sangue, frutti avvelenati! Va’, va’ pure a dirlo a tua madre! – soggiunse con accento di sfida, poiché la vittima, libera alfine, correva in gran pianto verso le scoscese viuzze.

Pochi minuti dopo, si vide che Alessandra aveva indovinato l’intenzione del suo piccolo avversario. Difatti, mentr’ella preparava la cena, si fece sulla soglia una matrona pugnace, dalla grande capigliatura crespa, dal volto grasso e invecchiato, bruno come quello d’un’araba, in cui gli occhi accesi e fermi parevano carboni di miniera. Era, non occorre dirlo, la madre del ragazzo percosso, venuta a chieder conto dell’oltraggio. Le madri del paese, infatti, spesso violente o addirittura feroci coi propri piccoli, si risentivano come per una grave offesa se questi ricevevano anche un semplice schiaffo da mano estranea. La De Salvi aspettava quella visita; e levò appena le pupille dal fuoco presso il quale stava inginocchiata e curva, a guardare di sbieco la visitatrice. La quale, i pugni sul busto, scuotendo il battagliero suo capo e fissando l’altra quasi volesse gettarle un sortilegio, gridò con voce stridula e teatrale che nessuno doveva provarsi a malmenare le sue viscere; lei sola, che gli aveva dato il latte, poteva correggere suo figlio.

Così detto, protese il busto e tacque, aspettando la replica dell’altra; ma Alessandra se ne stava severamente muta, come una giustiziera, concentrando l’intima violenza nelle pupille che parevano attente alla fiamma. Colei si avanzò allora nella cucina, e battendosi, minacciosa, la palma col pugno, domandò se Alessandra avesse niente da dirle. Al che Alessandra balzò in piedi, e, lampeggiando come la vendetta stessa, replicò ch’ella difendeva il proprio sangue; e chiunque si provasse ad offenderlo, doveva passare sotto le sue mani. – Offenderlo!– esclamò l’altra; e s’indirizzò a Francesco, il quale, dritto in piedi, corrugava bellicoso la fronte, pronto ad accorrere in difesa di sua madre: – Dillo tu, se non hai l’anima di un bugiardo, – proferì con astio rivolta al fanciullo, – dillo tu chi offende tutti quanti. Ah, non rispondi, eh? ti sei ammutolito? dillo chi è il più prepotente, manesco e superbo, brutta fronte dura che pare covi i pensieri del demonio. Tu che guardi tutti dall’alto e cammini via, come fossi figlio d’un duca!

Accigliato e pallido, Francesco non rispondeva nulla; ma sua madre era stata ferita da quelle invettive come da un’arma pungente, che irritava gli spiriti invece di domarli. Ella arrovesciò indietro il volto radioso, con tale impeto che il fazzoletto le cadde giù dal capo. – Lo è, – gridò in una folle sfida, – lo è, figlio d’un duca!

L’altra ebbe una risata beffarda: – Sì, duca! – esclamò con sarcasmo, – duca dell’America!– Dell’America, dell’America, sì!– ripeté la De Salvi, indomita e provocante: – E i tuoi figli, – soggiunse accostandosi all’avversaria, – come pure altri che so io, qua intorno, non lo possono vedere, il figlio mio, perché è più di loro! Perché va agli studi, e si fa strada, e sarà un dottore, quando loro saranno sempre degli zappaterra!

– I miei figli, – ribatté a tal punto l’altra alludendo malignamente all’aspetto deturpato di Francesco, – i miei figli non sono dottori, è vero, ma hanno le carni che sembrano dipinte!

– Fuori di casa mia!– le ingiunse allora la De Salvi, a cui nessuna parola al mondo poteva suonare più oltraggiosa di quelle che aveva ora udito: – Esci, esci! – ripeté, avanzando coi pugni chiusi sull’avversaria. Questa indietreggiò un poco, ma solo, forse, per prender meglio lo slancio. E certo le due donne si sarebbero gettate una sull’altra, se non fossero state trattenute dai loro mariti, sopraggiunti in quel momento. La visitatrice, affannosa e riluttante, fu sospinta fuori dal suo sposo; mentre Damiano si sedeva sulla panca, e incominciava a sciogliersi le corde dei calzari, senza commentare l’accaduto. Infatti, gli uomini evitavano, finché era possibile, d’intervenire nelle questioni delle loro mogli; e il vecchio De Salvi si era tenuto in disparte ogni volta, assai di rado invero, che Alessandra era venuta a parole con qualche vicina: rifuggendo, per sua natura, dalle risse e dai tumulti.

Alessandra, dal canto suo, si curvò sul fuoco, e ricominciò i preparativi della cena, senza accennar con parole al litigio; sebbene i suoi sopraccigli corrugati e l’occhio fosco mostrassero che il suo sdegno era ancor vivo.

Quasi temesse d’esser lui pure oggetto di tale sdegno, Francesco le si accostò, e posando la sua bruna manina sull’avambraccio nudo di lei, la chiamò a bassa voce. La madre allora lo guardò con passione, e appressàtasi d’impeto alla madia, ne trasse una focaccia dolce, in forma di palomba con le ali aperte, che aveva infornato alla mattina insieme col pane, e la porse al figlio.

Quel litigio non ebbe seguito; difatti, pur mantenendo nel loro segreto un fondo di rancore, le donne del villaggio solevano per lo più, incontrandosi dopo un litigio, salutarsi e conversare come se non fosse stato nulla.

Aggiungerò che i ragazzetti si guardarono meglio, nei giorni seguenti, dal chiamare Francesco «butterato». E se qualcuno vi s’indusse, Francesco preferì farsi giustizia da solo, senza partecipare ad Alessandra le proprie amarezze. Ma Alessandra, messa all’erta, spiava adesso, nei ragazzi compaesani ed anche negli adulti, la freddezza e l’ostilità verso il suo Francesco, ch’ella credeva degno solo di lode. Quella freddezza e ostilità eran cose vere, e non sempre nascoste. Offesa, e persuasa che simili ingiusti sentimenti derivassero solo dall’invidia, ella diventò aspra coi figli degli altri. Più di prima, in quei giorni, alle lunghe assenze del figlio vagabondo per la campagna si adombrava. Se al tramonto Francesco non era ancora tornato, usciva a cercarlo, tendendo la vista sui campi come su un mare burrascoso. Ma se qualche compaesano, fanciullo o adulto, la informava sul dove il ragazzo era stato visto: – È salito da quella parte, è passato per di là, – subito ella credeva di udire, in questi cortesi ragguagli, una intenzione di rimprovero, o un giudizio malevolo per suo figlio. – Francesco, – replicava talvolta a coloro, in tono di rivendicazione e di sfida, – Francesco ha ragione di passeggiare e di respirare l’aria buona, finché può. Giacché quest’inverno, quando i figli vostri staranno all’aperto, lui starà nel chiuso della scuola, a studiare per farsi istruito.

Era trascorsa meno d’una settimana dal litigio con la vicina, quando Alessandra, uscita un giorno sull’ora del tramonto a cercare il figlio, e inutilmente avendolo chiamato a gran voce, lo scorse d’un tratto, ripiegato su se stesso, con la testa sulle braccia, fra le rocce di quei terreni incolti ov’egli amava aggirarsi. Lo richiamò allora, in tono di rimprovero; ma non ricevendo risposta, sebbene egli fosse a pochi passi da lei, gli si avvicinò turbata e lo scosse per le spalle. Francesco levò il capo, ed ella esclamò: – Pazzo che sei, ti chiamo, e tu non rispondi? – ma vedendo che il fanciullo aveva gli occhi rossi di pianto, soggiunse in tono meno aspro: – Che accade? Non vuoi cenare stasera? – Senza parlare, e come trattenendo a fatica le lagrime appena ringoiate, testardo egli fece segno di no. – Vieni dunque, andiamo a casa, – lo esortò sua madre. Al che il fanciullo, col mento che gli tremava, in una voce sottile, rispose di non voler tornare a casa, di voler trascorrere là, in quel luogo stesso, tutta la notte.– Ah, Gesù Cristo!– esclamò lamentosamente Alessandra, sedendosi su una roccia lì presso, e liberando dalla pezzuola la testa accaldata, – chi me lo avrà stregato questo figlio, che era il più buon figlio del mondo, e adesso è diventato un demonio!

Il fatto è che, poco prima, attraversando lo spiazzo di terra battuta sul margine dei campi, il fanciullo aveva sorpreso un gruppo di suoi coetanei nell’atto di additarsi lui, Francesco, fra loro, pronunciando a voce bassa l’odiato soprannome. All’udirli, era stato vinto da un dolore di specie nuova, mescolato di disgusto; tale da soffocare in lui la ribellione e l’ira stessa. Egli non aveva provato alcuna volontà di gettarsi su quei maligni, come altre volte faceva. Ma, distogliendo il viso da loro, s’era allontanato verso il suo rifugio fra le grotte, là dove appunto era stato raggiunto da sua madre. Non voleva, adesso, cedere alla viltà di confidarle questa nuova provocazione dei ragazzi; onde, rispondendo alle sconsolate parole di lei, con voce rabbiosa e tremante esclamò che sì, infatti voleva morire e diventare un demonio, per fare del male a tutti.

– A tutti! Anche alla madre tua!– disse Alessandra.

Stizzosamente, lottando con l’amaro dolore, Francesco le rispose che lei pure, lei pure non lo amava più, e presto non avrebbe voluto più vederlo, al pari di tutti gli altri, al pari di don Nicola, che ritrovandolo così rovinato se n’era andato via senza salutarlo e non sarebbe tornato mai più.

– Che dici! Questa è bestemmia! – si ribellò sua madre, piena di stupore e di corruccio, – don Nicola!– E (forse per sopraffare i sospetti già balenati nella sua stessa mente, e suscitati adesso dalle parole del figlio), proseguì con impeto dicendo di meravigliarsi, di meravigliarsi molto che un ragazzo studioso, il quale aveva già incominciato le scuole superiori, pensasse certe bestemmie da folli e da ignoranti. Un signore, un uomo istruito come don Nicola, avrebbe dovuto far caso a quei pochi segni, effetto della malattia? Forse che Francesco era il primo che si fosse ammalato di vaiolo? Ed era sua, la colpa, se si era ammalato? Chissà quante infermità, quanto male aveva veduto don Nicola, che girava sempre il mondo; si pensi dunque se poteva badare a tal cosa da nulla! Forse che la persona di Francesco non era sempre la stessa di prima? E forse don Nicola era da confondersi con questi ignoranti del paese, che parlavano per invidia, perché Francesco era da più di loro? Ah, Francesco sapeva tante cose, ma certe altre non poteva ancora capirle.

– Vedrai, – gridò allora Francesco, senza più frenare il disperato suo pianto, – vedrai se indovino che don Nicola non tornerà mai più! Ma io, – soggiunse fra i singulti, non ricordando di aver affermato, poco prima, che voleva morire, – io da grande voglio diventare un signore, molto più di lui, e passerò… passerò… davanti agli occhi suoi, per farlo pentire. Vedrai!

Un sorriso stregato curvò appena le labbra di Alessandra, un lampo bizzarro le passò negli occhi. E con voce bassa, lusinghiera, piena di arcana confidenza, d’un tratto ella disse all’innocente fanciullo: – Tu non sei meno signore di lui.

– Accòstati, vieni qui vicino, – proseguì nello stesso tono, come se fosse d’un tratto fatta schiava d’un incantesimo, e volesse attirare l’ignaro ragazzetto dentro il suo cerchio. Francesco ubbidì con ritrosia, ma già voglioso, in realtà, delle materne carezze. Un simile, familiare conforto egli attendeva, e non ciò che sua madre stava per dirgli. Ma Alessandra era ormai posseduta da uno spirito; e accarezzando, quasi distratta, le cicatrici di quel povero volto, su cui scorrevano grosse lagrime, riprese insinuante: – Tu non sei d’una razza di villani come tutti costoro.

Così dicendo, perduta, ella incominciò a ridere piano, combattendosi in lei la subdola, infernale compiacenza, e un virgineo pudore. E il cuore presago di Francesco ebbe un brivido. Egli ricorderà sempre quel declivio sassoso, quei secchi, gialli cespugli nel grande crepuscolo; e sua madre, seduta più in alto di lui sopra un sasso, con la testa china e alcune ciocche più corte mosse dai soffi sciroccali. Un cane abbaiò, richiami e belati si udivano nel piano, cinguettii già attutiti dalla notte, come voci di un’infanzia che se ne fuggiva. Nella rupestre folla dei massi e delle pietre, stavano celati i neri ingressi delle grotte. E lei, piena di confusione e di gloria, simile a una zingara predicante la ventura, lei gli confidava in segreto che suo padre non era Damiano, ma Nicola Monaco!

  

Chi volesse indagare sul perché Alessandra s’indusse ad una confessione tanto grave, tanto insolita e conturbante per l’orecchio d’un fanciullo, chi volesse far ciò, scorgerebbe forse più motivi, intrecciati e non ben chiari nell’anima di lei. Non soltanto la volontà di offrire al figlio una consolazione, un argomento di vittoria contro la malevolenza dei paesani; ma anche il piacere femmineo di confidare a qualcuno la propria grande avventura. Questo piacere, per lunghi anni la donna severamente l’aveva rifiutato a se stessa: nessuno, in paese, era degno di conoscere il segreto che la congiungeva a Nicola. Ma infine, ella aveva scelto un confidente; e chi altri poteva essere se non il figlio di Nicola e suo, l’amato, bellissimo bambino dai riccioli neri, il butterato? Questo segreto comune, rafforzava adesso l’oscura complicità che fin da principio aveva legato il figlio a lei; ma c’era un punto sul quale il suo intendimento, piuttosto fanciullesco che di donna, non poteva farle lume: e cioè, che oltre alla consolazione e alla gloria, la sua confidenza recava in sé il veleno. La gloria ch’essa svelava era disonorante, perché nata da un peccato; e per quanto l’orgoglio provocatore istigasse a gridarla agli altri, si doveva tacerla invece, come una vergogna. Ciò il fanciullo intuì, non soltanto nelle parole di sua madre, ma nel suo proprio giudizio ancora malcerto. Disordine e turbamento lo invasero: da quella sera l’ingiusta freddezza e il divario che lo avevan già separato dal suo padre legittimo divennero disagio e repulsione. Una tal pena fu attutita poi dall’abitudine e dagli anni; ma, non meno di quel tramonto campestre che vide, misteriosi, uno di fronte all’altra, sua madre e lui, mai si cancellerà dalla mente di Francesco quella prima serata nella cucina. Egli rivedrà, finché viva, come in uno specchio, i propri occhi di fanciullo che fuggono Damiano, trasformatosi in un ambiguo, inquietante straniero; e fissano, sgranati, la propria coscienza fatta adulta, l’intrusa che vuole sopraffare lui, stupito bambino. Mentre nel cuore l’infantile natura combatte contro simile tormento strano e perverso.

Alessandra non sapeva, poi, che il comune segreto, se da una parte legava più fortemente suo figlio a lei, da un’altra glielo estraniava. Con la sua confidenza, Alessandra si era scoperta, agli occhi del figlio, adultera e peccatrice. Ma a quel tempo Francesco era troppo inesperto per giudicare la colpa di sua madre; e seppure gli balenò il senso d’una tal colpa, esso appariva così vago, enigmatico, che subito lo ricoprirono il mistero e il perdono. Come avrebbe potuto, il fanciullo, condannare sua madre per aver amato Nicola Monaco ed esserne stata amata? Francesco non dubitava che fra i due vi fosse stato un grande amore; e, nella sua fantasia, lo splendore di Nicola Monaco vinceva l’oscura colpa. Ma anche più tardi, allorché, giovinetto, egli poteva giudicare sua madre colpevole, il giudizio era vinto dalla pietà, da un affetto consapevole e triste, e infine, dal magico fasto di cui sempre, nel suo pensiero, egli vestiva l’immagine di Nicola: tanto che, malgrado il tradimento di lui, sempre il giovinetto parteggiava in cuor suo per Nicola, contro Damiano.

Questa indulgenza, questa reciproca, delittuosa compiacenza erano, sì, veleno; ma in esse era pure una forza dolorosa e orgogliosa, inevitabile, che avvinceva di più Francesco a sua madre. Diverso potere ebbe, invece, un altro veleno: voglio dire, cioè, la consapevolezza che Alessandra apparteneva pure a quella rozza società dalla quale escludeva suo figlio dicendogli, trionfante: – Tu non sei come costoro –.Con tali parole, ella si proclamava non più uguale e signora del figlio, ma inferiore e serva; come anni prima, allorquando al piccino ancora in fasce diceva umilmente: – Principino mio!

Ecco venire un tempo nel quale colei che già pareva a Francesco la più bella delle donne, la prima di tutte, la più lucente; cosiffatta da glorificare, col portarla, anche un’umile veste; ecco un tempo, dico, nel quale Alessandra doveva diventare per suo figlio un oggetto inconfessabile di vergogna, com’era già Damiano.

Il primo autunno dopo la malattia, nella vita di Francesco avvenne un grande mutamento. Fin dall’anno precedente, Francesco aveva iniziato con successo, presso l’istituto pubblico del capoluogo (che distava dal suo villaggio più di due ore di cammino), il primo corso di ginnasio, dovuto interrompere dopo qualche mese a causa della malattia sopravvenuta. Spesso, durante quel primo breve periodo dei suoi studi superiori, i professori avevano deplorato il faticoso viaggio a piedi in cui l’allievo era costretto due volte al giorno: un viaggio che lo stancava, con danno della salute, e rubava molto tempo allo studio. Essi avevan consigliato Damiano di mettere il ragazzo a pensione presso qualche famiglia del capoluogo stesso, accontentandosi di averlo a casa la domenica. Ma un tal progetto era troppo costoso; e di più, troppo dura appariva ai De Salvi una tale separazione.

Ora, invece, allorquando, al tornar dell’autunno, Francesco s’accingeva a riprendere gli studi interrotti, Alessandra dichiarò al marito che per l’avvenire del fanciullo occorreva fare questo nuovo sacrificio e seguire il consiglio dei professori. Che cosa le aveva fatto cambiare opinione? Non soltanto, certo, il timore per la salute di Francesco, ch’ella aveva veduto in pericolo mortale: giacché ella sapeva bene che il figlio, in realtà, era robusto e sopportava la fatica. E neppure un’accresciuta sollecitudine per gli studi di lui. Ciò che soprattutto la indusse alla separazione crudele, fu il desiderio di sottrarre Francesco alla fredda ostilità dei vicini e la speranza di guarirlo, col fargli cambiar vita, dalla sua nuova, inquieta tristezza. Inoltre, la materna ambizione di Alessandra era oltremodo lusingata al pensiero di questo nuovo privilegio che distingueva il suo Francesco dai figli dei vicini, colpendo come un fiero schiaffo la loro invidia. Col proprio fervore, adducendo gli argomenti dello studio e del viaggio troppo lungo, oltre che la recente malattia di Francesco, ella persuase Damiano al non piccolo aggravio. Per un poco, si pensò pure di mettere Francesco in collegio; ma i collegi laici eran troppo costosi, e di preti non si poteva parlare in casa di Damiano. Per cui si ritornò al primitivo progetto: e Alessandra, calzate le famose scarpette delle nozze, insieme a Damiano accompagnò il figlio al capoluogo, recando sul capo un canestro di provviste che dovevano bastargli fino al prossimo sabato. Senza timidezze contadinesche, ma con dignità di signora, ella affidò il fanciullo alla padrona di casa, una cartolaia, e lo sistemò nella sua nuova cameretta; ottenendo pure, dopo lunghe discussioni, un lieve sconto sul prezzo d’affitto. Il più commosso, nel separarsi dal figlio, appariva Damiano: – Beh, – disse a Francesco, ridacchiando con occhi offuscati, – eccoti cittadino, – e lo carezzò in viso. Francesco sorrise, pallido pallido. Altèra e forte, anche Alessandra sorrideva. Ma come essi furono partiti, Francesco si sentì turbato al punto che gli mancò la voce per rispondere alle domande della padrona. Questa se ne andò alfine per le sue faccende; e Francesco, rimasto solo, si acquattò in un angolo di quella cameretta, poco più larga d’un canile, e ruppe in singulti, mordendosi le mani e chiamando: – Oh, mamma mia!– Con sussulti così violenti da far tremare i vetri dell’unica finestrella, che dava su un ballatoio.

Non di rado, in seguito, lungo le amare settimane, il povero studentino di dodici anni piangeva per il desiderio della presenza materna. Ma pure, ecco che, col tempo, crescendo in lui l’esperienza, l’ambizione e l’amaro giudizio, egli incominciò a paventare le visite di lei. Avveniva, di rado, invero, ch’ella ubbidendo ad una affettuosa fantasia venisse a trovarlo, come già Damiano, durante la settimana, all’uscita della scuola. E, come già gli avveniva per Damiano, ogni giorno, all’uscita, Francesco temeva al pari d’uno spettro l’apparizione di colei che gli era cara più di tutti al mondo: sicura e contenta, col suo canestro sul capo, coi suoi vestiti da contadina, araldo dell’amore e della vergogna.

Simile tormento finì pochi anni dopo, allorché, non esistendo un liceo nel capoluogo della provincia, Francesco si trasferì nella città delle sue brame, (capitale dell’intera regione), dove lo abbiamo conosciuto la prima volta: la città stessa di Nicola Monaco. Essa era lontana dal paese, e richiedeva, per arrivarvi, la spesa d’un lungo viaggio in treno. Per cui, stavolta, né Alessandra né Damiano accompagnarono Francesco alla sua nuova residenza. I ritorni settimanali di Francesco presso i suoi cessarono. E i due sposi, malgrado il loro desiderio, non poterono mai concedersi il lusso di fargli visita in città: salvo una volta, la sola Alessandra, come raccontammo altrove.

L’adolescenza di Francesco fu, al pari della sua fanciullezza, assai solitaria. Fra i ragazzi di città, come già fra i piccoli campagnoli, di rado egli trovava degli amici.

Essendo il primo della classe, riceveva talvolta adulazioni e lodi: ispirava rispetto, e nessuno, qui, lo chiamava butterato. Ma qualcosa in lui, non so se un male o un bene allontanava la confidenza dei compagni, dei professori stessi che lo celebravano, e perfino delle padrone di casa espansive e ciarliere. Forse eran le sue troppo fiere pretese, per cui non soltanto all’amore egli aspirava, ma al potere addirittura? O forse la sua presunzione d’essere una stella non ancora scoperta, ma destinata ad abbagliare, un bel giorno, tutti gli astronomi del globo?

Ahimè, in realtà, questa gran presunzione stava nel suo cuore come una spavalda, pervicace intrusa. Il vero padrone del suo cuore (padrone ombroso, triste e sempre all’erta) era il sospetto d’essere, lui, Francesco, una cosa che si odia e si tiene a vile. Non lo aveva infatti il suo stesso padre, Nicola, disdegnato al punto da non curarsi di rivederlo mai più? Similmente, un suo grazioso compagno, la cui tenerezza gli sarebbe stata cara, dopo avergli chiesto, dolce e umile, al mattino, d’aiutarlo nei còmpiti, all’ora della ricreazione si allontanava correndo al braccio d’un altro compagno: il quale era ben vestito, ricco e spensierato, era allegro, e bello nel viso, non butterato come lui.

Nella città, Francesco, che al suo villaggio era stimato dei più agiati, s’accorgeva d’essere dei più poveri. Ed eccolo al punto di scegliere: o servire quelli che lo umiliavano con la loro fortuna, o rivoltarsi ad essi, difendendo contro di loro i suoi simili. Abbiamo già visto, fin dal nostro primo incontro con lui, quale fu la sua scelta: scoprendo in un libro una scienza e una fede che placavano molti suoi contrasti, egli s’innamorava di questa affascinante verità, distruttrice di falsi reami; ma nel medesimo tempo, si vestiva lui stesso di menzogna, e architettava reami falsi. E insieme alla sua fede rivoluzionaria, nasceva la sua finta baronìa.

Tuttavia, non meno del contadinello Francesco, anche il barone Francesco era un personaggio alquanto scontroso e solo. Nicola Monaco non era tornato al villaggio mai più; e chi ha seguìto dal principio la nostra storia, potrà capire le cause di questo oblio. Sicuro d’esser da lui disprezzato, il piccolo Francesco, pur vivendo nella sua stessa città, si ritenne dal cercarlo, e perfino dal nominarlo ad altri (lui che un tempo ne faceva così gran vanto). Non per questo cessava dal pensare a lui; ma un tal pensiero gli stringeva il cuore, con sensi di amaro pudore e di sconfitta, come avviene ad uno sposo tradito.

Spesso, soprattutto i primi tempi, gli pareva di riconoscere la figura di Nicola in qualche passante: il sangue gli saliva alla faccia, e subito assumeva un’aria noncurante e spavalda, levando il capo verso colui, pur senza guardarlo, come a dire: «Ecco il mio viso butterato! non m’importa delle mie cicatrici, non ne tengo conto». Ma colui non lo riconosceva e passava via; ed egli ben presto capiva d’essersi sbagliato. In realtà, a quel tempo Nicola, scacciato dai padroni, s’era trasferito altrove, per tentare di svolgere in campi nuovi la propria disinvolta attività.

Ma Francesco, al quale tutto ciò era ignoto, un giorno si spinse fin nei pressi di palazzo Cerentano. Più volte, in presenza di lui bambino, Nicola aveva nominato, come proprio domicilio, questa magione pomposa, tacendo il suo domicilio vero, le tre povere stanzette dove lo aspettava sua moglie Pascuccia. Francesco rimirò da lontano il palazzetto stemmato con un batticuore folle. Nel tumulto della fantasticheria, dell’adorazione e della rivolta, penso: «Lui è là dentro! E se s’affacciasse? se mi vedesse?» Un tal pensiero lo empì di paura; e s’allontanò di corsa. Proprio, forse, in quegli stessi giorni, la piccola Anna, dando la mano a sua madre Cesira, oltrepassava per la prima volta quella soglia vietata.

Mai dunque, per tutti quegli anni, Francesco ricercò Nicola. Solo più tardi, un giorno (lo stesso in cui Francesco fa la sua comparsa in questo libro), un giorno, come sappiamo, egli si decise. Il fine, però, non era d’amore, stavolta, bensì d’interesse. E questo suo fine interessato, Francesco l’ostentava a se medesimo quale una bandiera di riscossa. Parendogli, col presentarsi a quell’uomo per esigere un diritto, anzi un credito, di rinnegare con questa meschina esigenza i propri sentimenti passati, vendicando così la propria devozione, la ferita sempre sanguinante. Era una sfida ch‘egli recava a Nicola: voleva un duello. Ma, come certi disperati romantici, lo sfidante in questo duello cercava non la caduta dell’avversario, bensì la sua propria: la caduta, cioè, di quel se stesso ch’egli era stato fino ad oggi, e del proprio innocente, rifiutato amore. Senonché, l’avversario, ahimè, non poteva più dargli soddisfazione: e Francesco s’avvide d’avere sfidato, a somiglianza del Generoso Hidalgo, uno che da gran tempo era fatto polvere.

Adesso tornando per un poco (avanti di lasciarla per sempre) alla fanciullezza di Francesco, vogliamo vedere ancora una cosa: per il piccolo studente, mentre se ne stava solo nella camera cittadina, o giaceva nel letto estraneo, che eran diventati l’infanzia, e il villaggio nativo? quale aspetto prendevano nel ricordo? Vi dirò che, a differenza di quanto accade a molti, nel pensiero di lui le immagini e i luoghi infantili erano percorsi da uno spirito di fastidiosa angoscia. Un tal senso irragionevole, ingiusto, era tuttavia così forte che, sempre più, col ritorno delle estati, il termine dell’anno scolastico trovava Francesco recalcitrante, e perfino impaurito al pensiero delle prossime vacanze al paese. E con varie scuse egli prolungava il proprio soggiorno in città più che poteva, sì che da ultimo aveva ridotto le proprie vacanze in famiglia ad una visita frettolosa di pochi giorni. Egli odiava dunque la sua casa? Non amava più sua madre? ciò non si può affermare: allorquando, infatti, tornato l’autunno, e riaprendosi i corsi, egli doveva ripartire dal villaggio, ecco che, d’improvviso, si sentiva stringere il cuore dalla pena. Durante la breve vacanza, il suo desiderio sollecitava impaziente l’ora del ritorno in città; ma pure, col giungere di quest’ora, a un tratto la collina della noia e della tristezza si accendeva in una tardiva rivelazione. In guisa d’ami aguzzi, il terribile affetto, i rimorsi, le consolazioni mancate traevano lo studente verso quel monticello sassoso al quale era tornato con ripugnanza e di cui, per vergogna, usando diversi sotterfugi, mascherava ai suoi compagni di liceo perfino il nome vero. All’ultimo, invece, oh, gioco amaro e sorprendente!, egli non poteva staccarsene senza lacerarsi.

Trascorsi, peraltro, pochi giorni dal distacco, la povera e remota collina ridiventava, per lui, nella memoria, un luogo oscuro, insidioso, nel quale, come un piccolo morto di cui si scaccia l’apparizione, seguitava a muoversi fra gli inganni un Francesco infante, e poi bambino, e poi fanciulletto in pena. Al pari di questo minuscolo abitante, anche il suo villaggio pareva allo studente di adesso non più una cosa presente e viva sotto il cielo, ma un punto del passato: così amaro, tuttavia, ch’egli avrebbe voluto seppellirlo sotto monti di terra. E invece, a tratti si riaccendeva in lui, questa Fenice, e lo tentava con l’amore.

Avveniva, una mattina d’inverno, che Francesco si svegliasse prima del tempo nel suo letto cittadino. Il mondo era ancor nero nella notte, e, unico rumore, dal campanile batteva il segnale dell’orologio. Con rintocchi simili a questi, la campana della chiesa annunciava la fine della notte, nel villaggio dei De Salvi; e Francesco, adesso, nel dormiveglia, credeva appunto di giacere nel grande letto matrimoniale dove nell’infanzia dormiva insieme a sua madre. Un momento dopo, riscuotendosi, avvertiva l’inganno; ma il disegnarsi del vero gli portava una desolazione così pungente, e tale un rimpianto, ch‘egli serrava le palpebre, volendo costringere l’inganno a non dileguarsi. E nella sua puerile, semincosciente commedia, stendeva un poco il braccio, fingendosi di toccare il corpo respirante di sua madre, in luogo di quest’aria fredda e vacua fuori dello stretto lettuccio.

Allora ritornava a lui quella che, fra tutte le immagini della fanciullezza passata, era la più insistente e dominava nella sua memoria al punto ch’egli mai, neppur negli anni futuri, non poté pensare a se stesso bambino senza rivederla. In essa si ritrovavano di quel trascorso tempo della sua vita gli enigmi e le speranze vicino a uno sgomento quasi mortale.

Era l’immagine dei mattini invernali di quel primo anno in cui Francesco, ancor sano e bello nel viso, ancora nella casa dei genitori, partiva avanti l’alba per recarsi al ginnasio in città. Sollecita, la voce di sua madre l’ha riscosso dal sonno chiamandolo per nome: – Francesco! Francé!– E questo richiamo mattutino di una voce che, in quei giorni, era la più cara per lui; questo richiamo che, di soprassalto, rompe e mette in fuga i bei sonni, dopo molti anni gli riecheggerà negli orecchi come un segnale spietato e triste, da gelare il cuore. Per il piccolo studente del villaggio, la severa cantilenante voce non è soltanto la violatrice dei sonni; essa, proprio lei, condanna il fanciullo al prossimo distacco. Fra pochi minuti, Francesco dovrà allontanarsi appunto da lei, da sua madre, e andare fra gli estranei, là dove gli abbisogna l’indifferenza, ardua cosa, e il coraggio. Ma se il freddo e la ripugnanza lo fanno indugiare fra le coltri, di nuovo, sull’uscio, quel verdetto pungente e solenne lo incalza: – Francesco! Francé! – Gli fa eco, talvolta, dalla cucina, indulgente e strascicata però, la voce del vecchio Damiano.

Nella cucina, i genitori si sono già levati, il fuoco di legna è acceso per terra; e mentre sua madre cuoce la polenta, o altro cibo caldo, e suo padre s’infila presso la fiamma i calzari da fatica, Francesco, alla luce del fuoco, rilegge un’ultima volta la sua lezione. Dopo aver mangiato, nel piatto comune, coi suoi, eccolo solo nelle straducole dove ancora quasi tutti, uomini e animali giacciono, ma per poco, nel sonno. Le basse case di pietra si distinguono male fra le tenebre; solo da qualche uscio semiaperto rosseggia di già un lume o un fuoco, e qualche movimento s’ode da una cucina o da una stalla. Ad intervalli, rompe la muta notte una voce mattiniera, o il grido d’un gallo, o un raglio pieno d’ambascia. Al piccolo viaggiatore solitario, i suoi propri passi risuonanti sui ciottoli sembrano d’uno straniero che lo insegue: egli s’affretta senza voltarsi per non vedere costui. Ma in certi giorni, un gran vento batte le tenebre, e fuggendo sopra le case diroccate dal terremoto, e subito ritornando indietro, per i vicoli, nei camini, all’urto dei crocicchi, urla, geme, e ride. Oppure è l’acquazzone che vuole sbarrare la strada, e Francesco, attraverso le pozzanghere e il fango, deve lottare con lui fin quasi a perdere il respiro. Non è già questa rissa, né il suo frastuono privo di senso, che gli fa paura: in realtà, egli teme che simile frastuono diventi a un tratto una voce comprensibile per lui. Teme ciò che non vede: ha il sospetto che questa furiosa natura abbia un viso, e non vuole guardarlo.

Ogni mattina, uscendo di casa, egli corre col pensiero, per consolarsi, all’ora pomeridiana del ritorno. Ma ciò non basta a fugare la folla degli spiriti notturni; ed egli invidia i suoi coetanei, pastori e contadini, che dormono a quest’ora nei loro letti promiscui, e che, levandosi all’alba, se piove resteranno in cerchio presso il fuoco; e se sarà bello, scenderanno ai lavori in gaia compagnia. S’egli fosse come loro, non dovrebbe staccarsi per tante ore del giorno da sua madre Alessandra, ma potrebbe seguirla ad ogni momento, come quando non era ancora scolaro.

Francesco pensa che vorrebbe ritornare come allora: e gli pare d’esser diviso in due se stessi. Il primo, riluttante ma frettoloso tuttavia, compie uno dopo l’altro i passi che sempre più lo allontanano da sua madre; e l’altro compie lo stesso numero di passi, ma in senso inverso, e consolato risale verso di lei. Bella, quieta, là sulla povera montagna, Alessandra risplende come l’ora del mezzogiorno in quest’alba d’inverno. Ella è la libertà, la confidenza, il riposo. Certezza e stupore, che sembrano eterni, la ricingono della loro signoria. Fra i mille enigmi dell’infanzia, lei sola è spiegata fin dal principio. Lei fin dal principio è posseduta, senza conquista.

Stretto dalla nostalgia, lo scolaro salta giù per le note scorciatoie; e intanto, nonostante le sue mattutine angosce, va ripetendo fra sé la lezione imparata la sera innanzi. I primi chiarori lo trovano già sulla strada carrozzabile; e il sole levante lo guarisce, e lo esalta, come uno stendardo colorato, o una fanfara, a un ignorante soldatuccio restio.

Questa, dunque, l’immagine di se stesso fanciullo che più spesso visitava Francesco, allorché la sua fanciullezza fu finita, e più tardi; e soprattutto in quelle albe invernali della sua adolescenza, allorché, ridestatosi anzitempo, egli attendeva che suonasse l’ora di levarsi e di andare a lezione. In queste ore ancor notturne, accadeva pure che l’affetto di lui per sua madre, obliato e tradito durante il giorno, facesse le sue vendette. Francesco era assediato da paurose immaginazioni: se, mentr’egli era assente, a sua madre fosse avvenuta una disgrazia? s’ella fosse morta? Si dice che talvolta, nell’istante medesimo che una persona scompare, una larva di lei si mostra ai suoi cari lontani e inconsapevoli come per un addio.

Questa leggenda perseguitava Francesco: il quale, giacendo nel buio della sua camera, paventava l’apparizione balenante e spettrale dell’amato viso, venuta a dargli l’annuncio di morte. Allora, egli perdeva il suo ribelle orgoglio, la grandiosa pretesa che l’uomo è sulla terra padrone e Dio (di tali pretese il giovinetto si faceva scudo, finché la luce del giorno lo separava dalla paura).

Eccolo, dunque, sgomento, al pensiero della effimera sorte sua propria e delle cose più dilette, in balìa tutte di una volontà straniera e priva di senso per i mortali. I discorsi uditi nella prima infanzia, da Damiano e ancor più da Nicola Monaco, e le sue proprie riflessioni, gli avevano dipinto questa volontà quale una nemica. Inutile pregarla, inutile tentar di comunicare; unico mezzo per vincere, era di opporre ad essa la propria volontà umana. Ma in quest’ora di debolezza, Francesco puerilmente patteggiava con lei. Purché essa risparmiasse Alessandra, egli le offriva in cambio tutte le proprie armi, che nel giorno lo facevano così presuntuoso: l’ingegno, la conoscenza, la salute, e perfino la vista, perfino le braccia e la forza delle membra. Ironica e perfida, essa gli proponeva nuove rinunce, ed egli, non senza contese con se stesso, finiva col chiuder gli occhi, ed accettare il patto di resa. Non perciò guariva dall’ansia e dai rimorsi: e aspettava che l’alba lo liberasse, avendo deciso fermamente di partire alla prima luce e di accorrere al villaggio, presso sua madre. Ma alla prima luce, tutti i timori e i propositi della notte erano svaniti: Francesco era di nuovo agguerrito, e padrone di se stesso. D’altra parte, col passar degli anni, anche simili apparizioni notturne si facevano sempre più rare.

Così passava l’adolescenza di Francesco. Ma salutiamola adesso, e ritorniamo al principio di questa quarta parte della nostra storia: là dove lasciammo Francesco in cammino verso il villaggio, chiamatovi per assistere Damiano malato, e forse moribondo.