Capitolo secondo
Nostro ingresso al palazzo del Cugino

La notte che seguì alla scena sopra narrata, eravamo sole in casa, mia madre ed io, giacché mio padre, partito la notte prima, non sarebbe tornato fino all’alba. A una cert’ora (doveva esser circa l’una di notte), mi avvenne per caso di risvegliarmi; e mi accorsi che mia madre non era più nella camera e che l’uscio sul corridoio era aperto. Le vicende di quei due ultimi giorni m’avevan reso nervosa, ed ero stata proprio allora visitata da sogni inquietanti. Perciò, le diaboliche immaginazioni della vigilia mi assalirono di nuovo; e, sebbene fossi quasi paralizzata dallo spavento, scesi dal letto, e camminai, guardinga, alla ricerca di mia madre. Uscita nel corridoio, ripresi un po’ di coraggio scorgendo la luce accesa nello stanzino di mia nonna; e spiando per l’uscio semiaccostato, vidi con sollievo che la mia paura era stata vana. Mia madre, in camicia, le trecce mezzo disfatte, scriveva, seduta al medesimo tavolino dov’io solevo fare i còmpiti nei nostri pomeriggi solitari. La debole lampada da scrittoio bastava per illuminare in basso, con una luce verdastra, l’intera piccola stanza. La persona discinta di mia madre, con la sua grassezza maestosa e un po’ guasta, simile a quella delle orientali, gravava singolarmente sulla sediolina già di nonna Cesira, e adesso mia, ch’era la sola nella camera. Ella avverti forse il leggerissimo scalpiccìo dei miei piedi nudi, poiché si volse di scatto, mostrando le pupille minacciose, quasi abbaglianti; ma, intimorita, io trattenni il fiato, e mi ritirai contro la parete del corridoio. Ond’ella si rassicurò, e riprese a scrivere.

Avevo paura di ritornare sola a letto, e mi fermai là, contro il muro, presso l’uscio socchiuso. Mia madre scriveva con lentezza e diligenza, e la sua mano, come di scolara ai primi esercizi, pesava sul foglio, tanto che udivo lo scricchiolìo della penna. Ma si sarebbe detto che l’anima della scrivente, piena di dovizia e d’impeto, corresse avanti alle frasi scritte, ed ella dovesse frenarla, con sua gran pena. Difatti, ogni poco s’interrompeva, e traeva un sospiro schiantato, o un lamento di mansuetudine e angoscia. Mentre scriveva, poi, le salivan dalla gola suoni rauchi, palpitanti, ch’io dapprima credetti dei singhiozzi; ma erano invece delle risa soffocate, come se le cose che scriveva le svegliassero un timido compiacimento.

Guardando furtivamente per lo spiraglio, vedevo la sua schiena piegata, su cui scendeva, come alle fanciulle, una delle sue grosse e lunghe trecce. Infine ella si levò, e, accaldata, si scostò l’altra treccia dal collo, e se la gettò indietro sulla schiena. Il suo volto acceso, misterioso e aspettante pareva quello d’una ragazza, e i suoi labbri sanguigni, separandosi appena appena, alla guisa d’un boccio frugato da un insetto, sembravan farsi più gonfi.

Le sue mani tremavano orribilmente.

Ella andò alla finestra, e l’aperse, alzandone lo stuoino. Era una notte di scirocco, si vedevano agitarsi le foglie nere del palmizio: appoggiatasi al davanzale, mia madre ebbe un gemito futile e interrogativo, quale di gatta, o di altra creatura selvatica, che avverte per la prima volta il morso dell’amore, e si avventura nelle tenebre. Il vento era cresciuto: un umido soffio investì mia madre, facendo svolazzare le corte ciocchettine sulle sue tempie, e la sua camicia sgualcita: un secondo soffio penetrò nella stanza, e i fogli scritti volaron via dal tavolino, e si sparpagliarono sul pavimento. Mia madre si voltò, in atteggiamento di difesa, con gli occhi sgranati e rifulgenti di paura; indi ravviatasi i capelli con la mano, si chinò a raccogliere quei fogli. Ma come li ebbe raccolti, rimase accovacciata in terra, e incominciò a baciarli con l’amarezza carnale di una che, divisa dall’amato, ne vada baciando le care vesti. Poi si lasciò cadere i fogli in grembo, e seguitò a baciarsi le sue proprie mani, lisciandosi i polsi con la gota: – È Anna, è Anna tua, – bisbigliò più volte, in disordine, presa da un capriccio febbrile; e fra simili carezze, una dolorante civetteria le trasmutò il viso. Un grande, severo sospiro le salì dal petto, e, pensosa, con le mani abbandonate nel grembo, gli occhi radiosi e alti, ella esclamò: – Ah, mio angelo! Angelo mio!

Nel vento incostante, si udiron le prime gocce di pioggia battere sullo zinco delle grondaie. Ma da principio il vento non cadde, anzi acquistò maggior impeto, trascinando la pioggia, e alzandola a volo, in folate quasi di nebbia, il cui sentore umido e fresco giunse fino a me.

In quel punto, una raffica sbatté le impannate della finestra, e chiuse con un colpo l’uscio dello stanzino, onde io mi trovai nelle tenebre, interrotte solo, in fondo al corridoio, là dove s’apriva la nostra camera, dal baleno rossastro del lumino da notte che vacillava all’aria delle fessure. Un terrore nuovo e molteplice m’invase; m’impauriva l’uscio chiuso dello stanzino, donde poteva, da un momento all’altro, apparire mia madre, e sorprendermi alzata ad origliare in quell’ora della notte; e ancor peggio m’impauriva quel rosso lume della mia camera.

Di più, ero sbigottita dalla cattiva coscienza, e dal fascino del temporale che s’avanzava. Per qualche secondo, rimasi ferma dov’ero, come fossi stata presa in una tagliola; ma all’improvviso, inebriata dallo spavento, senza più pensare a ciò che facevo mi detti a picchiare contro l’uscio dello stanzino, chiamando fra i singhiozzi mia madre. E girata la maniglia, entrai.

Avanzandosi dalla finestra che aveva allora allora richiuso, mia madre mi domandò, tutta pallida, che cosa accadesse: e intanto cercava istintivamente col piede nudo una delle sue ciabattelle, che giacevano rovesciate sotto il tavolino. Balbettai che nulla accadeva, soltanto io m’ero spaventata a trovarmi sola nel letto, e nel mezzo di un temporale. – Ah! – disse mia madre, – anatroccola paurosa! – e non mi volse altro rimprovero, ma anzi, mentre s’infilava le ciabattelle, mi disse: – Andiamo, ora, Elisa, andiamocene in camera nostra, – con quell’aria di confidenza palpitante, giocosa eppure edificante nel tempo stesso, che si ritrova talvolta nelle giovani monache, quando chiacchierano fra loro.

Poi spense il lume, e, stringendo i fogli che aveva scritto, mi ricondusse in camera, dove si coricò accanto a me, coi suoi fogli sotto il cuscino. Intanto, s’era scatenato il temporale: mancava il tuono, o meglio lo si udiva rumoreggiare in una grande lontananza, come un barbaro tutto armato che suonando il tamburo camminasse di là dal mare, nei regni africani donde vengono le estati e gli scirocchi. Ma sopra i tetti vicini, e intorno alla nostra casa, si udiva il frastuono battagliero delle grondaie, e i lunghi scrosci dentro le tubature, e poi, nella mischia del vento e dell’acqua, la ghiaia più minuta rimbalzare festante, e i fili di ferro della biancheria lamentarsi, e i fumaioli di lamiera stridere come civette. Tutto ciò non mi faceva più spavento, al contrario, mi invitava al sogno.

Mi pareva, in sogno, d’essere nel cortile, sotto la pioggia, e di udire in alto, in cima al palmizio, una sottile musica di flauto; agile quanto una giovane Mora, mi arrampicavo lungo il tronco del palmizio; e giunta sveltamente alla cima, scoprivo che il creduto flauto era invece un gatto. Il quale, trovandosi isolato lassù nel mezzo della bufera, miagolava aiuto. Era un gattino di rara bellezza, con occhi color d’oro, maliziosi eppure pieni di malinconia. Estatica, lo accarezzai con le mie dita negre (mi accorgevo per l’appunto, adesso, ch’ero non più Elisa, ma una fanciulla africana), e pensai nel tempo stesso, colma di rimpianto, che certo il gattino, per via della mia pelle così scura, mi disprezzerebbe e non vorrebbe esser mio. Ma il gattino si strisciò contro le mie guance, miagolando così dolcemente da parere, piuttosto che un micio, un usignolo. Or che accade? L’ultima sua nota si fa alta, sterminata: sembra l’acuta voce di una cantante divina, di una cantante-tigre... Che avviene mai? perché tremo di paura? Ma in realtà, quel che udivo era la sirena delle sette, che chiamava gli operai della vetreria.

  

Quel giorno, ci recammo per la prima volta a palazzo Cerentano. Il servitore che ci aperse il portoncino, evidentemente già istruito riguardo alla nostra visita, ci pregò di attendere nel vestibolo, e premette il bottone di un campanello. A tale chiamata, apparve la medesima cameriera in grigio del giorno prima. Essa ci mosse incontro frettolosa, e, bisbigliando qualche parola a mia madre, le consegnò una lettera (certo la finta lettera del nostro cugino Edoardo preparata da donna Augusta); poi ci guidò per la scalinata principale che, costruita a lato dell’entrata, si snoda, con un vago moto ricurvo, su per l’alto vestibolo verso gli appartamenti superiori.

Il vestibolo in penombra, scintillante di specchi e di marmi screziati, si termina a destra con questa bellissima scala. La quale, come il pavimento del vestibolo, è tagliata in un marmo di color bianco-violaceo, e chiusa su un lato da una balaustra leggiadra dello stesso marmo. La prima, e più ampia, delle sue lente volute, forma col suo fianco, nel vestibolo, una parete incavata, sormontata dalla balaustra, e recante nel suo leggero semicerchio tre nicchie poco profonde, ciascuna più alta seguendo l’inalzarsi della scala. In ciascuna di queste nicchie si ammira un ben lavorato busto marmoreo; ma dei tre busti, il più amabile senza dubbio è il terzo, raffigurante una dama antica dalla solenne acconciatura e dallo scollo altissimo e rigido, la quale nei suoi tratti minuti sembra una bambola di marmo, e ha qualche somiglianza, come più tardi notai, col nostro defunto cugino Edoardo. Essa, invero, è una bisava di Ruggero Cerentano «il Normanno».

Un tappeto di stinto color purpureo ricopre da cima a fondo la scalinata, che riceve luce, all’altezza di ciascun piano, da finestrelle affacciate su uno stretto vicolo e velate da tende: perciò la scalinata non conosce il sole, ma un chiarore quasi immutabile, tranquillo e cinereo.

La parete che, opposta alla balaustra, cinge la scala, è tutta rivestita di un arazzo, che ne accompagna, dall’inizio fino al fastigio, i giri lenti e armoniosi, interrotto soltanto dalle finestre e porte adorne di stucchi e di fregi.

Di color bruno appassito e verde-cilestro, esso raffigura una selva popolata d’aquile e di pavoni, d’ippogrifi, di scoiattoli e di volpi: e nessuno di questi animali, fuori dell’aquila, in atteggiamento di riposo, ma tutti intenti ai loro giochi e salti, e tutti fra loro diversi, benché simili nel colore. Io non conobbi mai, però, l’intero svolgersi della scena, giacché ogni volta che ci recammo dai Cerentano, mia madre ed io, ci arrestammo all’appartamento di Concetta; né io mai, per quanta brama ne avessi, osai di spingermi, magari di corsa e per un solo minuto, più in là, fino al termine della scala.

Quel giorno, poi, ch’ero entrata nel palazzo per la prima volta, io mi tenevo stretta a mia madre, osando appena di gettare intorno occhiate furtive: difatti, mai prima d’oggi avevo veduto una ricchezza simile (se non nelle chiese addobbate per qualche grande funzione), ed ero tanto intimorita che mi tremavano i ginocchi.

Tre sono i grandi miti dei poveri fanciulli: il Paradiso, il miracolo, e la ricchezza, e questi grandi miti si confondono insieme e si spiegano a vicenda. La Vergine possiede le qualità di una maga regina, il Paradiso è un feudo ducale. Il Nazareno, lasciata in terra la sua tunica di povero ebreo, si veste di porpora come un principe della Chiesa; i suoi mille servi e paggi, sia gli arcangeli e i serafini giganti che i gaudiosi cherubini nani, penetrano dovunque, e possono, volendo, eseguire i più bizzarri prodigi, come i genî delle Mille e una notte. La volta celeste è una caverna d’oro, il privilegio dei santi e dei martiri è l’oro, la colomba spirituale è raggiata d’oro, la Trinità si asside in trono d’oro. E le magioni terrestri dei ricchi appaiono, di rimando, una dimora del mistero, e del magico oltretomba.

La cameriera in grigio ci informò che donna Concetta non aveva dimenticato il nostro incontro del giorno prima, e la visita promessa (le avveniva talvolta di dimenticare, soprattutto i fatti più recenti); ma, al contrario, ci aspettava, e aveva perfino voluto rinunciare alla solita passeggiata per timore che noi giungessimo nel frattempo al palazzo. Così parlando, la donna ci precedeva alacre verso i piani superiori; ed io vidi, intanto, che mia madre sogguardava, di nascosto, la lettera consegnatale poc’anzi da colei nel vestibolo; e dopo averla strizzata e appallottolata nel pugno con una sorta di dispregio, come un oggetto inservibile, se la lasciava cadere nell’ampia tasca della gonna.

Eravamo giunte, intanto, al secondo piano; e la cameriera, sospinto un uscio a doppio battente, ci introdusse in una galleria ben rischiarata da tre finestre a balconcino, che davano sulla piazza. Di fronte alle tre finestre, si allineavano altrettanti usci, e la donna scomparve per uno di questi, lasciandoci ad attendere nella galleria.

Mentr’io volgevo gli occhi vaghi e timidi ai quadri dalle tinte corrusche, e alle mensole intarsiate su cui s’ammiravano statuine dai festosi colori, udimmo avvicinarsi un passo inquieto, pesante, e sull’uscio appena richiuso dalla cameriera apparve donna Concetta. Ella mi gettò un severo sguardo allarmato, e, come se mi vedesse ora per la prima volta, domandò a mia madre chi mai fosse questa bambina; ma poi, non sembrò neppure prestare orecchio alla risposta di mia madre e, senza più occuparsi di me, ci precedette lungo il corridoio oscuro, dall’alto soffitto, che conduceva alle sue stanze.

In fondo al corridoio, aspettava, in attesa di ordini, la solita cameriera in grigio; ma zia Concetta la licenziò bruscamente, ordinandole di recarsi dabbasso. Quanto ad Augusta, essa non comparve mai, né a questa, né alle successive nostre visite; evidentemente, ella preferiva di non incontrarci. Del resto, fuori di zia Concetta e di qualche domestico, non ci accadde mai di avvicinare nessun altro personaggio di casa Cerentano.

Fin dal corridoio per ove zia Concetta ci guidava, si avvertiva un odore macerato e dolce, simile a quello che impregna le stanze dei Monasteri. Ma più forte, e quasi estenuante, era tale odore in camera di zia Concetta, dov’ella ci fece entrare, chiudendo poi subito l’uscio.

Malgrado fossimo appena in primavera, in quella camera si respirava un’aria afosa: le finestre, addobbate con tende pesanti, eran chiuse come d’inverno, e davanti a grandi ritratti festosamente incorniciati, bruciavano dei lumi votivi, quali si usa porre per devozione dinanzi alle immagini dei celesti e dei defunti. Una eccessiva quantità di fiori, soprattutto di quelle specie dall’odore acuto che si suole preferire alle altre per adornar gli altari, onoravan pure quei medesimi ritratti; ma in gran parte piegavano appassiti, o languivano, come se anch’essi, in quell’aria viziata e in quella poca luce, si facessero esausti.

La camera, assai grande, aveva nel fondo un’ampia alcova con l’antico letto matrimoniale di Ruggero e Concetta Cerentano. Crocifissi scolpiti e pitture sacre pendevano dalle pareti; ma i ritratti venerati con lumi e fiori e gli altri innumerevoli che popolavano la camera, quasi tutti raffiguravano uno stesso personaggio dall’aspetto giovane e gentile, il quale (lo capii subito), non poteva esser altri che il nostro cugino Edoardo. Le sue sembianze d’una grazia singolare lo facevano riconoscere agevolmente anche in quei ritratti che lo mostravano bambino o fanciullo, nelle pose e negli abiti i più diversi.

Al trovarsi fra quei ritratti, mia madre sbigottì, e incominciò a lagrimare. Ella tentò di asciugarsi le guance con le dita, e la zia, che non aveva veduto le sue lagrime, s’insospettì a quel gesto, e le domandò duramente: – Perché piangi? – Mia madre parve spaventarsi e si affrettò a rispondere: – Che dice mai, donna Concetta? io non piango mica, – girando un poco il viso sulla spalla per celarlo alla zia. Sempre così dura e coraggiosa con gli altri, ella era docile, quasi umile con la vecchia.

Quanto a me, zia Concetta m’ispirava soggezione e timore piuttosto che pietà: sebbene affannasse, ella non pareva mai stanca, e trascinava su e giù per la camera il suo corpo massiccio con un’aria dispotica, e quasi accusatrice. I suoi neri grandi occhi si figgevano ogni tanto addosso al suo prossimo come per indagare, e poi si distraevano d’improvviso; e a motivo della sua nuca un po’ curva, che pareva deformata da un giogo, per guardar verso l’alto si volgevano faticosamente di sbieco, nel quale atto Concetta somigliava una cavalla inselvatichita, e nemica all’uomo. Ella serbava, ancora, i segni d’una passata bellezza, e anzi (come testimoniavano i ritratti dove la si vedeva più giovane, a fianco del figlio), aveva qualche somiglianza con mia madre, sì che pure uno straniero avrebbe indovinato ch’erano parenti. Anche in certe rare inflessioni della voce, ella ricordava mia madre: tuttavia, tali somiglianze non bastavano per farmi amare zia Concetta, e del resto esse balenavano solo di rado, per me, in quella trista rovina.

La nostra ospite non ci invitò a sederci, e rimase lei stessa in piedi, senza trovare riposo alla sua faticosa irrequietudine. Pareva che non avesse più in mente lo scopo principale della nostra visita, vale a dire la lettera di Edoardo; e dopo aver tanto ansiosamente atteso mia madre, adesso ci lasciava in disparte, assorta in suoi pensieri solitari, e ci gettava delle occhiate, come a domandarsi chi mai fossero queste due straniere. Ogni tanto, s’arrestava in un punto della camera, e, appoggiata al suo bastone, rimaneva taciturna, con una espressione triste e ieratica: sembrava allora, con quei grigi capelli sconvolti, un’arruffata, gigantesca civetta.

D’un tratto si volse a mia madre, e le domandò: – È molto tempo che non lo vedi?

Mia madre diventò di fiamma, e balbettava non so quali parole. Ma l’altra, senza ascoltare la sua risposta, le si fece più vicino, e con irruenza minacciosa, quasi l’avesse invitata per aggredirla, ammonì:

– Sappilo, cara mia, mio figlio, il giorno ch’è uscito da questa città maledetta, l’ha voluta cancellare dalla terra.

L’ha cancellata, sì, via! e di questa gentaccia di qui non vuol più nemmeno sentirne parlare: né d’amici, né d’ amiche, né di parenti: «Oh, mamma, taci, – dice, se mi capita di nominargli il Tale o il Talaltro di qui, – taci, non farmi sapere di loro. é una noia perfino il supporre che esistano». È una noia perfino il supporre che esistano! – ripeté la vecchia, con una risata vittoriosa e crudele.

Questa risata le provocò un grave affanno; ma come l’affanno si placò, tosto, ritrovando, con una sorta di ostinazione faticosa, il tema del suo discorso, ella riprese a parlare. Vantava le ragioni del figlio, accusando gli abitanti della città di non esser cristiani, ma barbari, e raccontando sul conto loro ogni sorta d’infamie e di nefandezze. In tal discorso, la sua sgraziata voce cavernosa prendeva degli accenti or declamatori, solenni, ed or misteriosi, come di chi svela delitti occulti. Ed io la udivo sbigottita e incredula, giacché non avevo mai prima saputo che la gente, seppure barbara, potesse commettere così orridi peccati.

– Vuoi saperlo? Essi ridono al passaggio del Santissimo, è la verità, figlia mia, non sono ancor cieca, li ho veduti ridere, con questi miei due occhi, il mattino della santa Pasqua. Loro preferirebbero, certo, ch’io fossi cieca, ma io li ho veduti e testimonierò contro di loro il giorno della Vendetta. Li ho veduti che mostravano di segnarsi col segno della croce, e in realtà facevano dei moti sconci e tracciavano i circoli del demonio. Vade retro, Satana! E le fanciulle di qui, mentono, mentono tutte in confessione, per paura che la lastra del confessionale alle loro parole s’arroventi come il fuoco. Esse si accostano al Sacramento con le labbra dipinte, e mordono l’Ostia coi denti. Prima della Comunione, mangiano tutte in branco finché la loro ghiottoneria non è sazia, e fanno delle scommesse, a sfida di Nostro Signore... poi, ricevuta l’Ostia, fan le viste di raccogliersi come sante, col viso fra le mani, ma in realtà, dietro le dita scostate, così, ammiccano ai loro innamorati. Ebbi una volta una cameriera, si chiamava Ginevra... Lontano da me, Satana! Essa fu trasformata in un demonio... Tu sei vedova?

Mia madre mormorò: – Sono maritata, – ma l’altra, senza ascoltarla, esclamò, in tono trionfante e malvagio:

– Lui non si sposa! non si sposa con nessuna!

E proseguì, ridendo estasiata: – Sai che cosa m’ha detto? M’ha detto: «Mamma, indovina il nome della mia futura moglie». Io, per gioco, gli dicevo questo o quel nome di ragazze, ragazze della nostra migliore nobiltà, s’intende, le più ricche ereditiere... Ma lui sempre: «No, non indovini», e rideva con un’aria maliziosa. «Ebbene, gioia mia, – gli dico infine con un sospiro, – io non indovino.

Svelamelo tu». Allora lui mi spettina un po’ i capelli (è uno scherzo che gli piace fare, è d’un umore sempre scherzoso), e mi dice piano nell’orecchio il nome: Concettella. Io mi riaggiusto i capelli, lo bacio e dico: «Adesso che sei bambino... ma da grande cambierai pensiero, la lascerai per un’altra la tua Concettella». Lui si raccoglie, medita e dice fingendo d’accigliarsi: «Bene, sì, la lascerò per un’altra. Indovina chi sarà?» E siccome io non indovino, mi scosta i capelli dall’orecchio e senza poter vincere il riso mi mormora: Donna Concetta. «Eh, cuore mio santo, tu mi solletichi col tuo fiato!» Ed egli allora prende a solleticarmi la gola con la mano, e dice: «Ridi, ridi, Concetta!»... Vieni qua, vieni qua con me, guardalo...

E piena di compiacenza e d’autorità, la zia sospinse mia madre dinanzi a questo e a quel ritratto, fra i moltissimi che tappezzavano la stanza, illustrandone con mille particolari il luogo, il tempo e l’occasione; ma a motivo della sua vista inferma ella non distingueva i ritratti uno dall’altro e li additava in confuso. Era strano udire come, parlando del figlio, la sua voce mutasse: per solito rauca e senile, essa ritrovava, in questa illusione, degli accenti sonori e melodiosi. Vi si poteva riconoscere quel timbro, da me già lodato altre volte, e particolare, sembra, alle donne della nostra regione, nel quale odi riecheggiare un’antica maternità e l’invocazione carnale dolersi come il canto d’un prigioniero. Ad ascoltarla, si ricordavano i canti delle monache alle Messe solenni: quando, nascoste dietro il recinto del coro, le Sorelle inebriate sciolgono le lor voci di soprano.

Mia madre, ubbidiente all’invito della zia, levava lo sguardo a ciascun ritratto. Da principio, in quei suoi sguardi si leggeva un orribile turbamento; ma dopo un poco, essi splendettero d’una volontà visionaria e chimerica.

In una fotografia, ricordo, Edoardo appariva, infante di pochi mesi, in grembo a Concetta: la quale, assisa su uno sgabello, reggeva con la destra il figlio di cui stringeva, con la sinistra, l’irrequieta manina. Con la mano rimasta libera, Edoardo afferrava la catena di sua madre: e in tale atto, mostrava un umore festante. Egli aveva il capo cinto da una gran cuffia a crespe, e portava sulle fasce una veste lunghissima, la quale, piuttosto che per un bambino in fasce, sembrava cucita per una regina.

Tal veste, allacciata dietro con un alto nastro di seta, nascondeva il braccio di Concetta, ripiegato a sostenere il figlio: e scendeva fino a terra con le sue trine e gale.

In un altro ritratto, Edoardo appariva un poco più grande, ma ancora in vesti femminee. L’abito che egli indossava, con gonna a campana adorna di nastri, gli lasciava le spalle nude come un abito da ballo. Su quelle spallucce candide, scendeva, avvolta in boccoli, la chiara capigliatura e dalle corte maniche rigonfie uscivano, riunendosi insieme sul petto, le braccia tonde e minute. In simili vesti, Edoardo poteva venir confuso con una ballerina, se non fosse che in un altro ritratto, un poco più in là, egli riappariva in abito di ragazzo, ma con la medesima capigliatura lunga e inanellata, e il medesimo volto di bambina che aveva nel ritratto precedente. Stavolta, il suo costume somigliava a quello di un elegante scudiero; ed egli era in compagnia d’un cane ancor cucciolo che, in attitudine sottomessa, gli giaceva ai piedi.

Altrove lo si vedeva insieme alla piccola sorella Augusta. E poi coi capelli tagliati corti, come si conviene a un maschio, e ben ravviati, la scriminatura nel mezzo della fronte. Eccolo, quindi, fanciullo, nell’ampia giacca di velluto stretta alla cintura, con polsini e collaretto insaldato, cravatta bianca e pantaloni lunghi donde sbucano i piedi minuscoli in rilucenti scarpini. Eccolo in groppa a un cavallo; e in piedi, accanto al medesimo cavallo del quale, in atto carezzevole, sfiora la criniera con la guancia. Qui siede al pianoforte, qui suona la chitarra, qui è d’umore allegro, e qui pare aggrondato. Eccolo giovinetto, in abito invernale, che fa sfoggio di sé, e fuma la pipa; eccolo vestito di bianco, seduto in posa indolente sulla balaustra. Qui, fattosi un uomo, ha le pupille accese ed esaltate, le orbite cave e le guance magre; altrove, riappare ingrassato e florido, in un costume da montagna; e qui, lo si rivede sotto un sole abbagliante, seduto in un lettuccio, con un viso magro, imbronciato e quasi adulto, mentre mira, fuor della finestra, a certi lontani abeti, e posa la sua piccola mano sul davanzale.

Poi riappare, glorioso e avventato all’aspetto, fra belle dame, in abito da società; e vestito da viaggio, sull’orlo d’una fontana marmorea; e in islitta, dentro un paesaggio di neve; e al braccio di Concetta, galante e allegro come se conducesse a passeggio la sua cara moglie.

Fermandoci, così, un poco davanti ai diversi ritratti, mia madre, ed io che la seguivo passo passo, percorremmo insieme la stanza come una galleria di pitture, dietro la dissennata guida della zia. La quale, oltre a non distinguere più i ritratti coi suoi occhi infermi, sembrava (come i miei lettori avran già notato), aggirarsi disorientata nelle dimensioni del tempo, sì che presente, passato e futuro eran tutt’una cosa per lei. Nel giro di un minuto, la udivi parlare di suo figlio Edoardo or come di uno tuttora bambino, e presente nella casa, magari intento a giocare nella prossima stanza o immerso nel sonno dentro il suo lettuccio; or come di una creatura da lungo tempo trapassata; or come di un bel giovane che in questo momento stesso, mentre noi chiacchieravamo di lui, godeva ogni sorta di onori e di passatempi in qualche cortese metropoli del globo. Si sarebbe detto, insomma, che la mente di zia Concetta fosse una stanza devastata, donde ella raccoglieva i tragici oggetti familiari senz’ordine o coerenza alcuna.

Ciò faceva sì che alla mia fantasia, il personaggio di questo grande cugino o fratellino di mia madre, già alquanto misterioso, apparisse sempre più vago e multiforme.

Arrivate che fummo sotto l’alcova, mia madre ebbe un sussulto; e ritraendosi un poco, distolse lo sguardo dalle fotografie della parete. Queste fotografie erano state prese, la maggior parte, durante gli ultimi mesi di vita di Edoardo, e il giovane, fuori che per l’illusa Concetta, vi appariva quasi irriconoscibile. Ma Concetta le prediligeva fra tutte, le aveva raccolte intorno a sé nell’alcova, e ricordava a memoria il posto di ciascuna. – Perché ti stacchi da me? Perché tremi? – ella domandò a mia madre: – I ritratti che qui vedi, – seguitò, – li prendemmo in montagna, quando lui era malato. Guarda, c’erano due letti nella sua camera: uno per lui, e uno per me.

Mia madre, ubbidiente, guardò, pur esprimendo con lo sguardo spaurito la riluttanza e la negazione (e in seguito ella rifuggi sempre dal posar gli occhi su quei tristi ritratti dell’alcova): – Quando lui s’ammala, – seguitava intanto zia Concetta, – non vuole nessun altro che me, per vegliarlo, nella camera. Ed io, lo affiderei forse a una infermiera prezzolata? No, non temere, Edoardo, cuore mio prezioso, tua madre non ti lascia neppure un momento. Certe volte soffre d’insonnia, e di tanto in tanto mi richiama: Concetta! dormi? Io, seppure m’ero assopita, mi scuoto di soprassalto, e rispondo: Non dormo, no, no, Edoardo mio, giacché lui s’offende se altri dorme accanto a lui mentr’egli rimane sveglio. Anche la mattina, vorrebbe che tutta la casa si risvegliasse insieme con lui. Balza dal suo lettino, e scuote la governante, poi desta i suoi cuccioli, i suoi gatti, poi corre da me e mi racconta i propri sogni, e vuol sentire i miei... rimane lì ad ascoltare, seduto su quella sediolina vicino al mio letto, con gli occhi attenti, come se udisse chi sa che belle favole d’autore!

E zia Concetta ci indicò, ai piedi del suo letto nell’alcova, un’elegante poltroncina intarsiata, fabbricata all’incirca sulla mia misura, e che io, devo dirlo, invidiai non poco al cugino Edoardo.

– Sovente, – riprese ella a raccontare, – sovente, malgrado l’insonnia e la malattia (perch’egli, tu sai, fu molto malato), malgrado tutto, lui, angelo santo e senza pensieri, ha un umore scherzoso: «Concetta, – mi dice, – non ti pare, a dormire noi due nella stessa camera, d’esser tornati alle notti ch’ero bambino, e volevo dormire con te, nel letto matrimoniale? Mi pareva chi sa quale onore!» E ridiamo insieme, rido con lui come fossi tornata ragazza! Ah, benedizione mia, guardatelo, e ditemi se c’è una donna al mondo che non perderebbe la testa per lui! E lui lo sa, veramente, d’esser bello: già, se pure non l’avesse saputo, sua madre non ha fatto che dirglielo da quando ha incominciato a dargli il latte. Ah, cara mia, vedesti mai la perfezione delle forme sulla terra?

Così è lui; guardate i suoi ritratti, se non son degni di stare su un altare. E lui lo sa, e gli piace di farsi fotografare e ritrarre, e sempre si ricorda di sua madre. Da tutti i siti per dove passa, mi manda le sue fotografie, coi suoi amici, le sue amiche... ah, ma quelle amiche, lui, sa in che conto tenerle! la vera amica sua, lui la conosce:

«Concettella, – mi dice, – stammi vicino, non mi lasciare, tu sei tutto per me». Eh, amor mio, se non c’era Concetta tua, chi t’avrebbe guarito? Lassù, con quelle infermiere rozze, sporche, quelle sgualdrine, che quando accudiscono ai malati, han la mente ai propri amanti. E i dottori, anche quelli! gente senza coscienza, che non vale nulla e non sa nulla, vedono venti malati in un giorno, che cosa gliene importa delle vene mie? Ah, Dio li ha dannati tutti, ma tua madre la sa, la medicina che fa miracoli: è il cuore di tua madre, Edoardo mio, che arde e sanguina per la tua bellezza. Voglio mostrarlo a Cristo durante l’Elevazione, questo cuore cristiano, voglio offrirlo in voto! ... Certe volte, cara mia, stammi a sentire, mio figlio s’amareggia; confronta i ritratti, si specchia:

«Sono mutato? sono mutato molto?» Ebbene, non ricadrà infermo mai più, ho compiuto un voto, un gran voto, tutta la città piegò le ginocchia davanti a questa madre; durante l’elevazione dell’Ostia, il vescovo (era il vescovo in persona che diceva Messa), il vescovo si sentì ispirato, e gridò i nostri due nomi uniti. Ho la promessa di Cristo, figlia: Edoardo e Concetta non saranno divisi mai! per lui soffersi tanto che meriterei le stigmate della Croce. E me lo hanno ridotto in questo modo! Chi me lo ha mutato, chi me lo ha sfigurato in questo modo?

E inaspettatamente, Concetta levò un grido acuto. ella sembrava attraversata da un intenso orrore, come creatura leggendaria durante una metamorfosi. Ma fu un passaggio fugace, del quale, un momento dopo, ella non serbava più memoria alcuna.

Poi volle condurci in camera d’Edoardo. Essendo questi partito per sempre dalla casa prima di compiere la sua maggiore età, la sua camera era rimasta la stessa di quando egli era ragazzo e adolescente. Sotto l’alto soffitto gaiamente affrescato, essa non era molto ampia, e a dispetto dei mobili ricchi e massicci, non ispirava soggezione. Sulle bianche pareti fregiate di stucchi, fra i quadri, gli specchi e i graziosi paralumi un poco stinti, figuravano dei ben incorniciati disegni, dal tratto ancora inesperto: opere dello stesso Edoardo. Le tende delle finestre erano ricamate con fili di seta variopinti; e i fiori e frutti disegnati sul grande tappeto vincevano quelli della natura col loro smagliante colore. La cosa che più mi colpì fu, presso il letto di noce pesante, una culla dorata in forma di cigno, a cui dal capo, gentilmente recline in cima al lungo collo, piovevano, come dal capo di una dama, dei veli scoloriti. Ciò mi fece quasi pensare che il cugino avesse un proprio figlio ancor piccolo, il quale dormiva in camera con lui; ma poi sapemmo, invece, che la culla aveva appartenuto allo stesso cugino Edoardo quand’era in fasce, e che il suo posto, durante molti anni, era stato nell’appartamento dei bambini. Solo da qualche tempo, per ordine di Concetta (ispirata da chi sa quali affetti chimerici), essa era stata tolta dal suo posto e veniva trasportata di qua e di là, or in questa camera, or in camera della stessa Concetta, sotto l’alcova. Come una barca senza timone, in balìa d’un vento capriccioso.

Per quel che mi riguarda, a me questa camera del cugino parve così attraente, che avrei accettato volentieri di giacervi a lungo malata, al posto di Edoardo. Una sospesa, delicata felicità vi faceva cenno da ogni parte, e vi si respirava un’aria di leggerezza e di riposo, come in un piccolo sontuoso giardino sul far della sera, allorché da poco gli ospiti ciarlieri sono andati via, e i trilli vespertini degli uccelli si sono appena spenti. Al pensiero che il suo caro ospite era morto, vi si entrava, naturalmente, guardinghe e sommesse; ma si provava, non so perché, nel tenere un tal contegno, quel gusto di futile solennità e di commedia che prova una bambina allorché cammina in punta di piedi perché la sua bambola dorme.

Sul tavolino da notte, si vedevano dei fogli rigati da musica con poche note manoscritte. Infatti, ci spiegò Concetta, fin da bambino Edoardo non voleva mai coricarsi se non aveva a portata di mano simili fogli: giacché gli accadeva talvolta, così egli affermava, di comporre in sogno frammenti di canzoni e brevi melodie: e voleva esser pronto a trascriverle al primo risveglio, avanti di dimenticarle.

Appena sulla soglia di questa camera, mia madre ricominciò a lagrimare infrenabilmente; ma stavolta zia Concetta non se ne avvide. Ella era tutta infervorata a mostrarci questo e quell’oggetto, e a raccontarci sulla vita e sul carattere d’Edoardo ogni sorta di minuzie, che a lei parevan tutte importanti. Con aria confidenziale, e quasi complice, chiamò mia madre presso il letto, e, sollevatone dalla parte dei piedi il materasso, le mostrò immagini di santi e amuleti ch’ella vi aveva cucito, e grazie ai quali, affermò, Edoardo sarebbe risparmiato dal malo influsso e dal dolore dovunque si trovasse: – Non passa una sera o una mattina, – ella dichiarò a voce bassa, – ch’io non venga a fare il segno della Croce su questo letto. Lui non deve saperlo, – aggiunse sospirando, – perché, quando sono con lui, respinge il segno di croce, e io devo farlo per lui di nascosto, dietro la sua porta. Ah, testolina ostinata! – e in tale esclamazione, Concetta baciò il guanciale del letto. – Le amiche mie, – riprese poi a dire, – le amiche mie vorrebbero che mi decidessi a tagliargli i capelli, dicono che è grande ormai, che non è giusto pettinarlo ancora da bambina, coi capelli lunghi sulle spalle. Ma a me non basta il cuore di metter le forbici in quella capigliatura di seta; quando lui fa il bagno, io gliela strizzo, madida, nel pugno, e per ischerzo provo a dirgli: «ecco che cosa rimane dei tuoi capelli!», e lui piange, perché ci tiene, lui pure, al suo tesoro, ai suoi capelli preziosi. E le ciglia che aveva! eran così lunghe e fitte che talora nel sonno gli si imbrogliavano, e la mattina io dovevo sbrogliargliele col pettine. Lui si fidava solo di me per quest’operazione, a nessun altro era permesso di pettinargli le ciglia: mi chiamava tutto agitato, e poi metteva giù la testolina sul guanciale, a occhi chiusi... Ah, Dio... sì, sì, gli tagliai i capelli quand’ebbe sette anni, li tenevo dentro il mio scrigno, più cari d’una collana di brillanti. Ma poi, sentimi, cara mia, vieni qui, che a te lo dico: ebbene, li ho usati per ricamare la pianeta che offersi in occasione della sua malattia. Fu allora che offersi i miei ori, le mie gioie... Sì, per te, mio bel figlio maschio! per te, onore nostro, signorino nostro caro!

Ah, che cosa non darebbe Concetta per te? Io, – proseguì in orgoglioso delirio, con gli occhi fatui e cupi, – io, quella mattina, sulla montagna, non volli che nessun’altra mano toccasse il suo corpo delicato, signorile. Lo lavai, gli rimisi al collo la catena del battesimo, ch’egli s’era tolta e che avevo portata sempre io per lui, lo vestii, lo pettinai. Le suore dicevano che la sua bellezza era un miracolo, non s’era mai veduto nessun altro conservar tanta bellezza dopo tanto dolore. «Guardatelo, – udivo che si ripetevan l’una con l’altra, – guardate, sembra un bambino, tanto è sereno e fresco. Sorella, oh, Maria Santa! è dunque il riflesso delle candele o son io che lo vedo così? guardate se non ha i colori sulle guance, e su quella bocca che pare un garofano! é degno di sposare in cielo la vergine sant’Agnese. Vorrei che non finisse mai questa veglia». Un’altra lo paragonava al re Salomone quando s’incontra con la regina di Saba. E in verità, – qui la voce di Concetta assunse un tono pomposo, mondano, – in verità, non dovrei dirlo io, che sono sua madre, ma non credo che il letto nuziale di re Salomone fosse addobbato con maggior lusso. In meno di nove ore, avevo fatto venire d’oltre frontiera due tappeti orientali, e dei candelabri e vasi d’argento ch’erano stati un tempo in un castello degli Absburgo. Uno dei due tappeti copriva tutta la camera, e l’altro, meno ampio, ma assai più prezioso, era posto sotto il letto. La coperta del letto era di pizzo di Fiandra antico (anch’essa proveniva dal castello), e sotto il capo, per copriguanciale, c’era un esemplare unico (tu non mi crederesti se te ne dicessi il prezzo), una scena di Annunciazione lavorata interamente a punto velato su fondo oro. Le pareti eran drappeggiate da cima a fondo di broccato oro scuro, e la stanza era illuminata da novantotto ceri: ventiquattro intorno al letto, e settantaquattro, in due file, tutto intorno alle pareti. Fra le due file di ceri, intorno alla camera, c’era un tappeto di camelie bianche, mughetti e muschio. E intorno al letto, s’alternava coi ceri una fila di calle altissime, alte più di un metro, e una seconda fila di gigli. I ceri facevano una luce come di mezzogiorno, e i presenti bisbigliavano che non avevano mai assistito a una funzione altrettanto fastosa. Eppure, due suore, di quelle che stavan lì inginocchiate, due carmelitane, avevan vegliato una volta perfino un’Altezza di famiglia reale, uno scandinavo, ch’era stato in cura in quelle stesse montagne. Le suore dicevano... (credevan ch’io non avessi più sensi per udirle, ma ricordo ogni lor parola), le suore dicevano... – a questo punto il viso di zia Concetta si spogliò dell’incosciente esaltazione e prese una strana espressione sonnolenta. – Edoardo! Edoardo! – ella ripeté con una voce da spettro; e ruppe in singulti aridi e senili fissandoci come per interrogarci. Allora mia madre mormorò: – Le ho portato la lettera... – e con dita convulse estrasse non già la lettera d’Augusta, spiegazzata, che aveva in una tasca della gonna; ma un’altra, sua propria, che aveva dentro la borsetta. Né certo occorre dirvi che la notte avanti, allorché io l’avevo sorpresa a scrivere nella stanzina di mia nonna, ella scriveva appunto questa lettera.