Capitolo quarto
Le seduzioni romantiche non erano che prose scadenti?

A questo punto, io m’immagino che i miei lettori (sempreché abbiano avuto la pazienza di seguirmi fin qui attraverso un racconto così scostante e lunatico), mi richiederanno di qualche ragguaglio circa i testi delle finte lettere: ché io, pur descrivendo i modi tenuti da mia madre nel comporle, e gli straordinari effetti di esse su noi tre donne, non ho dato poi, riguardo alla loro sostanza, che dei cenni vaghi, lasciando nella penombra una così importante documentazione. Ora, s’io fossi una raccontatrice astuta e appena un poco disonesta, mi sarebbe facile di togliermi d’impaccio rispondendo che la famosa corrispondenza, fra le sventure e le peripezie seguìte nella mia famiglia, andò tutta perduta; che la mia memoria, attraverso tanti anni, non serba se non una illusoria, ineffabile eco dei messaggi letti dalla voce di mia madre, in quei lontani pomeriggi, e tanto dolci alle mie orecchie puerili. Che, insomma, i testi delle finte lettere non esistono più, né possono quindi venir chiamati a testimonio; e che sul conto di essi, come per certe storie di popoli distrutti, bisogna accontentarsi delle incerte risonanze trasmesse dalla leggenda.

In tal modo, io potrei lasciare i miei lettori, sebbene inappagati, illusi tuttavia che quel carteggio racchiudesse chi sa qual meraviglioso poema d’amore. Un simile poema, benché non manifesto a nessuno, farebbe pur sempre parte della mia storia; e compensando, coi suoi splendori invisibili, le visibili pecche di questa, darebbe forse un pregio alla mia opera oscura, fornirebbe occasione di ricerche agli storici, e procurerebbe, forse, fama all’autrice.

Tutto ciò, non lo nego, è assai tentante; ma avendo io promesso una cronaca veritiera, e non dei giochi letterari, scaccio ogni tentazione, e rimango fedele alla verità.

La quale, eccola: il carteggio del finto Cugino esiste ancora, è in mio possesso (per via di casi che si narreranno a suo luogo); e anzi, in questo momento che scrivo, è qui, sotto i miei occhi. Tuttavia, non soltanto io non m’indurrò certo a trascriverlo su queste pagine (a prezzo di scontentare, forse, qualche lettore appassionato di epistolografia); ma provo un ritegno amaro e geloso al semplice discorrerne con altri. E se non fosse per la sincerità promessa, e per la necessità di non sottrarre alle mie Storie familiari una così importante documentazione, io lascerei volentieri nell’oblio e nel riposo quest’unica testimonianza superstite del patetico romanzo di Anna.

Né la mia riverenza naturale, e la pietà dovuta ai morti, son le sole cause della mia riluttanza. All’inizio di questo libro, accennai già, mi pare, che i soli documenti a me rimasti del nostro dramma erano cosiffatti da accrescere la mia giovanile incertezza, invece che scancellarla. Io alludevo, nel dir ciò, appunto all’Epistolario del finto cugino: il quale Epistolario è una testimonianza così oscura, e infida, che non può non turbare chi, come Elisa, lo guardi con una mente non libera, confusa da amari affetti.

La prima domanda di cui la mia povera mente fu continuo trastullo durante i trascorsi anni, era: – Ma infine, chi è mai questo finto cugino, mandatario delle lettere?

– Giacché, sebbene io sapessi che queste erano scritte dalla mano di Anna, m’era difficile rinunciare alla presunzione ch’ella avesse un compagno, quantunque invisibile, nel fantastico gioco; e la persona di costui s’andava mescolando, nella mia memoria, con la persona di Anna. La quale si trasformava così in una specie di Centauressa, posseduta da quelle avverse divinità meridiane che usano travagliare simili numi pluriformi.

Come si sa, per Elisa bambina, la domanda suddetta (seppure ella avesse osato proporsela), non poteva avere che una risposta, necessaria e naturale: poiché Anna affermava che la corrispondenza notturna era opera del Cugino, la piccola Elisa non poteva attribuirla se non a lui. A quel medesimo personaggio, dico, che mia madre amava, e zia Concetta vantava e piangeva; e che aveva dormito infante nell’antiquata culla imperiale; e folleggiava adesso, in un modo capriccioso e problematico, fra il mondo dei vivi e quello dei defunti.

Non troppo diversamente dalla puerile Elisa, uno che si dilettasse di studi occulti o di magìa risponderebbe alla medesima sopracitata domanda con la supposizione che l’ispiratore, e quindi il vero autore delle lettere, fosse precisamente lo stesso Edoardo, o meglio quella seconda forma di lui che la morte aveva sottratto ai comuni occhi corporei. Senonché, pur se il giudizio illuminato non rifuggisse da simili, torbidi vapori, vi sarebbe sempre la grave obiezione che nell’epistolario, come vedremo, troppo scarsi indizi lasciano intravvedere la presenza del nostro caro Edoardo, e troppi, al contrario, accusano quella di spiriti irriconoscibili, e del tutto difformi da lui.

Questi ultimi spiriti sono d’una specie tale che una persona timorata quanto superstiziosa attribuirebbe addirittura l’Epistolario al demonio. Ma, non bastasse la puerile fiducia di Elisa nella nessuna validità del diabolico patto di Anna, si aggiungerebbe, a farci ripudiare la detta attribuzione, anzitutto il nostro convincimento che il demonio, come ogni malfattore astuto, evita di lasciare prove scritte dei propri imbrogli; e poi, la constatazione che in questo carteggio, fra i molti accenti stonati, di timbro infernale, si distingue ogni tanto una rara, lontanissima vocina nel cui timbro riconosci la delicata scuola del Paradiso. Ora, quando mai si dette il caso che il diavolo collaborasse con un Celeste? Satana, è noto, ha i suoi motivi per rifuggire da simili, gloriose contaminazioni.

E allora? Altra risposta non rimane fuor di quella che darebbe un onesto scienziato, un medico, o semplicemente un uomo di senno: vale a dire, che questo carteggio, scritto per mano di Anna, è in tutto e per tutto opera di Anna stessa: ibrido frutto d’una povera mente morbosa, sfogo romantico d’una passione insoddisfatta.

Questa ipotesi, senza dubbio la più ragionevole, è per Elisa una funesta consigliera di lagrime. Difatti, se m’induco ad accettarla, il finto Epistolario si trasforma per me in uno specchio, in cui l’amato viso di Anna mi appare così imbruttito e stravolto, che memoria, volontà e fantasia mi suggeriscono di scegliere una menzogna in luogo di questa diagnosi. La quale, dov’io spiavo il mistero e la malizia, pone d’un tratto la malattia e il decadimento. Di Anna, di questo duplice mio idolo, della mia dormiente, preziosa Fenice, fa un oggetto di miseria e di pietà. E infine, sull’Epistolario fantastico, sul nostro carteggio famoso, sparge il tristo pallore dell’insania, e l’informe noia della morte.

Conchiudere con una diagnosi di tal sorta è cosa agevole ai profani; ma colei che sulle rovine dell’antico romanzo materno costruì la chiesa delle proprie frottole: Elisa, voglio dire, sarà perdonata del fantastico turbamento che, contro ogni ragionevole considerazione, la invade mentre sfoglia queste finte lettere. È un fatto che, al toccar questi fogli, io tremo fino a lasciarmeli sfuggire dalle dita: e ciò non solo per i ricordi e gli affetti violenti che mi legano ad essi; non solo per la folle testimonianza che essi recano riguardo alla sorte di Anna; o perché ho vergogna e rimorso di frugare in un segreto altrui. Insieme a tali sentimenti c’è in me un timore, quasi un’aspettativa, di effetti imprevedibili, assurdi, e ribelli alla mia ragione: come se fra questi poveri fogli si celasse un’insidia, e le frasi del finto amante si traducessero, a leggerle, nel linguaggio onnipotente delle streghe.

Dopo tutte queste chiacchiere, io devo ai miei lettori una descrizione, sia pure discreta e succinta, delle finte lettere. Ed essi ne trarranno quelle conclusioni che paiano più attraenti al loro gusto.

Sono in tutto e per tutto una ventina di lettere, alquanto prolisse e lunghe, scritte su fogli di carta ordinaria, di quella che si compera nelle tabaccherie. L’inchiostro è di cattiva qualità, sbiadito, e forma qua e là delle gore come se lo scritto fosse stato bagnato di lagrime. I fogli sono per lo più sgualciti, consunti, e ciò ispira un senso d’intimità patetica, e di compassione mortale: s’indovina ch’essi furono preziosi e cari alla loro destinataria (che bizzarro sapore mordace ha nel presente caso questa parola!) la quale dovette vagheggiarli e baciarli, e occultarli come tesori, e portarli chiusi in seno.

Riconosco nella scrittura i familiari caratteri di mia madre, mantenutisi un poco informi, e scolastici, sebbene, quando scrisse queste lettere, ella s’avviasse ai trent’anni. A proposito di tali caratteri, ho fatto una scoperta singolare. Dovete sapere che fra le carte di mia madre rimaste nelle mie mani v’è un paio di bigliettini scritti dal vero Edoardo a sua cugina Anna, al tempo, come appare dalle date, del loro idillio. Or s’io confronto questi veri autografi del cugino con le finte lettere di lui, m’accorgo che mia madre, nell’affermare alla zia mezzo cieca: «è proprio la sua scrittura», non mentiva del tutto, e che, invero, anche occhi più sani di quelli di zia Concetta avrebbero forse potuto cadere nell’inganno. Né la somiglianza delle due scritture si doveva a un’artificiosa imitazione di mia madre: infatti, se nelle prime righe ella si sforzava d’imitare i diletti caratteri di lui, ben presto, assunta nelle sue regioni illusorie, lasciava ogni artificio.

E allora io non vorrei che qualcuno s’inducesse perciò a supporre un qualche intervento ultraterreno o invisibile.

Dio vi guardi da simili fumi! ecco, per disingannarvi del tutto, degli altri autografi di mia madre, da me serbati: autografi, dico, di nessuna importanza, quali note di spese fatte, ricevute di pagamenti e perfino certi vecchi quaderni d’esercizi, del tempo ch’era fanciulla. Ebbene, anche in detti autografi la sua scrittura appare tanto simile a quella, un poco più matura, di Edoardo, da poter quasi confondersi con essa, soprattutto allorché quest’ultima s’abbandona alla foga. Del resto, la somiglianza delle scritture non è troppo rara tra fratelli o congiunti d’un medesimo sangue: per cui, ritrovarla fra due cugini non è affatto un prodigio fuor della natura. Tal cosa potrà fornire argomento di studio ai grafologi e psicologi, non ai patiti della magìa.

Mia madre, come sapete, era cresciuta piuttosto incolta, pur essendo figlia d’una maestra; per cui (non voglio nasconder nulla), l’Epistolario è sparso d’errori d’ortografia, di grammatica e di sintassi: tali che già al tempo ch’esso fu scritto la prima della classe Elisa non ne avrebbe ammesso di simili. Io temo proprio che Edoardo, più letterato di sua cugina, avrebbe arricciato il naso vedendo la propria firma sotto simili spropositi.

Allo stesso modo che, avvezzo a poetare fin dai suoi primi anni, egli rinnegherebbe con disdegno, io temo, lo stile di questi componimenti epistolari. Il quale non si può certo chiamare un bello stile: nei suoi momenti più accesi, esso tocca tutt’al più un’enfasi a buon mercato, imitata dai romanzi a dispense. Non si vergogna di mostrarsi maligno, dissoluto e perverso (non di rado argomenti crudeli, e perfino infami, vi son trattati con un tono che diremmo ingenuo se la parola non fosse fuor di luogo), e d’altra parte, invece, usa modi tortuosi e sibillini, quasi un linguaggio cifrato, per nominare cose di cui tutti usano pronunciare il nome apertamente: ad esempio, la morte. Si direbbe che per lo svergognato mandatario di queste lettere la morte sia la peggior vergogna.

Ed eccoci, infine, al punto di svelare qualcosa riguardo al contenuto delle lettere: il quale è di tal sorta ch’io sospetterei d’avere sotto gli occhi non i veri originali di quell’antica corrispondenza, ma delle grottesche falsificazioni, se non sapessi che un simile sospetto non ha alcun fondamento probabile.

Il fatto è che questi saggi epistolari non soltanto mancano di bellezza e di allegria, ma, in più luoghi, sono espressione di bruttezza, malinconia, e tetra crudeltà.

Essi paiono uno scherno e uno stravolgimento maligno e i loro argomenti sono, il più delle volte, quasi un’amara, deforme contraffazione di tutto quanto fece sempre il piacere e la grazia degli amanti. Piuttosto che accordo e felicità, essi spirano quasi sempre martirio, mortificazione e castigo; ma soprattutto, vi ripeto, scherno, astruso scherno. Quali travisamento o ludibrî pervertivano dunque le illusioni di mia madre durante le nostre veglie famose? Come poteva ella accogliere con tanto gaudio, e materna dolcezza, questi fantasmi contratti e snaturati?

E la zia Concetta, e io, di quali beffardi spiriti eravamo schiave, per deliziarci di recitazioni così selvatiche e stolte allo stesso modo che se avessimo ascoltato un eccelso trovatore?

Qua e là, è vero (già lo accennai più sopra), attraverso questa ingrata lettura un tenero appello risuona, o si dispiegano frasi adorabili, quali consolazioni vigilanti al letto d’un malato. Ma sono passaggi effimeri. Come se il languido volto della luna s’affacciasse appena (per nascondersi tosto impaurito), su una selva annuvolata e contorta.

Ecco quali son le altre, e non certo meno importanti, ragioni, che mi ritengono dal trascrivere qui i testi delle finte lettere. La lettura di simili pagine, certo, non darebbe gusto a nessuno. E di malavoglia io m’induco a tracciarne qui un’immagine succinta che basti a dimostrare la disgraziata vanità e l’eresia di questo ibrido intrigo.

Incomincerò con una interrogazione in accento di elegia: dov’è, in questo Epistolario, l’affascinante Pensiero del quale noi tre donne ci innamorammo, e dov’è, almeno, la cara, celebrata figura del cugino Edoardo quale tutti la conobbero in vita? Assai di rado essa si lascia intravvedere in queste lettere: e quando vi s’affaccia, ha la forma d’un’ombra piangente, e bisognosa di pietà. Poiché il finto cugino, mandatario delle lettere, si presume un convalescente sempre in viaggio, lo scrivente data i propri messaggi dalle più famose e diverse città della terra, e descrive se stesso come uno sfavillante, fantastico viaggiatore. Ma invece, si direbbe quasi, a una approfondita lettura, ch’egli è un povero prigioniero impedito dal suo carceriere maligno a scrivere ai propri cari se non artificiosi messaggi; nei quali gli riesce tuttavia, a dispetto del carceriere, d’insinuare talvolta di sotterfugio una verace allusione inavvertita, quasi un’eco dei propri lamenti.

Come vi dicevo, quasi ogni lettera è datata da una città diversa, e per lo più, nell’esordio, l’errante mandatario s’indugia a parlare del suo nuovo soggiorno. Una lettera per esempio incomincia: Cara Cugina, ti scrivo da Parigi, la «Ville Lumière» dei folli carnevali, la Babilonia d’Occidente, sentina di tutti i vizi e vertice di tutti i trionfi mondani..., e un’altra: Anna! eccomi a Costantinopoli, regno delle Mille e una notte, nido opulento di favorite e di vizir..., e una terza: Oh, mia sposa, come descriverti questa metropoli indiana, tenebroso connubio di fasto e di degradazione..., e via di seguito. Da detti esordi, avrete potuto già farvi un’idea dello stile di questo carteggio.

Tuttavia, se un tale stile conserva il proprio carattere goffo e comune durante tutto il resto della lettera, le precisazioni geografiche dell’esordio (tutte della razza di quelle su citate), valgono invece, a quanto sembra, soltanto come un fittizio avvio, un motivo convenzionale utile ad intonare la composizione stravagante. Nel seguito della lettera, infatti, le singole città descritte dal viaggiatore come suo presente soggiorno, si spogliano degli attributi particolari a ciascuna, famosi da secoli, e abusati, di cui, come d’un manto propiziatorio, si coprivano nell’esordio. E pur serbando i soliti nomi presi in prestito dall’Atlante, in realtà, così come ce le mostra il viaggiatore, non somigliano per nulla, non dico alle loro omonime, ma a nessuna città ritrovabile sulla sfera terrestre; e il finto viaggiatore svela, nel descriverle, una selvaggia ignoranza della storia e della geografia. Pur figurando, come s’è visto, su diverse, e magari opposte, latitudini, le sue città si rassomigliano tutte: sì da apparir quasi, infine, un’unica metropoli stesa per tutto il globo, voglio dire per quella parte del globo cui si dà il nome di Estero. È inutile soffermarsi sugli inverosimili particolari di questa oscura Babilonia. Basti dire che in essa il teatro, i fuochi e la gioielleria d’Oriente s’incontrano col macchinoso tumulto occidentale; a un aureo brulichio di terrazze merlate, di pinnacoli e di guglie s’alternano panorami di cemento e d’acciaio. E il medioevo germanico leva le sue tetre, mistiche architetture fra le grandi sabbie e i mari africani.

La folla sregolata che pullula fra queste mura si distingue, sembra, per una triste indolenza accoppiata a un’arida ferocia. E i pochissimi eletti (fra cui s’annovera lo scrivente in primo luogo), vi godono privilegi addirittura disumani, di contro all’innumerevole stirpe dei paria che esiste solo per adorarli.

La forma di governo ivi trionfante è certo (sebbene lo scrivente non precisi nulla in proposito), la monarchia assoluta. Vengon citati senza risparmio, infatti, imperatori, sultani, re e regine coi quali, a ciò che sembra, il viaggiatore è in grande confidenza, anzi familiarità. Purtroppo, non risulta dalle lettere che questi coronati amici del viaggiatore siano docili e gentili coi loro soggetti come lo sono con lui. Al contrario, le loro imprese, celebrate e vantate dal finto cugino, convertirebbero alla repubblica, se fossero documentate, anche i monarchici più accaniti.

Si direbbe che per il viaggiatore e per i suoi re il più delizioso privilegio del potere sia la profanazione e l’ingiustizia, e l’onore di un sovrano si misuri col numero delle sue vittime. Or la cosa più triste è che il finto viaggiatore, proclamato sposo di Anna, si vanta di partecipare a simili esercizi di sovranità dei suoi regali anfitrioni, e ciò, a sentirlo, non senza suo piacere e gloria.

A una malvagità così stolta il viaggiatore fantastico accoppia una civetteria, e una compiacenza di se stesso che sarebbe irritante pure in una cortigiana di mestiere nonché in un fortunoso giovane nobiluomo. Ora, noi non ignoriamo che nostro cugino Edoardo era un giovinetto piuttosto vanesio; ma la sua affettuosa vanità, non meno della sua delicata cattiveria somigliano ai corrispondenti attributi del fantastico viaggiatore nella stessa misura che un gattino appena svezzato, il cui sottile e trepido miagolio imita gli accordi d’una viola d’amore, somiglia a una ruggente tigre adulta, o ad una iena.

E a questo proposito, giova notare che, sebbene il finto cugino dichiari alla sua destinataria un amore iperbolico, in realtà la sua corrispondenza farebbe pensare ch’egli ama solo se stesso. E si ama in un modo che al suo confronto Narciso, morto per folle adorazione di sé, era un tiepido amante. Il povero Narciso, infatti, morì consunto dalla propria passione: il suo fu, infine, il dramma d’un amore infelice. Ma il nostro viaggiatore, invece, non si consuma, al contrario, si nutre della propria passione idolatra ed è ghiotto di questo suo cibo insolito in un modo così selvaggio e inverecondo che si arderebbe dalla voglia di mortificarlo, magari sfregiandolo nelle sue beltà, per esempio tagliandogli il naso; se non ci si ricordasse a tempo che, per fortuna, il nostro viaggiatore non esiste. È un fatto che re Salomone non volse alla regina di Saba neppure la decima parte dei complimenti che questo adoratore fanatico volge alla grazia sua propria. Egli contempla le proprie bellezze ad una ad una, poi nei loro reciproci accordi, poi nel loro insieme, poi nei loro singoli accordi coi vari colori dell’iride e con le eleganze della moda. E si perde in queste inesauribili contemplazioni come in un labirinto. In una lettera, egli confida di aver trascorso l’intera notte a piangere e a lamentarsi di solitudine, per essere capitato in una camera d’albergo priva di specchi.

Il peccaminoso gusto per argomenti cosiffatti è, nel caso del nostro mandatario, un segno di singolare malizia: giacché si capisce che la descrizione di tante bellezze erranti e inafferrabili dovesse rendere più acerba l’attesa della destinataria. Osserviamo inoltre che, per cantare le proprie laudi, egli sa provvedersi d’uno stile, sebbene spudorato fino al disgusto, però eloquente e amoroso; mentre che, per dichiarare amore alla destinataria, il suo vocabolario, salvo qualche eccezione, è così dozzinale e stantìo da sembrar copiato sul Segretario galante.

Infine, quali soddisfazioni, quali ricompense promette ad Anna, in cambio della sua dedizione, questo cicisbeo scomunicato? Ecco: sovente, egli le annuncia il proprio ritorno prossimo, e le descrive la lor futura casa nuziale. La quale, guardando a queste descrizioni, meriterebbe il nome di reggia. E si direbbe inventata dalla cupa malinconia germanica perché la gelosia meridionale vi elegga la propria dimora. Il finto cugino afferma ch’essa è costruita in luogo alto e inaccessibile; ma poi ce ne dà un quadro tale, che la nostra mente si raffigura piuttosto una magione sotterranea. La sua qualità precipua, vantata con vero accanimento dal cugino, è, a quanto pare, l’aver essa tutti i muri chiusi, e quindi nessuna uscita e nessuna comunicazione col di fuori. Si deve forse intendere che neppure le luci naturali del cielo hanno il diritto di penetrarvi: difatti, il cugino parla con gran pompa di fiaccole, di candelabri, di lampadari, e di tutti gli artifici delle tenebre, senza mai ricordare gli astri del giorno e della notte. Descrive gran numero di saloni, d’aule, di navate e di alcove e non fa cenno di nessun giardino, o altana o terrazza, di nessun luogo, insomma, posto sotto il cielo aperto. E mentre per tutte le sue stanze è grande sfolgorio di diamanti, di rubini e d’altre gemme e pietre egli bandisce da sé, o trascura, le piante, i fiori, e ogni altra bellezza germogliante alla luce. Anche gli animali sono assenti nel palazzo: ad eccezione dei cavalli, che il cugino accoglie in gran numero, e conosce per nome uno ad uno. Ma veramente, per quanto il padrone esalti le loro stalle principesche, e le loro magnifiche bardature, si ha compassione di questi eleganti corsieri, destinati a consumare i loro giorni innocenti dentro un palazzo murato.

Tale è l’abitazione dove, senza temer più di fughe, separazioni, abbandoni e tradimenti, i due cugini amanti vivranno in solitudine e in clausura. Nessun parente o amico, ci è dato supporre, potrà visitare la loro casa. E si direbbe che, per gelosia, ciascuno dei due rinchiusi voglia esser l’unica persona amabile e bella su cui l’altro può posare gli occhi. Difatti, lo scrivente accenna agli altri abitanti della sua casa, e cioè famigli, servi, staffieri, come a personaggi truci, animaleschi, i cui nomi o nomignoli, citati qua e là nelle lettere, suonano degradazione e spregio, e non somigliano ad alcun appellativo umano.

Le lettere annunciano simile soggiorno come un premio, quasi che solo in un’abitazione cosiffatta l’invidioso amore conceda agli amanti trionfo e pace. Ma viene il sospetto che, in luogo di una sposa amata, il mandatario voglia una specie di sacerdotessa il cui solo còmpito sia di adorare le bellezze di lui sposo. E che, per attirare la propria vittima, egli usi fra i molti artifici la corruzione, sfoggiando gli ori, le gemme e gli altri splendori minerali dei quali Anna è tanto ghiotta. Questa parte della corrispondenza somiglia più d’ogni altra a un gioco istrionico; ed esala una grottesca romanticheria, per nulla conforme ai gusti del vero Edoardo. Anche qui, vien fatto di chiedere: «dove sei tu, gentile cugino? Certo non può piacere a te, o giovane spensierato, la tenebrosa signoria che ti riserbano queste lettere. Forse, il palazzo di cui, secondo questi trionfanti messaggi, tu saresti il padrone, è in realtà il tuo carcere. E ci par quasi di scorgere, in fondo a quelle stanze murate, il tuo sembiante lagrimoso».

Dove sei, cugino? or ecco, mentre ripetevamo questa sconsolata domanda, si scopre, leggendo, una frase nella quale il Cugino, o Pensiero, innamorato è senza dubbi riconoscibile. Vi ho già detto che talora il tristo Epistolario ci riserba simili fortune. Ma in questi casi, la doppia ispirazione di Edoardo e d’Anna, commista in romantiche forme, suggerisce al mandatario dei modi così patetici. Così acuti e presenti sono i sospiri segnati su queste carte con un inchiostro sbiadito che la riverenza dovuta agli amanti ci invita a ritrarci con discrezione.

Basta: nel seguito del mio racconto dovrò soffermarmi di nuovo sul contenuto del carteggio. Per adesso, avanti di chiudere questo capitolo, basterà accennare alle bizzarre volontà del finto cugino, o viaggiatore incorporeo. Or con un linguaggio delicato, scrupoloso come quello d’un pio confessore che impartisce la penitenza a una giovinetta novizia; ed or con un piglio sfacciato e triviale, egli non esita a consigliare alla destinataria ogni sorta di dannazioni e di vergogne; e ciò con una curiosa semplicità, come se le azioni da lui consigliate non fossero colpe, ma doveri, o, addirittura, meriti. Ad esempio, egli esorta la cugina a finirla, a raggiungerlo, a rendersi tosto sua pari; come se ciò non significasse morire ma equivalesse a un travestimento o ad una commedia. Altrove, accusando i tormenti della gelosia per esser Anna una donna maritata, la consiglia a liberarsi dal marito.

Ma, bisogna aggiungere, questo suggerimento criminoso appare di rado nelle lettere, e sempre in aspetto velato e subdolo, come se ad Anna mancasse il coraggio finanche di trascrivere simili dettami. Per quel che riguarda, poi, la gelosia del mandatario e la parte di Francesco nelle lettere, avremo presto occasione di riparlarne.

Più spesso, invece, il finto cugino ordina ad Anna dei sacrifici crudeli e astrusi, non molto diversi da quelli che vengono compiuti per idolatria fra le tribù dei barbari: e infatti, solo una stolta barbarie può giungere a tanta fanciullaggine e odio di sé. Egli le ordina, per esempio, di ferirsi una palma, e di scrivere col proprio sangue i loro due nomi uniti; e poi di tener sempre celato in petto lo scritto, come usano le devote con l’abitino delle sante.

Oppure, le impone di bruciarsi con un ferro da ricci il petto fra le due mammelle, così che non le sia più concesso di mostrarsi troppo scollata. Ancora, le ordina digiuni, e lunghe adorazioni inginocchiata in terra, e spossanti pellegrinaggi ai luoghi dei loro amori: alla guisa d’una divinità vanesia e capricciosa.

Questi sacrifici, nell’espressa intenzione del cugino, valgono come prove d’amore, o come penitenza o riscatto di non so quali offese ch’egli lamenta da parte di lei.

Non posso dire con certezza quanti di essi ne compì fedelmente, e quanti altri si apprestasse a compierne la barbara devota. Di uno, però, forse uno dei più amari, so dire con certezza che fu compiuto: e di questo, d’altronde, l’effetto, se non l’intenzione, si manifestò allora agli occhi di tutti.