Capitolo primo
Entra in scena il butterato
Incominciano le sue millanterie
Lo sconosciuto giovane bruno, di cui più sopra s’è detto, era la prima persona che Edoardo riceveva dopo la malattia. Da qualche giorno, egli aveva lasciato il letto per la poltrona, dove rimaneva semidisteso, il capo appoggiato allo schienale. Ogni tanto, si scompigliava distrattamente le ciocche con le dita assottigliate da lunghi mesi di febbre; oppure dondolava il piede infilato nella pantofola; ma perfino questi semplici movimenti lo stancavano. Più volte, nei giorni precedenti, aveva tentato di levarsi, e s’era spinto fino allo specchio, dove la sua figura smagrita, dagli occhi incupiti e fantastici, gli era sembrata quasi estranea; ma subito gli eran venute meno le forze, ed era ricaduto sulla poltrona, in preda a nausea e a capogiro. I languori della convalescenza s’alternavano in lui con una avidità nervosa di muoversi e di vivere: da ciò derivavano i suoi bizzarri, capricciosi umori. Oppresso dalla noia, ora egli esigeva la compagnia di sua madre o di sua sorella, ed ora, per un desiderio improvviso di solitudine, la scacciava. Oppure chiedeva che gli si leggesse un libro ad alta voce; e d’un tratto interrompeva con dispetto il compiacente lettore, accusandolo d’avere la voce monotona, o dichiarando il libro noioso e stupido. A volte, la gioia di sapersi guarito gli gonfiava il cuore: pensava al mondo, ai viaggi, alle avventure, a tutto ciò che la vita e la salute offrivano ad un giovane suo pari. Ma allora una tale impazienza lo prendeva di strapparsi da quella poltrona, da quella camera, che la primitiva esaltazione cedeva all’esasperata tristezza del suo stato presente. Per la prima volta nella sua breve esistenza si sentiva debole e schiavo, e non poteva far legge della propria volontà. Da ciò derivava che la sua spensieratezza di certi momenti si trasmutasse d’improvviso in una smania iraconda, tale da spingerlo a gesti violenti contro l’infermiera, o contro i familiari che lo assistevano. Spesso il suo volto consunto, nell’atto stesso d’abbandonarsi con l’antico fervore ad una affettuosa risata, d’un tratto s’oscurava, ed egli insultava senza motivo l’interlocutore e gridava: – Perché mi state sempre intorno? Lasciatemi in pace! Via! via! – Per distrarlo, sua madre aveva fatto trasportare il pianoforte nella sua camera, e spesso sua sorella gli suonava le musiche da lui preferite. Ciò lo consolava talvolta, ma in altri momenti gli accresceva invece l’insofferenza e l’ansia. Infatti, la musica non sempre liberava l’immaginazione di lui dall’ingombro degli oggetti reali e dal desiderio; ma, al contrario, dipingeva sovente alla sua mente fantastica quei moti e quelle vicende che gli erano ancora proibiti.
Inoltre, non di rado, invece di ringraziare la povera Augusta, egli criticava beffardamente il suo stile di pianista, e la accusava di suonare come un’educanda, rendendo incolore ogni nota. Smaniava di suonare egli stesso, ma gliene mancava la forza: come pure s’illudeva talora di poter comporre dei versi, o della musica, o dipingere, al modo che soleva prima della malattia; ma il fervore della sua mente era fatto sterile dalla sua debolezza fisica, ed egli con disgusto rinunciava al tentativo di cui s’era per un poco illuso. I medici gli vietavano tuttora di ricevere visite di estranei, temendo d’affaticarlo; e d’altra parte egli non desiderava vedere nessuno dei vecchi amici.
L’estate della sua malattia, nella memoria, gli appariva quale un passaggio infocato e nero, popolato di simulacri e di voci incoerenti. In questa nera valle gli pareva d’aver seppellito tutto il suo passato, tutta l’adolescenza: voleva cose nuove ed ignote e rifiutava le parvenze già care come le maschere d’uno spettacolo che si conosce a memoria e non interessa più. Nella malattia, gli erano balenati innanzi personaggi strani, nati dalla febbre, ma pieni di vita e di dolore. Gli pareva che adesso, mentr’egli guariva troppo lentamente, costoro attraversassero le piazze, le vie della città in attesa d’incontrarsi con lui. Ma lui mancava al convegno, ed essi dileguavano verso altre città, nate, come loro, dalla febbre: in una torrida luce di tempesta, che esaltava gli oggetti e li faceva desiderabili e rari. Delle figure di amanti gli apparivano in questa luce: fanciulle docili e opulente, che piegavano il capo verso di lui raccogliendo nella mano il peso delle loro trecce. Quali preziose trecce d’oro! Nessuna fanciulla da lui conosciuta poteva gareggiare con queste bellezze della sua fantasia.
Così egli passava i giorni della convalescenza, agitato fra il disprezzo della vita già trascorsa e la brama di vivere: non pago dei soli piaceri dell’immaginazione, ma insieme avvertito che la realtà non avrebbe mai potuto uguagliare in ricchezza i languidi sogni. Forse, il nostro irrequieto personaggio, toccando, in quei mesi estivi, la soglia della morte, aveva intravisto i luoghi e popoli miracolosi che si crede ci attendano laggiù. E adesso, pur senza saperlo, era la loro ombra ch’egli cercava avidamente intorno; e continuamente, nei suoi disegni per il domani, rievocava la loro bellezza a confronto.
Il tempo assecondava questi capricci della memoria: da più giorni il sole era scomparso, ma l’aria uniforme e torbida era ancor pesante d’afa. Le piogge tardavano, e i colori delle foglie, arancione e rosso ardente, i grandi fiori autunnali, sembravano i segni d’un’estate più amara e ombrosa. La mente appassionata non ha pace in simili giorni, scossa dai desideri e dai presagi. Nell’aria stagnante e cupa, essa attende, per liberarsi e fuggire al largo, il tempestoso vento dell’autunno.
In quel pomeriggio, l’umore d’Edoardo era più del solito volubile. La sua salute andava assai meglio: dopo aver mangiato con appetito, egli aveva potuto muovere qualche passo per la camera e si era spinto fino alla terrazza che dava sul giardino. Ciò gli aveva restituito una gioiosa fiducia nelle sue forze. Egli progettava amori, viaggi e feste assolutamente nuovi e sconosciuti fin qui; e nel parlare del proprio futuro, guardava il letto nel quale aveva tanto sudato e delirato con uno sguardo di vittoriosa riscossa. «Non sono più tuo prigioniero, – pareva dire a quel letto odiato, – per tanto tempo sono stato legato a te, ma adesso l’incantesimo è finito, sono guarito, sono libero!»
Concetta, fedele guardiana della convalescenza di lui, divideva quella felicità. Ma il troppo orgoglio di suo figlio la spaventava: ella era certa di dovere la guarigione di lui soprattutto alle proprie preghiere. Durante la malattia di Edoardo, non un sol giorno ella aveva trascurato di levarsi alle cinque per correre alla prima Messa. I più fastosi gioielli del suo scrigno, li aveva sacrificati per offrirli in voto agli Altari. In tutte le chiese della città bruciavano i ceri offerti da lei, dovunque si erano celebrate Messe per la salute del giovane amato; e dovunque si cantavano, adesso, Te Deum di ringraziamento. Ella aveva cucito, all’insaputa del figlio, dentro la fodera del materasso e del guanciale di lui come pure nascosti negli orli delle sue coperte e camicie, dei quadratini si stoffa in cornici di merletto (lavoro delle suore), che portavano stampate o dipinte delle sante immagini. E al collo smagrito e bruciante del malato aveva appeso la catenina d’oro con la medaglia del battesimo, ch’egli, ancor bambino, nella sua precoce empietà, si era rifiutato di portare, considerandola un gingillo da femmine. I santi e le sante più potenti e illustri della schiera celeste, tutti avevano ricevuto il supplice omaggio di Concetta. Ed ora, ricevuta la grazia, non essendo più costretta al capezzale del malato per tutte le ore del giorno e della notte, ella si concedeva dei pellegrinaggi quotidiani alle dimore dei suoi Santi. Superba del proprio sacro còmpito, si faceva condurre dalla carrozza a questa o quella chiesa, chinando pigramente la testa, durante il percorso, per rispondere ai saluti servili dei cittadini. Avanzando per le ricche sale, per le navate semibuie delle dimore celesti, ella si dirigeva verso l’Altar Maggiore, disdegnando guardare gli umili devoti inginocchiati qua e là: così l’amico prediletto di un re si accosterebbe al trono fra la folla invidiosa dei cortigiani. Se qualcuno, giunto prima di lei, s’era inginocchiato al grande inginocchiatoio centrale di fronte all’Altar Maggiore, la cameriera che sempre accompagnava Concetta s’accostava in fretta all’audace e gli bisbigliava nell’orecchio l’illustre nome della sua signora: e colui, premuroso, s’affrettava a lasciar libero il posto. Infine, Concetta era in cospetto del Trono, inginocchiata come prescrive il cerimoniale della corte celeste. Un senso di potenza, di regale confidenza e di privilegio le dilatava il cuore. Con gli occhi ardenti, neri come il carbone in quel suo bianco viso da monaca, ella contemplava le fiamme dell’altare che bruciavano in suo nome, gli aurei voti con sopra inciso il suo stemma, i preziosi calici, le tovaglie ricamate offerte da lei. In virtù del suo rango e dei suoi doni, ella era certa di meritare il posto d’onore in quelle belle camere angeliche. Ma, simile ad una donna fedele che si vale della amicizia del re per sollecitare un favore al proprio sposo, Concetta invocava la grazia celeste non per sé, ma per Edoardo. L’empietà del figlio la faceva tremare; ma pure ella confidava di riscattarla con la propria devozione. Non era forse, Edoardo, una parte di lei stessa, il tesoro della sua carne? Il Signore non ignorava che, usando severità contro Edoardo, avrebbe colpito a morte la Sua devota. La guarigione d’Edoardo era una prova di questa intelligente misericordia del Cielo: essa aveva accresciuto non solo la gratitudine, ma la fierezza nel cuore di lei. Più fervente, più estatica ella si prostrava ai piedi del suo Re; mai troppo ricche le parevano le proprie offerte, mai troppe le preghiere. La sua trepidazione per il figlio non era spenta; ma allorché si trovava in cospetto dell’altare, un senso di piena, intima corrispondenza col suo Re la spogliava d’ogni paura. Nei suoi vestiti negletti, ella splendeva di vanità per l’eleganza magnifica dell’altare; ma quei fuochi e ori, quei fumi orientali, quelle voci mistiche un solo nome esaltavano: Edoardo. Su di un solo invocavano le grazie: su Edoardo. Concetta non avrebbe dubitato della giustizia divina se tutto il resto del gregge fosse dimenticato o annientato. La graziosa persona di suo figlio, i privilegi della sorte, l’invidia delle madri, erano i chiari effetti d’una legge scritta in Cielo: la quale sanciva l’orgoglio dei favoriti, e il loro disprezzo verso gli altri.
Ma Edoardo, tornatagli appena la ragione, subito s’era tolto con fastidio la catenina del battesimo, dicendo di non sopportare quel peso; e con un sorriso beffardo l’aveva restituita a sua madre. Questa, fattasi il segno della croce, aveva baciato la medaglia benedetta e se l’era appesa lei stessa al collo, sperando così di meritare al figlio il perdono per l’oltraggio recato ai Beati. D’altra parte, Edoardo ignorava la presenza delle piccole immagini celate fra i materassi e i guanciali; sua madre, infatti, le aveva cucite nei punti più nascosti, mentre il figlio dormiva o non era in sé. Ella si lodava adesso del proprio accorgimento, grazie al quale il figlio, senza neppur sospettarlo, sarebbe da quelle sante immagini custodito e protetto.
In quel pomeriggio, mentre Edoardo vantava i propri disegni per il futuro, la vittoriosa gioia di Concetta si mescolò d’un timor sacro. Allora, con tono appassionato e ieratico, ella incitò il figlio a non dimenticare la gratitudine dovuta ai Santi, primi artefici della sua guarigione. Ma Edoardo, col tono di confidenza a cui sua madre lo aveva avvezzato fin da bambino, incominciò a ridere di lei, trattandola da folle e da illusa. E sempre più godendo di provocarla, prese a farsi gioco dei santi da lei venerati e dei loro illustri nomi. Ella inorridiva a tante bestemmie, e supplicava il figlio di tacere; ma ciò pareva esilarare al sommo quell’incredulo. Il quale spinse la propria spavalda empietà fino a gettare una sfida alle schiere celesti: – Io non credo a voi! – esclamò, rivolto agli spiriti invisibili, – giuro che sono guarito perché così è piaciuto a me. Presentatevi, dunque, se osate, presentatevi a contraddirmi! Ah, nessuno si fa avanti! Avete dunque paura? – ed egli rideva allegramente, come per un gioco, pur sapendo di gettare su Concetta lo scandalo e lo spavento. In lei si accese alla fine un’ira accusatrice. E singhiozzando forte, ella rampognò acerbamente suo figlio. Il quale, imbronciato, le rispose d’andarsene dunque dai suoi santi, e di lasciarlo solo: ché simili scene lo stancavano, e gli facevano ritornare la febbre. Così dicendo, egli prese dalla vicina tavola uno specchio per osservare i segni della malattia sul proprio viso che rifioriva lentamente. Intanto sua madre, nel timore d’infastidirlo, si placava e di nascosto balbettava il rosario, celando sotto le ampie maniche la corona. Il vedersi ancora così scarno, con gli occhi cerchiati, rattristò Edoardo. – Come sono diventato brutto, – egli disse.
Queste parole suonarono al cuore di sua madre non meno ampie delle bestemmie di poco prima. – Brutto! – ella esclamò con una sorta di ferocia nella voce ancora commossa dal pianto. E scuotendo il capo soggiunse:
–Tu sei più bello di prima, Edoardo mio. Credi alla tua mamma –. Con ciò, ella intese esprimere la propria amorosa intenzione di suggellare la pace; i suoi neri occhi ancor umidi volsero al figlio lo stesso sguardo col quale, in chiesa, contemplavano il Tabernacolo. – Brutto! – ella ripeté, uscendo in un riso fresco e giovanile, quasi a confondere l’eresia pronunciata dalla sua stessa bocca.
E accostatasi al figlio, con la voce cantante, morbida, propria alle donne del Mezzogiorno quando parlano d’amore, prese a lodare la bellezza di lui, chiamandolo la passione di tutte le donne, il tesoro di sua madre, il più bello della città. Poi, serrandogli con impeto le due guance, e baciandolo sulle labbra, esclamò rapita: – È guarito, è guarito il reuccio della casa, è guarito il mio bel signore, l’angelo di sua madre, il mio bambino, il mio piccolino –. Ridendo, Edoardo le fece notare che non era più un bambino, era ormai grande; ma pur contraddicendola in tal modo, volentieri egli si piegava a quei complimenti, a quei baci. Infatti, era carezzevole per sua natura, e adesso, indebolito dalla malattia, tanto più sentiva il desiderio delle blandizie. Mentre rideva di sua madre, egli la cingeva tuttavia con le braccia, baciandole a sua volta il viso sfiorito; e nello stesso tempo, secondo una scherzosa abitudine della sua fanciullezza, le strappava ad una ad una le forcine dai capelli. Un tale scherzo, in altri tempi, soleva provocare l’ira di lei; ma stavolta, come la bella capigliatura ormai grigia le si sciolse sulle spalle, ella sospirò beata. Le era avvenuto infatti, mentre il figlio giaceva in preda alla febbre, di ricordare quel gesto di lui; e allora, le aveva stretto il cuore un tale rimorso per i propri passati rimproveri, e un tale rimpianto, che oggi le pareva un privilegio miracoloso il sottoporsi all’antico, affettuoso dispetto.
Finse tuttavia di minacciare suo figlio; ma subito dopo si abbandonò ad un riso estatico chiamando il suo diletto coi più teneri nomi. Ed egli da parte sua, confondendo e lisciando con le dita le chiome materne, ripeteva: – Che bei capelli ha questa signora. Che bella testolina d’argento.
Suonò in quel punto la prima campana dei vespri; ed ella in fretta si rialzò i capelli dinanzi all’alta specchiera.
Di sull’uscio, con autoritaria passione, rivolse al figlio ancora varî ammonimenti riguardo alle medicine da prendere, alle prescrizioni da seguire mentr’ella era fuori. Ma egli, già stanco delle attenzioni di lei, la interruppe dicendole: – Addio, Concetta –. Fin dall’infanzia, talvolta si divertiva a chiamarla, invece che mamma, per nome, sapendo che ciò la indispettiva. Stavolta, però, ella rispose con un cenno ridente a quel saluto del figlio; e disparve.
Uscendo, e montando in carrozza, ella vagheggiava fra sé un pensiero comune a tutte le donne, popolane o signore: e cioè, che per la madre un figlio è sempre bambino. Del resto, nel corso di quella malattia, non aveva ella dovuto nutrirlo con le sue stesse mani come quando, nei suoi primissimi anni, egli rifiutava d’accettare il cibo da altri che da lei? In quell’estate, ora declinante, Edoardo era stato di nuovo suo come in tempi remoti, sebbene ella dovesse, di minuto in minuto, contenderlo alla morte.
Se ella s’allontanava un momento dal suo capezzale, il malato anche nel delirio la cercava, ed ella accorreva, trionfante pur nell’angoscia. Debole, smarrito, egli aveva rimesso ogni sua volontà nelle mani di sua madre: in quella camera, ella era la padrona e la regina. Era lei che riceveva le lettere dirette al figlio, e ne scriveva le risposte; era lei che accoglieva o rimandava le visite. Nessuno poteva contestarle questo diritto. Idolatra e feroce, ella vegliava su colui che era suo. Se una domestica, al piano di sopra, lasciava cadere un oggetto, sì che il lieve rumore della caduta s’avvertiva nella camera d’Edoardo, la sciagurata doveva fare i conti con le furie della signora.
Tutti nella casa dovevano parlare sottovoce, e camminare sulla punta dei piedi. E le altre donne di fuori, le amiche d’Edoardo, per aver notizie di lui si rivolgevano alla madre, cui s’appressavano con una riverenza, trepidanti ed umili, dolendosi con lei se egli stava male, festeggiandola se egli migliorava. Esse le erano grate della sua degnazione, giacché sapevano che l’amato infermo apparteneva soltanto a lei. Ah, se adesso che il pericolo era scomparso, ella ripensava a quell’estate dolorosa, doveva riconoscere che non era passata senza gloria!
Così pensando, ella procedeva distratta nella carrozza; fu allora che sfiorò quasi con le ruote la sua nemica, Anna, la rivale ch’ella aveva più di tutte odiata, colei che non aveva osato presentarsi alla madre d’Edoardo per chiederle notizie di lui. Concetta non si accorse, però, di Anna. Pochi minuti dopo, la fanciulla ritirava dalle mani del domestico la lettera d’Edoardo.
Il cugino aveva scritto tale lettera un paio di giorni avanti e dopo averla suggellata l’aveva affidata al servo, con l’ordine di consegnarla alla signorina non appena questa ritornasse. Egli non ignorava, come abbiam visto, che sua cugina era venuta a chieder di lui più d’una volta: certo ella non aveva potuto resistere all’angoscia, malgrado le molteplici ragioni che le precludevano l’ingresso a quella casa. Edoardo aveva appreso la notizia delle sue visite con indifferenza. La sua passione per la cugina gli pareva, a ripensarla, come certi luoghi abitati nell’infanzia, che giudicavamo sterminati; ma quando, fattici adulti, vi ritorniamo, si rivelano invece angusti, per cui chiediamo stupiti: «Era tutto qui?» Quell’amore apparteneva, come tante altre cose, a un’altra età: egli lo ripudiava. Gli pareva strano che, da parte sua, la cugina non comprendesse com’egli era cambiato; e quando si decise a scriverle, usò con intenzione quello stile spietato e gelido: «Deve convincersi, – pensava, – che tutto è finito, la mia lettera deve ferirla a morte». La lettera fu avviata dunque alla sua missione; ma subito dopo, Edoardo incominciò a pensare alla sua destinataria con una specie di curiosità e di ardore scevro di rimorso. La lettera verrebbe consegnata, egli non pensava affatto a ritirarla: essa era lo strumento del Fato, e il Fato era lui stesso. Un tal pensiero, ancora adesso, gli dava un piacere profondo: non fatuo, ma grave, misterioso, quale proverebbe un tiranno disponendo a proprio arbitrio delle vite dei sudditi. Egli immaginava l’orgoglioso volto di sua cugina insultato dalle fredde informazioni del servo; vedeva quei denti minuti mordere le labbra per contenere il pianto e le grida; e quell’alta, fragile persona allontanarsi di corsa per le vie traverse meno frequentate, cercando di nascondere se stessa e la propria umiliazione. Insieme all’amore, ogni sospetto geloso era svanito dal cuore d’Edoardo: non v’era dubbio, sua cugina lo amava tanto da non curarsi d’altro al mondo. Egli sapeva di avere la sorte di lei nelle proprie mani, tanto che, per esempio, sarebbe dipeso, adesso, da lui solo, trasformare, se gli piaceva, la presente disperazione della fanciulla in una inaspettata felicità. E si figurava di salire, appena guarito, allo squallido appartamento dov’ella si consumava. Ella stessa gli avrebbe, secondo il solito, aperto l’uscio; ed egli le avrebbe detto d’esser venuto per ammonirla a voce, e ribadire quanto forse non le aveva spiegato abbastanza chiaramente per lettera. Dunque: si guardasse bene, Anna, per l’avvenire, dal presentarsi al Palazzo per nessuna ragione al mondo: ella sapeva quanto simili vite fossero inopportune e inutili.
D’altra parte, fra loro due tutto era finito, egli era venuto a dichiararglielo per l’ultima volta. La consigliava a non cercare mai più di lui, con nessun mezzo; si persuadesse che egli, per lei, non esisteva più. Tutto ciò le avrebbe detto con accento ostile ed arido; e dopo averla vista ripiegarsi esangue e senza voce, d’un tratto l’avrebbe abbracciata, mescolando i baci a un riso pazzo. Gli parve d’avere già in bocca il sapore salato delle lagrime di lei, di mirare quegli occhi magici e interrogativi: «Invece tutto ciò non sarà mai, – si disse, – perché non l’amo».
Mentre così egli fantasticava, il garzone che s’è detto venne a portargli un biglietto da visita di cartone ordinario, ma stampato a caratteri vistosi e svolazzanti. Il signorino che si presentava con quel biglietto, spiegò il garzone, chiedeva quando il padrone potesse riceverlo, e aspettava in anticamera la risposta. Egli disse il signorino, ma con un’aria piuttosto beffarda: evidentemente nel suo giudizio i signorini erano ben diversi da colui. Sul biglietto si leggeva la scritta: Barone Francesco de Salvi, sormontata da una minuscola corona. Edoardo non conosceva questo barone e non aveva mai sentito nominare la sua casata. Perciò l’avventurosa curiosità dell’ignoto, ravvivata in lui dalla malattia, lo spinse a ricevere subito quel personaggio.
Poiché il crepuscolo autunnale scendeva veloce, il garzone che introdusse lo sconosciuto recava un lume, che lasciò sulla tavola presso Edoardo. Questi si sollevò un poco dalla poltrona, e posando sul visitatore uno sguardo incuriosito e contento si scusò per esser costretto a riceverlo in camera. Quindi gli tese la mano, che l’altro strinse timidamente.
Era un giovane robusto, che doveva aver da poco passato i vent’anni. I tratti del suo viso erano d’un disegno bello e regolare, ma corrosi e deturpati da fitte cicatrici del vaiolo. In tale viso dalla fronte alta, d’un pallore bruno, ardevano i neri occhi intelligenti e melanconici. I capelli, come già s’è detto, erano ricciuti e nerissimi.
Quanto al vestito, esso appariva liso e stinto, sebbene fin troppo rigidamente stirato. La goffaggine del taglio tradiva il sarto paesano; e una cravatta di poco prezzo ma dai colori chiassosi rivelava, congiunto al cattivo gusto, il desiderio d’un’eleganza appariscente. Essa era fermata da una spilla di metallo comune foggiata in forma di R maiuscola, e adorna di finte perle.
Coi suoi occhi vellutati, cinti di ciglia lunghe e morbide, il giovane sogguardava or qua or là i ricchi oggetti che lo circondavano; e metteva in quello sguardo una specie d’insulto o di sfida. In tono quasi minaccioso si affrettò a spiegare il motivo della sua visita: egli desiderava, disse, d’aver notizie o almeno l’attuale indirizzo d’un certo Nicola Monaco, il quale un tempo aveva recapito qui nel palazzo. Chiedeva scusa per il disturbo, soggiunse, ma aveva preferito interrogare il padrone, anziché informarsi presso la servitù, trattandosi di cosa riservata.
Aveva detto un certo Nicola Monaco, ma si capiva che nella sua considerazione il personaggio da lui nominato doveva tenere un altissimo posto. Se lo aveva chiamato un certo, era solo per mascherare con un finto disdegno l’alta opinione appunto ch’egli ne aveva, opinione, del resto, ch’egli doveva ritener condivisa da molti. Inoltre, malgrado il suo modo aggressivo, egli aveva cura di parlare preciso e ricercato, non senza una lieve ostentazione. Ma pur nel suo semplice discorso, si confuse e s’inceppò più d’una volta, e ciò parve irritarlo al punto che i suoi occhi divennero cupi.
Un tale visitatore, che il caso aveva condotto a Edoardo, faceva pensare a un uccello selvatico portato dal vento in una camera cittadina, dove langue un fanciullo malaticcio. Pieno di meraviglia, questi accoglie la strana, alata fiera. Essa, non avvezza al chiuso, batte goffamente le ali, e vorrebbe subito fuggire; ma nello stesso tempo le piace soffermarsi al riparo dalla tempesta. Il fanciullo la guarda con invidia perché essa è libera, e può volare.
L’agitarsi di quell’inesperta gli sembra ridicolo, e insieme gli fa pena; ma, soprattutto, il fanciullo brama di catturare l’ospite inattesa, per farsene una compagna: e subito studia il modo di coglierla, e di tarparle le ali.
Alla richiesta del giovane, Edoardo gli gettò un’occhiata scrutatrice; e dopo aver pensato un momento, rispose di ricordarsi infatti che un certo Nicola Monaco aveva servito la sua famiglia in qualità di amministratore fino a cinque o sei anni prima. Qui Edoardo si fermò per chiedere all’altro se il Monaco gli fosse per caso parente, o amico: giacché, spiegò premurosamente, le ultime notizie avute sul conto di lui non erano piacevoli. A simile domanda, l’altro, con un fare precipitoso e ironico, e una risata che parve un insulto, lo esortò a non avere scrupoli, a parlare senza reticenze. Con quella persona, assicurò, egli non aveva relazione alcuna, se non d’affari.
Udendo lo sconosciuto parlare in tal modo, Edoardo fu preso da un rapido batticuore, come chi si accinga a un’avventura rischiosa e tormentosa, ma, appunto perciò, affascinante. La sua malizia, infatti, gli lasciava indovinare che il giovane aveva mentito: e che la persona di Nicola Monaco doveva avere nel cuore di lui un posto tutto diverso da quello che lui, per caparbietà, o per orgoglio, o per chi sa qual mistero, voleva far credere.
Ora, con la sua risposta, egli dava agio ad Edoardo di entrare liberamente nella sua regione vietata, e di calpestarla e scompigliarla, se gli piaceva. Ciò faceva pregustare al malizioso cugino, in quel pomeriggio di noia, un piacere affettuoso ed empio, simile a quello ch’egli provava allorché insultava i santi cari a Concetta. Un simile piacere, per quanto ciò possa sembrare strano, non deriva soltanto da crudeltà, ma è anche mescolato di tenera compassione e d’amore. Difatti, una delle prime felicità dell’amore non è forse il permesso, ottenuto o strappato, di invadere, e devastare magari, delle regioni vietate, misteriose e sante? E vedeste mai con quale aria di sfida, e di perdizione nel tempo stesso, un fanciullo goda nel maltrattare un oggetto caro al suo piccolo fratello, se questo per fierezza s’ostina a dirgli: «Non me ne importa»? Di tale ibrida specie, ahimè, sono le poche gioie di cui ci ha lasciato eredi il padre Adamo.
V’era dunque una nota quasi esultante nella voce sommessa e insidiosa d’Edoardo allorché questi, meno per un ultimo scrupolo di coscienza che per prolungare con un indugio il proprio gusto, insisté a chiedere: – Ma... scusate, è da molto tempo che non avete notizia di quel signore? – (E nel dir così, le sue pupille sogguardavano l’altro con una sollecitudine arguta e un poco triste, come a dirgli: «Arrenditi e sarò buono con te»).
– Da più di dieci anni, – rispose impetuosamente l’altro; ma tosto, adirato, si sarebbe detto, d’aver pronunciato questa frase, come se essa fosse stata chi sa qual gelosa confessione, aggiunse sgarbatamente: – Ma io vi ho chiesto un indirizzo, non delle notizie private.
– Scusate, voi avete cominciato col chiedermi delle notizie, e io v’ho avvertito che ne avreste udite di sgradevoli, – ribatté Edoardo. Al che il giovane si confuse tutto, e, dopo aver balbettato delle scuse, tentò di riprendersi esclamando rozzamente: – Insomma, dite quel che avete da dirmi! Parlate chiaro! – Allora, sogguardandolo, con l’accento distante e neutro col quale i padroni sogliono parlare dei loro sottoposti, Edoardo espose quanto sapeva su Nicola Monaco. E cioè come costui, dopo aver servito la sua famiglia per lunghi anni, fosse stato licenziato per certe irregolarità nell’amministrazione.
– Quali irregolarità? – domandò bruscamente Francesco. – ebbene, – rispose Edoardo, – se volete proprio farmi adoperare il termine esatto, vi dirò che il nostro Monaco rubava.
Quasi oltraggiato nella sua propria persona da tali parole, Francesco arrossì violentemente; ma non disse nulla. E l’altro seguitò spiegando che, dopo un fatto simile, naturalmente ogni rapporto fra Nicola e i Cerentano era cessato. Né si era saputo più nulla di Nicola fino a un anno avanti, allorché fra la servitù di casa s’era sparsa la nuova della triste sorte a lui toccata. Or prima di far nota questa sorte, Edoardo s’interruppe ancora; e chinata un poco la testa sulla spalla, si disse esitante a raccontare quanto aveva saputo: era una notizia tale da potere, forse, suonare sgradita agli orecchi dell’altro. Ma Francesco si ribellò ancora una volta a simile supposizione e, quasi offeso dai dubbi d’Edoardo, ripeté di non aver nulla in comune col Nicola, se non una questione economica. Qui egli fece udire una seconda risata, insultante e ironica al pari della prima, ma sorda, stavolta, e tremante, e rudemente dichiarò che il Monaco gli doveva del denaro.
– Ah, se è così, – disse Edoardo con occhi sorridenti, – temo che il vostro denaro sia perduto e che, in ogni caso, avreste dovuto rinunciarvi. – Spiegò quindi come la notizia appresa dai servi fosse che Nicola, uscito dalla casa Cerentano, purtroppo non aveva perduto i propri vizi. Egli era finito com’era da aspettarsi, in carcere, dov’era morto appunto un anno fa.
A questo annuncio d’Edoardo, il viso di Francesco si coprì di pallore. – Come? ah, sì, – egli disse, e sorrise dolcemente, mostrando i denti radi e sciupati, quasi ancora puerili. Ma subito si levò dalla sedia, e girò una torva, misera occhiata, come cercando scampo fuori di se stesso al proprio momentaneo smarrimento. – Allora grazie, – proseguì, con le sue maniere violente e febbrili, – grazie, vi tolgo il disturbo. Ho saputo ciò che volevo, – concluse, trasmutando il sorriso infantile di prima in un altro, beffardo, – l’indirizzo che cercavo è il camposanto. Grazie –. E con questo sarcasmo, s’avviò frettolosamente all’uscio.
– Che fate! Partite già? aspettate! – esclamò, quasi impaurito, Edoardo, levandosi a mezzo dalla poltrona.
E come l’altro, nella sua confusione, rimaneva interdetto sull’uscio, riprese a dirgli con un fervore inquieto: – Trattenetevi ancora un poco, vi prego. Risedetevi, ve ne prego per favore. Oggi è il primo giorno, – seguitò con un sorriso confuso e umile, – è il primo giorno che faccio un po’ di conversazione con qualcuno dopo la mia malattia. Sono stato malato più di due mesi, e sempre solo. Ho tanto desiderio d’un poco di conversazione, è un vero favore che mi fate, – ed egli accompagnò queste sue ultime parole con un sorriso mondano; ma temeva a tal punto un rifiuto dell’altro che le sue pupille s’oscurarono e la sua voce, più che preghiera, suonò comando.
Si rallegrò tutto vedendo che Francesco, intimidito, non osava rifiutare; e lo ringraziò, mentre un leggero colore si spargeva sulle sue gote.
Indi, sia per gratitudine che per meritarsi in qualche modo la condiscendenza dell’ospite, e invogliarlo a restare, ricominciò a parlare di Nicola Monaco, ma in tono tutto diverso da quello usato poco prima nei confronti del medesimo personaggio. Vedemmo altrove come questi avesse rappresentato, nell’infanzia del padroncino, una parte attraente e immaginosa. Ora, Edoardo cercò di risvegliare nella propria memoria quella figura ormai fantastica per tesserne una specie d’elogio funebre. Fatte più ricche e vivaci dal desiderio di piacere, le sue parole risuscitarono l’amministratore nella forma d’un eroe. Egli celebrò il bell’aspetto del defunto, la sua barba bionda e la sua gioiosa risata. Celebrò la sua maestria nel cantare pezzi d’opera e nel suonare al piano dei ballabili per divertire loro fanciulli, che saltavano per la stanza a quei ritmi. Rievocò certi buffi aneddoti, raccontati a lui bambino da Nicola Monaco, i quali ancora, a ricordarli, lo eccitarono al riso; e fu tutto contento al veder Francesco ridere insieme con lui. Gli occhi di Francesco s’illuminavano ad ogni nuova frase in lode di Nicola: pareva che tali lodi si accordassero con una sua memoria segreta, mista di rimpianto e d’ambascia. Francesco appariva non più aggressivo come poco prima, bensì indifeso: una timidezza malcelata, quasi un amaro pudore, ombrava i suoi moti. Se ne stava seduto sull’orlo della sedia, come per tenersi pronto al primo cenno di commiato da parte dell’ospite, e osava appena di esprimere la propria compiacenza con frasi d’approvazione sbrigativa quali: «Sì, aveva una buona voce», oppure: «Sì, era di statura abbastanza alta». Ma, suo malgrado, questa sua discrezione severa somigliava a un velo di modestia gettato sullo splendore d’un riscatto.
Essa tradiva una complicità così irrimediabile, o a dir meglio una religione così assurda, che Edoardo fu morso ancora una volta dalle proprie maligne tentazioni. Lo stile del suo discorso, da celebrativo che era, e quasi epico, divenne sempre più frivolo, e la sua voce riacquistò quel tono sufficiente e disdegnoso dei padroni allorché parlano dei loro servi. Pian piano, le stesse virtù di Nicola, che avevano finora provocato le sue lodi, gli diventarono argomento di beffa e di sprezzo, come fossero altrettante ridicolaggini. Nicola parlava dell’Arte come d’una gentildonna che a lui solo avesse concesso le chiavi della propria camera! ma questa nobile dama, in realtà, concedeva i suoi favori a ben altri tipi che a dei chiacchieroni come lui e Nicola, per vederla, doveva accontentarsi di salire per la scala di servizio, e di guardarla dal foro della serratura! A sentirlo, invece, la colpa era tutta della famiglia e della moglie (che lui stesso ironicamente chiamava la mia signora), i quali gli avevano precluso la via maestra dell’Arte! a chi voleva ascoltarlo, lui ripeteva a ogni passo d’essere un artista, un incompreso, un gentiluomo! e il giorno che vennero alla luce i suoi imbrogli, dichiarò di meravigliarsi altamente (usava spesso espressioni di tal fatta), e incominciò a giurare sulla testa dei suoi figli, sulla santa memoria dei suoi morti, come se davvero e figli e morti dovessero contare per più d’una mela bacata a un tipo come lui! – Sì, – concluse Edoardo, – non ho mai più visto un simile mentitore, spergiuro e buffone! Ma a me piaceva, – affermò a questo punto, e uscì in una risata spontanea e provocante, cui l’ascoltatore si sforzò di far eco.
– Volete sapere i miei sentimenti? – riprese allora Edoardo, fingendo un tono incurante e scettico, e non senza spiare sul volto dell’altro l’effetto delle proprie parole, – ve li dirò. È un peccato ch’io fossi ancora un ragazzo quando l’amministratore fu licenziato. Perché, se fossi stato il padrone io, colui seguiterebbe ad amministrarci ancora. Infatti, a me il nostro Nicola piaceva, e che m’importava di sapere se rubava o no? Anche mio padre la pensava come me, ma purtroppo egli morì troppo presto, la nostra casa cadde in balìa delle donne, e le donne guastano tutto, sono vuote di fantasia, godono solo di razzolare in orti e cortili, e di giardini non capiscono nulla. Guardate la loro religione: esse vanno ogni mattina, presto presto, tutte affaccendate, a depositare in chiesa avemarie, voti, genuflessioni, fioretti, come si depositano i risparmi in banca. E in tal modo, contano di mettere insieme un capitale di beatitudine sufficiente per vivere di rendita in Paradiso durante tutta l’eternità: ad altro concetto non sono accessibili. Sapete come dice il mio cocchiere: Anche Madama la Regina / o è cagna, o è formica, o è gallina. Cagne, formiche e galline: fra loro non troverete un solo usignolo neppure se consumate la vostra esistenza a cercarlo.
Tornando all’amministratore: vedete, io sono nobile, ricco, e penso che il primo vantaggio della ricchezza è di non esser costretti a occuparsi del denaro: altrimenti, i ricchi sarebbero schiavi del denaro non meno dei poveri. Oggi, per esempio, io ho mangiato del pollo, ben preparato, su un piatto di porcellana dipinta; e l’ho mangiato con gusto, senza curarmi, certo, di sapere in che modo era stato ammazzato, spiumato, cotto, altrimenti il suo sapore mi sarebbe parso disgustoso. Io non voglio saper niente della cucina, questo è affare del cuoco, il mio còmpito è di nutrirmi con piacere, e basta. Lo stesso vale per le altre faccende, amministrazione ecc. Mi presentano un certo Nicola, un bell’uomo simpatico, che mi diverte, canta, e mi dicono: «Costui s’occupa del tuo denaro, s’addossa ogni sorta di sporche e fastidiose fatiche monetarie, e a te lascia solo il còmpito di spendere le rendite: ma ruba». «Lasciatelo rubare! – rispondo io a costoro, – e liberatemi della vostra noiosa presenza!
Forse che i signori antichi non si concedevano il lusso di mantenere un nano? e io voglio mantenermi il mio ladro. Sarà un ladro, ma il suo mestiere di buffone lo conosce meglio di voialtri». Ecco quale sarebbe stata la mia risposta agli accusatori del signor Monaco.
Durante questo discorso d’Edoardo, Francesco non aveva detto una sola parola; ma pareva a disagio per il proprio silenzio e cercava di nascondere il disagio con gesti d’una disinvoltura forzata. Per esempio, si rimboccava un poco i pantaloni sulle ginocchia, ad evitare che se ne guastasse la piega, o portava le mani alla cravatta, facendo mostra d’aggiustarne il nodo. Or gli occhi d’Edoardo si posarono un istante su quelle mani, che erano grossolane, rosse, con polsi da contadino, e Francesco avvertì tale sguardo. Il suo volto si sparse d’un rossore scuro e disordinato, e subito egli abbassò le mani cercando di nasconderle una con l’altra; ma nel momento stesso che così faceva, un’ira subitanea lo fece impallidire. E balzando in piedi nel modo più inatteso, stringendo minacciosamente i pugni, egli proferì con voce strozzata:
– Non permetto... non permetto a nessuno di parlare così di lui... vi proibisco d’insultarlo... Rispettate... rispettate i morti!
A simile uscita, Edoardo impallidì a sua volta, e i suoi tratti s’alterarono, sotto lo stimolo d’un’ira tumultuosa e per lui stesso sorprendente, giacché egli medesimo aveva provocato e bramato la ribellione del visitatore. – come osate... in casa mia... – esclamò, e puntò sui braccioli della poltrona, sforzandosi di levarsi, i polsi tremanti; ma questo semplice moto di difesa lo scosse al punto che il suo volto si bagnò di sudore.
La sua brama di vendetta si mescolò allora a uno stupore di sentirsi così debole, e del tutto inerme di fronte allo sconosciuto. Con un acuto sospiro di rabbia ricadde a sedere nella poltrona e mentre cercava febbrilmente il modo di punire colui, i suoi occhi caddero sul biglietto da visita consegnatogli poco prima dal domestico, e rimasto là sulla tavola. I suoi labbri s’incresparono allora in una piccola smorfia schernitrice, ed egli disse: – Scusate, signor barone, io credevo che non vi fosse nulla in comune fra voi e il signor Monaco.
Questa frase bastò perché di nuovo un cupo rossore salisse alle guance di Francesco: – Che cosa intendete... – egli disse, ricadendo nella confusione, – si capisce... difatti... io non ho nulla a che fare con... Ve l’ho già detto! L’ho detto, – ripeté, armandosi di fittizia baldanza, – e lo confermo! Che rapporto c’è fra le due questioni? io parlo per un principio generale, non per riguardo a quel signore. Che cosa dovrebbe importare a me di... di quell’individuo?
Ma qui, parendogli scorgere un lieve sorriso sulla bocca d’Edoardo, fu riassalito dall’ira: – Voi però, – riprese con irruenza enfatica, – voi non avete il diritto di oltraggiarlo. Voi ricco, in una casa principesca, sdraiato in una poltrona, riverito e onorato da tutti, non potete giudicare uno che lavorava, un disgraziato... Avete forse prove sicure di come vi sareste comportato voi al suo posto? Io parlo in via generale, per un sacro principio, un diritto...
Le nuove impertinenze dell’ospite avrebbero forse provocato un’altra fiera replica da parte d’Edoardo; ma in quel punto uno scampanellìo risuonò dabbasso: era la campanella con cui si soleva, in casa Cerentano, annunciare che il pranzo sarebbe servito fra un quarto d’ora.
Come se tal suono fosse il segnale del commiato e volesse dirgli: Tu sei di troppo, Francesco, all’udirlo, si turbò, e, interrotta nel momento stesso la sua predica, mormorò con una voce stonata: – Io disturbo... vado... scusate... – avviandosi ancora una volta all’uscio.
– Aspettate un minuto! – lo trattenne, ancora una volta, Edoardo, con una sùbita espressione di sofferenza e di dispetto sul volto esangue: – Ve ne andate, – proseguì acerbamente, – senza neppure stringermi la mano –. E tendendo la propria mano all’ospite, con un sorriso in cui non v’era più se non della simpatia, anzi una gentile, affettuosa commozione, aggiunse: – Siete voi che dovete scusarmi, la colpa è tutta mia. Sono nervoso perché sono stato malato. Vi chiedo perdono. Rifiutate di perdonarmi? Vi chiedo perdono, – insisté con fervore. A ciò l’altro, che, al suo richiamo, era tornato pesantemente sui propri passi, gli porse la mano in un gesto schivo e selvatico, standogli dinanzi con la fronte curva, aggrondata sotto i suoi ricci neri. Egli gettò su Edoardo un fuggevole sguardo obliquo; e mormorò pieno di vergogna: – Grazie... grazie... è tempo ch’io vada... – Ma Edoardo trattenne la sua mano, stringendola forte fra le proprie gracili dita per non lasciarla fuggire; e con ansiosa impazienza disse: – Ascoltate una cosa, prima d’andarvene: vi dispiacerebbe se diventassimo amici? non vorreste essere amico mio?
Francesco balbettò non so che risposta, e con un sorriso timido, mansueto levò gli occhi su Edoardo. Ora, al guardarlo, quasi che s’accorgesse soltanto adesso del pallore, della magrezza inquieta di quel volto, fu vinto da pietà: – Voi siete stato male, – osservò, umiliato, eppur con una sorta di protezione paterna, – io sono un importuno... – Per tutta risposta, Edoardo ebbe un riso affettuoso e contento; indi con sollecitudine impetuosa disse al visitatore: – Sentite: voi abitate qui in città, è vero? Ma non c’è il vostro indirizzo sul biglietto da visita. Scrivetelo qua sopra, vi prego, eccovi una penna, scrivetelo, e appena guarito io verrò a trovarvi. Verrò a trovarvi il primo giorno che esco, forse in settimana potrò uscire, fors’anche dopodomani. Verrò da voi subito, subito –. Ed egli attendeva con trepidazione che l’altro scrivesse. Ma il visitatore esitava, tenuto da una curiosa riluttanza: – Vedete, – disse alfine, con disagio, – se non vi dispiace, sarà meglio che ritorni io da voi, – e accennò in fretta a una famiglia che viveva lontano, a certi suoi studi complicati, e alla mancanza d’una abitazione stabile... ecc.
Il volto d’Edoardo s’allungò, oscurato dal sospetto e dalla delusione: – Un momento fa, – egli disse corrugando i sopraccigli, – affermavate pure d’avere il vostro recapito qui in città, ora lo negate... Perché dunque rifiutate la mia visita? Forse la mia persona v’è odiosa e non volete la mia amicizia. E adesso mi promettete di tornare, ma poi magari non verrete, e io v’aspetterò un giorno, e poi un altro... – Edoardo ebbe una piccola smorfia sofferente; indi, con una breve, nervosa risata, proseguì:
– Ma io vi leggo la bugia negli occhi quando affermate di non avere un recapito –. E in tono capriccioso e incalzante, quasi che capire quell’indirizzo fosse una mèta suprema nella sua vita, ripeté: – Scrivete, via! scrivete!
Francesco non poté non accondiscendere. E mormorando ch’era un recapito provvisorio, un alloggio indecoroso, per certi suoi motivi, e via di seguito, scrisse con le dita tremanti sul proprio biglietto da visita, sotto il nome stampato Francesco de Salvi (un piccolo tratto di penna fingeva di cancellare modestamente il titolo di Barone):
presso Cònsoli
vico Sottoporta 88.
Tutto allegro in viso, Edoardo, che si teneva in piedi presso Francesco appoggiandosi coi gomiti alla tavola e con un ginocchio al bracciolo della poltrona, sorvegliò, chino sulla spalla di lui, la scrittura dell’indirizzo. Indi ne compitò fra sé le parole, trasse un sospiro, e, impossessatosi del biglietto da visita, se lo ripose gelosamente in tasca.
S’udì il pendolo suonare le ore nel corridoio: in quel medesimo istante l’uscio si socchiuse, e il viso di Concetta, sotto un cappello nero di feltro, si affacciò nel vano.
Ella domandò al figlio se il servitore poteva entrare col vassoio del pranzo; ma poi, scorgendo lo sconosciuto, soggiunse: – Ah, scusa, non sapevo che avessi visite, – e si ritirò tosto, lasciando tuttavia socchiuso l’uscio. Quell’apparizione tolse a Francesco l’ultimo barlume di disinvoltura che gli restasse: – Io vado... grazie... scusate... – egli balbettò; e cercava intanto il cappello, senza ricordarsi più d’averlo consegnato dabbasso al servitore. – A rivederci a presto! – gli disse Edoardo, tendendogli la mano con un sorriso d’amicizia e d’intesa. E aggiunse, quando l’altro era già sulla soglia: – Intanto, in attesa della mia visita, ritornate voi a trovarmi! V’aspetto! Ritornate domani! – Ma questo invito non ebbe risposta da parte di Francesco, il quale a malapena lo udì: egli era ormai fuori dalla camera, nel corridoio, dove si scontrò quasi col domestico che arrivava recando il vassoio della cena.
Sebbene contasse poco sulla sua visita (intuendo che per timidezza egli non oserebbe di presentarsi), Edoardo, l’indomani, rimase deluso e indispettito per via che Francesco non venne. Egli l’attese invano anche i giorni seguenti, e tale vana attesa acuì il suo desiderio di ritrovarlo.
Gli nacque pure il sospetto che l’indirizzo datogli dal visitatore fosse falso: e spedì Carmine al numero 88 di vico Sottoporta, donde il cocchiere tornò con la notizia che un Francesco De Salvi, studente, abitava per l’appunto a quell’indirizzo, in una camera ammobiliata presso un vetturino. Ciò tranquillizzò alquanto Edoardo: il quale, non appena fu in grado d’uscire di casa, si recò a visitare Francesco De Salvi, come gli aveva promesso.