Capitolo quarto
Un ritrovo mal frequentato
Il butterato si vanta e un carrettiere racconta un’assurdità infernale

Dacché aveva incominciato il faticoso mestiere del viaggiante, mio padre non poteva più, come prima, recarsi all’ufficio anche nei giorni festivi, per i suoi lavori straordinari. Il suo riposo settimanale gli era ormai necessario e diventarono allora più frequenti le mie passeggiate in sua compagnia.

Più frequenti, e anche più sgradite: tanto che solo per un difetto di coraggio mi assoggettavo ad esse. Un simile coraggio non mi sarebbe, certo, mancato, se mia madre m’avesse dato il più piccolo segno d’esser mia complice o di approvare la mia riluttanza. Ma quando mio padre, levandosi dai suoi lunghi sonni festivi, m’invitava ad accompagnarlo, invano i miei sguardi chiedevano una risposta agli occhi indifferenti di lei. Con la sua solita impazienza distratta, ella mi apprestava l’abito e la biancheria per uscire; ed io seguivo tali preparativi col cuore stretto dalla gelosia, pensando al pomeriggio ch’ella trascorrerebbe in casa senza di me.

La rivolta e la nostalgia mi guastavano la passeggiata, ed ero, per mio padre, una trista compagna. A momenti, perfino, il pianto mi gonfiava gli occhi; ma per superbia evitavo che mio padre se ne accorgesse. Lui, del resto, non faceva troppa attenzione ai miei misteriosi umori.

La più amara prova della mia gelosia mi aspettava al ritorno, allorché rientravamo nelle nostre stanze già illuminate dalle lampade serali, e dove già mia madre era intenta alla cena. Ed io, quasi possedessi i sensi acuti dei cani e dei gatti che, si dice, scorgono i fantasmi, avvertivo intorno i dileguanti vestigi della sua solitudine non condivisa.

Il solo miraggio che sapesse ancora consolarmi un poco, mentre mi accingevo a quelle tristi passeggiate, andava assumendo, ormai, senza speranza, la qualità falsa ed effimera ch’è propria dei miraggi; e lo vedevo già dileguarsi del tutto. Intendo parlare delle nostre visite a Rosaria.

Mio padre, col mutar delle sue trascorse abitudini, aveva interrotto le nostre visite domenicali alla bella signora.

Io seguitavo, tuttavia, a vagheggiare per ogni nostra uscita quella méta diletta; ma di ciò non facevo parola alcuna, anzi tanto più mi adoperavo a tenere imprigionata e occulta la mia speranza, quanto più essa ardeva e scalpitava.

Mi guardavo bene, dico, dal nominare Rosaria; ma per tutto il pomeriggio seguitavo a sospirare in segreto la sua persona e le sue stanze. Finché, declinando la nostra giornata di festa, anche la mia speranza finiva.

Passavano più settimane senza che mio padre mi conducesse al caro indirizzo. In verità, egli soleva adesso, a quanto capii, recarvici da solo, anche se ciò non avveniva sovente. Insieme a me, poi, capitò lassù da allora, non più che due o tre volte in tutto. Egli ormai preferiva altre strade; e allo stesso modo che, prima, dovunque si andasse, quasi sempre si finiva da Rosaria, adesso la nostra méta abituale era la bottega di Gesualdo.

Gesualdo era un oste, e la sua bottega, o cantina, si trovava a circa un chilometro da casa nostra, in una via del sobborgo, prossima alla strada provinciale e alla campagna. Sebbene fornita di tavoli e di panche essa era piuttosto una rivendita di vini che un’osteria, né Gesualdo poteva, nella buona stagione, ingrandire il cerchio della clientela esponendo qualche tavolino all’aperto, giacché nella via c’era appena spazio sufficiente per il passaggio dei carri e dei veicoli, i quali, per di più, vi sollevavano una gran polvere. Dalla porticina sulla strada, alcuni gradini scendevano alla bottega, dove s’avvertiva un odore gelato e macero di cantina mescolato a un aroma d’aceto. Il pavimento di color lavagna era qua e là rotto e consunto, e dalle finestruole a inferriata pioveva una luce scarsa. Sulla destra c’era non più che tre o quattro tavoli in tutto, circondati da semplici panche e sedie di paglia; mentre che la sinistra era ingombra di botti e damigiane, e vi si apriva sul fondo, dietro il banco, la porticina del retrobottega. Da questo, per una scaletta a chiocciola, si saliva all’abitazione di Gesualdo; e spesso si udivano scender dall’alto, per quella scaletta, come angelici squilli di tromba, i richiami della moglie di Gesualdo, la quale però non si mostrava mai nella cantina, essendo Gesualdo un marito assai geloso.

Tale gelosia, come pure la focosa e provocante bellezza dell’ostessa reclusa, erano talora oggetto di commenti fra gli avventori. Ch’io ricordi, non mi fu dato mai di vedere l’ostessa nel volto; tutto quanto conobbi di lei, fu la voce, che aveva quel timbro squillante e patetico, misericordioso e animalesco, non raro nel Mezzogiorno.

Dell’oste geloso, poi, non ricordo la faccia, al posto della quale non vedo più che una macchia d’un giallo pallore. Egli soffriva di malaria, e a ciò si doveva forse la sua selvatica tristezza, attribuita pure, di solito, al fatto che il suo matrimonio rimaneva sterile, mentr’egli desiderava ardentemente un figlio. Gesualdo era d’indole solitaria, e assai poco loquace: non soleva mai partecipare alle conversazioni degli avventori, e pareva, anzi, non udirle, mostrando nel contegno un perenne distacco dalla gente che serviva e dal proprio mestiere stesso. solo se, talvolta, fra i bevitori scoppiava un litigio, egli si faceva avanti e con una sorta di apatia feroce invitava i contendenti a uscire nella strada, ché non voleva risse nel suo locale. Ma ciò avveniva assai di rado, poiché gli scarsi frequentatori di quella bottega fuorimano erano per solito tranquilli.

Gesualdo se ne stava per lo più dietro il banco, donde si muoveva, con la sua tetra indolenza, per servire la clientela; e quando lo prendevano le sue crisi di febbre, chiudeva la bottega, perché non aveva servo o garzone che lo sostituisse, e non voleva mandare dabbasso la moglie.

Un altro notevole personaggio della cantina era la gatta dell’oste, la quale, nel tempo ch’io la conobbi, era gravida: onde ogni volta io ritornavo da Gesualdo con l’impaziente speranza di trovare i gattini nuovi. Era una gatta striata, rossa, coi baffi e la pelliccia bruciacchiati per il suo vizio di troppo accostarsi ai fuochi. Il padrone, affinché non si distraesse dal cacciare i sorci, le negava qualsiasi cibo delle mense umane; ed era forse per la ferinità esclusiva dei suoi pasti che essa rassomigliava ai suoi avi delle selve, e nessuna qualità domestica raddolciva la sua primitiva natura. Per quanto io cercassi di attirarla, essa evitava la mia compagnia, diffidando di ogni uomo; né altro mi concedeva, se non di guardarmi, stando appostata a una certa distanza, con agghiaccianti occhi di belva nella sua faccia camusa: pronta a scattar via con un soffio minaccioso non appena io tentassi di avviare una più amichevole relazione fra noi.

In questa società così poco comunicativa mi toccava talvolta di trascorrere degli interi pomeriggi; né valeva più la mia vecchia usanza, di trarre lamenti o sospiri per significare che ero stanca e avevo voglia d’andar via: mio padre sembrava non udire quei suoni dolenti, o non tenerli più in conto alcuno. Prima di scendere nella cantina, egli aveva acquistato per me un cartoccio di lupini o di caldarroste, perché Gesualdo, se per gli uomini aveva il vino, per le ragazzette mie pari non aveva da offrir nulla se non una insipida gazosa in bottiglie azzurrastre. Eccomi dunque, fornita del mio cartoccetto, seduta sulla panca di fronte a mio padre, per ore, senz’altro divertimento se non, talvolta, ascoltare i suoni straziati e attutiti di un organetto fermatosi in quei dintorni. E osservare, guardando in su, per le finestre ad inferriata, i piedi dei passanti, il polverone sollevato dai veicoli e, nei casi più fortunati, un cane fermatosi ad annusare quegli odori sotterranei, il quale subito giudicava tali odori non troppo degni d’interesse, e scodinzolava via.

Non di rado, accadeva pure che dei visi infantili si chinassero dietro le inferriate, a spiare nell’interno; e, vedendomi laggiù, mi facessero cenni e smorfie, dileguando poi subito per paura dell’oste e degli avventori adulti. Ovvero, altre volte, dietro una corsa di piedini nudi e fangosi, fra un chiassoso giubilo, si vedeva passare in un baleno la striscia di una stella filante, ultimo avanzo carnevalesco.

Questo era tutto: e nessuno nella cantina di Gesualdo, né l’oste, né mio padre, né gli altri avventori, nessun altri che me s’interessava a simili spettacoli.

Il vino fornito da Gesualdo, di un genere assai comune nelle nostre parti, era denso, e appena bevuto lasciava sul vetro la sua traccia nero-purpurea, come fosse un sugo di more. Al gusto, però, non era dolce come le more, bensì amaro, pesante; e, dopo un passaggio di vivacità fittizia, produceva malinconia, caligine e sonno. Si sarebbe detto che dovesse quel suo color bruno a semi di papavero infusi. Impastava la lingua e, a berne fuor di misura, gettava in un letargo donde scacciava perfino i sogni, oltre che la memoria.

Mio padre non ne beveva mai tanto da ubriacarsi: egli passava, attraverso la fase dell’esaltazione, all’indolenza, e in questo stato rimaneva assorto senza ricordarsi del tempo, e della mia stanchezza. Finché, in quei sonnolenti vapori, anche la mia mente s’intorpidiva: ed io stavo ad ascoltare, mezzo assopita, le frasi brevi e scarse, per me spesso enigmatiche, delle conversazioni intorno ai tavoli vicini; o, dalla strada, i numeri gridati dai giocatori di morra.

I clienti abituali di Gesualdo erano carrettieri soliti a passare per quelle parti, carbonai delle montagne, zingari accampati nei sobborghi. A causa del loro viaggiare solitario, o della razza antica, costoro avevano l’abitudine della meditazione e del silenzio: per cui la sonnolenta natura di quel vino era fraterna ad essi. Di solito, sedevano in tre o quattro alla stessa tavola, con gli occhi bassi e velati, bevendo lentamente senza mai guardarsi né dirsi una parola; ed anche nel gioco erano quasi sempre taciturni, indifferenti, sembrava, alla perdita o al guadagno, sebbene trascorressero ore ed ore intorno alle carte. Coi loro volti semitici dalle barbe trascurate, le occhiate indolenti prive d’interesse o di curiosità, non eran diversi, nella specie, dal padrone sonnambulo e dalla gatta selvatica: e non per nulla, certo, frequentavano assiduamente quell’osteria.

Nell’effimera animazione dei primi bicchieri, mio padre soleva trattare simili vicini da confidenti e amici.

Mai prima, se non forse talvolta in presenza di Rosaria, lo avevo veduto in questo aspetto di vantatore, menzognero e loquace, pontificante, espansivo fino alle lagrime; e devo aggiungere che non gli perdonavo tale nuovo aspetto più dell’altro a me già noto. Egli chiamava per nome quei carrettieri e zingari, batteva sulla loro spalla in aria protettiva; ed or si comportava come un loro uguale, or si atteggiava ad alto personaggio. Al suonar d’un lontano organetto, incominciava a cantare delle romanze d’opera, che quasi sempre tralasciava sul più bello, dichiarando di non arrivarci con la voce. E intratteneva l’uditorio su argomenti filosofici, e citava nomi e frasi di questo o quel sapiente, come fosse in mezzo a un pubblico di dottori. Non di rado, con grandiosità principessa, ordinava da bere per tutti a sue proprie spese: e coloro lo ringraziavano levando i bicchieri colmi all’altezza delle loro fronti e dicendo: – Avvocato, salute! – Lo chiamavano avvocato, sia per l’eloquenza da lui profusa, e sia perché, mi pare, lui medesimo s’era proclamato possessore di un tale titolo; allo stesso modo che s’era dichiarato, Dio sa con qual diritto, figlio di un gran signore; celebrando, nel fuoco dei suoi racconti, viaggi e conoscenze che pretendeva d’aver fatto in passato, e descrivendo paesi, costumi, istituzioni come fosse un cantastorie in una fiera.

Io lo ascoltavo con scettico stupore; ma, a volte, ero quasi convinta ch’egli non mentisse, tanto i suoi accenti suonavano persuasivi e veraci!

La mia presenza, in quell’ora enfatica, non valeva a frenarlo, Nei suoi gran gesti e perorazioni, egli gettava, sì, sguardi accesi sulla sua piccola compagna; ma non con l’aria interrogativa, confusa, di chi sa d’aver di fronte un giudice severo, bensì con una illusione entusiastica. Pareva che le sue menzogne, appena dette, e in virtù, appunto, della sua parola di ebbro, non fossero più menzogne per lui, ma acquistassero tradizione e sostanza di verità. E che ognuno dei circostanti apparisse, ai suoi sguardi ispirati, seguace della sua medesima teatrale illusione. Egli presumeva, certo, in simili momenti, di dir cose ben più grandi e importanti che delle semplici fanfaronate. Vi furon giorni che, non curando il presente, incominciò a vaticinare progressi, e conquiste, per cui l’uomo dei secoli futuri sarebbe libero e felice; ed ebbe, nel profetare, la medesima foga visionaria di quando raccontava menzogne sul proprio conto. Sembrava, cioè, non un profeta che crede nella sua repubblica avvenire, ma addirittura un messaggero che celebra la propria vivente patria: scancellandosi per lui, nell’artificio di quegli istanti, ogni intervallo fra le parole e le cose, fra il presente e il futuro.

Mi è difficile dire quale opinione avessero di mio padre gli ascoltatori. Il loro contegno denotava un certo generico rispetto nei suoi riguardi; ciononostante, quand’erano intenti a una partita, essi non si curavano di lui che perorava se non per gettargli appena appena qualche rara occhiata di sbieco, ritornando subito alle proprie carte. Se poi nessuna occupazione li distraeva dal loro ozio contemplativo, non per questo si potrebbe giurare che udivano le parole di mio padre. Essi non usavano, per lo più, guardare la gente in faccia, ma volgevano le pupille obliquamente: e ciò dava ai loro sguardi un carattere diffidente e neghittoso, così come il loro modo di sorridere a mezzo, senza schiudere le labbra, pareva celare un senso non saprei dire se ironico, o sornione. Seduti in pose neglette, avvolti nel loro fumo, essi partecipavano alla conversazione solo con cenni di consenso, o commenti pigri e avari, adoperando frasi già belle e fatte, motti, proverbi, che suonavano spesso privi di senso per me. Alcuni di questi rimasero fissi nella mia memoria appunto in grazia della loro indole sibillina, ch’io cercavo invano di decifrare. Avevano per soggetto le donne, e ne appresi il significato solo vari anni più tardi, un giorno che, scherzando senza malizia, m’avvenne di recitarli a Rosaria. E lei, ridendo come pazza per la mia grande innocenza, mi spiegò il mistero di quegli enigmi inverecondi e triviali.

Non di rado, da Gesualdo, si parlava di donne. Mio padre, che non parlava mai di mia madre fra quegli estranei, soleva atteggiarsi a seduttore, facendo gran vanto di certe sue conquiste, e soprattutto di una, una donna di lusso, bella, grassa, elegante, la quale lo amava alla follia.

Ma lui la detestava, invece. In primo luogo, perché era una mala femmina, e quindi non era una donna, giacché, lui, sull’altare della Madonna, alla quale non credeva, metteva la donna onesta, la donna pura, la donna, infine; ma al contrario, le male femmine gli parevano bestie. In secondo luogo, la suddetta signora aveva i capelli rossi, e lui odiava le rosse, quelle teste accese, le odiava!

A questo punto, uno dell’uditorio, con la sua voce stracca e cantilenante, sentenziava che bisogna guardarsi dalla razza maligna delle rosse. Rosso Malpelo! Le donne di questo colore son simili alle volpi e alle faine. Al che mio padre, con una risata guerresca e fatua del tutto insolita in lui, ribatteva che, per quanto lo riguardava, tali donne sprecavano le loro arti. Sebbene, soggiungeva, per diverse circostanze, egli avesse talora ceduto alle seduzioni della dama lentigginosa, l’istante dopo gli era parso d’essersi contaminato, quella giovane, bella in realtà, gli appariva deforme, quei capelli sulfurei sul medesimo guanciale dove lui posava la testa gli sembravano i crini d’una cavalla, ed egli non bramava che di fuggire, preferendo il fumo di carbone alla vicinanza di colei!

Tali discorsi suscitavano sconce risate di consenso nel gruppo dei nostri vicini. Così, io dovevo soffrire che si sparlasse con tanta villania della mia bella Rosaria (sebbene mio padre non la nominasse, non era difficile intendere ch’egli parlava di lei). Né potevo far nulla in sua difesa, se non imbronciarmi e aggrottare la fronte; ma queste mute manifestazioni di biasimo passavano inosservate, e mio padre sembrava non vedere affatto i burrascosi miei sguardi!

D’altra parte, le sue pupille già si velavano. Era questa l’ora ch’egli incominciava a discorrere nel comune dialetto della regione, per ingraziarsi, forse, i presenti. E poi, per adularli, adeguando la propria alla loro misera sorte, compativa se stesso, lamentandosi del proprio mestiere, del fumo e della polvere di carbone ch’era costretto a inghiottire ogni giorno, dei freddi notturni, dell’eterno rumore e via di seguito. Ma coloro non parevano commossi dalle sue confidenze più di quanto lo fossero dalle sue millanterie; in pose d’ignavia, udivano dolori e imprecazione col solito ambiguo sorriso, le solite occhiate sfuggenti. E per qualsiasi discorso avevano i medesimi cenni di consenso non saprei dire se ipocriti, o dementi, o schernitori. Come servi d’un automa, fattisi tetri e senili sotto la strana tirannide, essi parevano giudicare futile e monotono, anche se funesto, ogni vario movimento del destino; e fanciullaggini, ormai, la sorpresa, la curiosità e la speranza. Che mio padre dicesse il vero o il falso, e ch’egli si vantasse figlio d’un gran signore o si lamentasse della sua misera fatica, era uguale per essi. Né davano altra risposta che quei proverbi, o sentenze sibilline, nel loro antiquato accento di nenia.

Avvenne tuttavia, seppure in rarissime occasioni, che alcuno di loro si dilungasse a parlare; e fu per raccontare qualche avventura vissuta (o inventata piuttosto) suscitata alla lor mente da una parola dei vicini, o da un estro improvviso. In simili casi, il parlatore si mostrava perfino prolisso, e si rivelava, non meno di mio padre, empio e bugiardo. Uno di questi racconti da me uditi allora m’è rimasto nella memoria. Fu un giorno che mio padre si doleva, appunto, come già altre volte, del proprio lavoro eccessivo, ma pure insufficiente a guadagnar la vita. In confidenza, egli raccontava d’esser costretto dalla necessità a far debiti (il pensiero dei debiti pareva, da qualche tempo, opprimerlo più del solito), e ripetutamente, caparbio, si chiedeva a quale scopo mai serva la fatica, s’essa non basta a farci vivere con onore. Questa domanda era un ritornello che risuonava spesso sulle sue labbra a quell’ora dei nostri pomeriggi domenicali; essa, s’intende, non voleva una risposta, ma indicava per solito in mio padre una disordinata stanchezza dei pensieri, avanti che il torpore del vino lo quietasse. Accidiosi, infagottati, simili a gufi, gli ascoltanti assentivano uno ad uno, secondo l’abitudine. Ed ecco, uno di loro, dall’aspetto brigantesco e torvo, alza un sopracciglio, come per dileggio, e allungando lo sguardo verso mio padre dice:

– Be’, avvocato, volete sentirne una? Vi racconterò un esempio che è successo a me, quand’ero giovanotto.

Io, da giovanotto, facevo il carbonaio. Ero un giovane timorato, e andavo in chiesa come fossi stato una donna.

Non avevo bottega né fortuna, e posso dire che le mie mani, al pari di quelle dei francescani, non vedevano mai moneta. Mi guadagnavo da vivere salendo in cima alle montagne, dove non arrivano neppure i lupi, e dove la scarsa legna che si raccoglie non è rubata a nessuno.

Facevo così il mio carbone, che mettevo in un sacco e portavo a spalla giù in pianura, per cederlo ai contadini in cambio di farina o di minestra. Una mattina d’inverno, tanto buia da parere una notte, m’incamminai per la montagna secondo il solito. Il vento soffiava così forte, che la rada boscaglia della pendice urlava e fischiava al pari d’una foresta; ed io venivo ricacciato ad ogni passo.

Mi venne fatto, allora, di pensare che avrei potuto senza difficoltà, in quella zona deserta del monte, raccogliere legna dove potevo, lungo la pendice, rinunciando alla salita, e far fuoco in un piccolo spiazzo ch’era là, riparato da una roccia; difatti, pur essendo, quello, un bosco padronale, il gran vento sperdendo il fumo avrebbe cancellato nell’aria le mie tracce. Non c’era dunque pericolo d’essere scoperti; ma rubando la legna d’altri avrei commesso peccato: e per questa ragione dovetti rinunciare a tal disegno. Seguitavo dunque la mia salita faticosa, allorché mi parve d’udire nel frastuono un fischio umano, un motivo, come d’un amico che mi chiamasse.

Mi spinsi là donde era venuto il fischio, ma non vedendo persona viva, pensai d’aver sofferto un’allucinazione dell’udito. Nel dubbio, tuttavia, m’indugiavo, e intanto m’accadde, giocando, distrattamente, di staccare un ramoscello dall’albero più vicino; allora mi suonò accosto all’orecchio un urlo che mi gelò il sangue.

– Chi è? – domandai senza voce; ma nello stesso momento riconobbi nell’urlo una parola umana: – Sono io.

– Chi tu, se non vedo nessuno! – Son io, colui che tu mutilasti! – Come? – dissi, rigirando il mio ramicello, – sarebbe dunque l’albero che parla? – Non sono un albero, – rispose quel tronco, – ma un uomo battezzato come te, un carbonaio. Questo è il corpo mio, rabbioso e contorto, e questi rami agitati son le braccia mie, queste radici sono i piedi miei. – E perché, se uomo sei, pianta sembri? – Per dannazione del mio peccato. – E che peccato hai fatto, si può sapere? – Ho fatto, – mi rispose, – il carbonaio.

– Incomincio a capire, – io gli dissi, – tu facevi il carbonaio con la legna rubata. – Ma no! ma no! – gridò colui, – tu sbagli. Non fui mai ladro, facevo il carbonaio onestamente, secondo la legge. – Ma allora, di che peccato parli? – io domandai, – fare il carbonaio, guadagnarsi la vita col proprio mestiere, è forse peccato? – Fratello mio, – rispose l’albero, – così giudica Colui che può. Mi avevano appena sotterrato dopo morto, quando rinacqui in questo luogo e in questa forma. E udii Colui dire: Chi, da vivo, bruciò rami e alberi per far carbone, sia condannato, da morto, a vegetare nel suolo, e venga straziato, rotto, bruciato nelle membra per far carbone, rigermogliando nuovamente in eterno.

All’udire dal morto carbonaio simile rivelazione, io tremai, preso da un malore che quasi mi fece cadere a terra. Ma poi trovai la forza di chiedere: – E dimmi, io, che faccio il carbonaio come te, sono ancora in tempo a salvarmi?

L’albero si sconvolse nel gran vento, e mi dette questa risposta: – S’io fossi stato certo che tu non sei più in tempo, non t’avrei chiamato.

– Ti ringrazio, amico, – io dissi allora, – e da oggi, puoi star fiducioso che non riceverai più offesa dalla mia mano: mi guarderò, d’ora innanzi, dal cogliere un ramo o una foglia dalla terra, per nessuna ragione al mondo –. Così detto, rimasi un poco a pensare; e poi mi volsi nuovamente all’albero, e gli dissi: – Ascoltami, spirito. Tu eri carbonaio come me, e avesti la tua sorte. Ma dunque il macellaio, che sgozza e sventra gli animali, quale sorte avrà?

L’albero non mi dette altra risposta che un gemito di lupo. – Capisco, non occorre che tu mi spieghi, – io ripresi rabbrividendo, – ma allora, il fornaio, che cuoce il pane? il falciatore, che falcia le spighe? il fabbro, che infuoca il ferro? – A ciascuna di queste mie domande, l’albero, invece di rispondere, rideva alla maniera d’una strega.

– Ah, capisco tutto, – io dissi. – E adesso un’ultima domanda. Il gran signore, che non fa niente, quale sorte avrà?

– Chi non fa niente, – mi chiese l’albero di rimando, – fa peccato?

– Mah, non direi, – risposi io, – se niente fa, neppure peccato fa.

– L’hai detto, – rispose lui, – chi non fa niente da vivo, si riposa anche dopo la morte.

Allora, come potete capire, la mia mente cadde nel disordine e mi vennero dei pensieri mai prima avuti; per cui, dopo un intervallo, mi rivolsi di nuovo all’albero e gli dissi: – Amico mio, le tue parole m’hanno messo in una tale confusione ch’io non capisco più nulla, mi pare d’aver dimenticato perfino i numeri per contare, non ricordo più con quale mano si fa il segno della Croce e non riconoscerei mia madre se tornasse. Ma rispondi a un’altra domanda ancora, una e poi basta: rubare è peccato?

Lo spirito non dette risposta. – Rubare è peccato? – ripetei. Silenzio. – Pazienza, – conclusi allora, – l’albero è ridiventato muto. Grazie lo stesso, e addio –. Così ridiscesi il monte, senza far carbone, e mentre scendevo, andavo pensando alla mia sorte e al mestiere da scegliere al posto di quello di carbonaio. Rubare non mi sembrò conveniente, perché, pur nel dubbio di commettere, o no, peccato, rimane il fatto che su questa terra rubando si finisce in galera. Decisi infine di fare il carrettiere e ditemi se ragionai bene. Che cosa fa, dite, il carrettiere, da vivo? Se ne sta sul carro, e si fa portare dal mulo. E allora, che condanna potrà toccargli, dopo morto? A lui toccherà portare, e il mulo se ne starà sul carro. Be’, è sempre meglio passare i secoli dei secoli fra le stanghe a scarrozzare un mulo, piuttosto che venire smembrati e bruciati per far carbone. Avete sentito le sorti dei lavoratori, avvocato.

Questo aneddoto suscitò nel cerchio degli ascoltanti una corale risataccia, ma mio padre non s’unì al coro.

Egli non aveva, forse, neppur ascoltata là narrazione del carrettiere: infatti, a quell’ora del pomeriggio, diventava per solito distratto, e seguiva idee diverse e solitarie.

Inoltre, quando aveva, come appunto quel giorno, incominciato a parlare dei propri debiti, era difficile distrarre i suoi pensieri altrove. Sotto l’influsso, io penso, della sua materna stirpe contadina, avvezza a considerare il debito un male più triste della morte, egli appariva in quei momenti invecchiato, più magro e difforme nel viso; ed or si effondeva in discorsi violenti, or si chiudeva severamente in sé. Ricordo, tuttavia, che spesso, mentre egli malediva ai propri dissesti economici, suonava nella sua voce una sorta di orgoglio, simile a quello di un ragazzo che vanti imprese virili. In realtà, sebbene allora io lo giudicassi un vecchio, egli era ancor molto giovane; e l’idea di avere delle responsabilità sue proprie, o la coscienza di subire un’ingiustizia, o il diritto alla rivolta, potevano ancora essergli motivo per esaltarsi, e far pompa di sé. Di più, le responsabilità e le gravezze ch’egli sosteneva eran tutt’uno coi suoi doveri d’uomo sposato: e la sposa era Anna! Ella lo rinnegava, è vero, fra le mura della nostra casa; ma tuttavia, dinanzi al mondo, Francesco era unito a lei non solo da un dovere, ma da un diritto, e, forse inconsciamente, si sentiva, al cospetto degli altri, investito della sua padronanza su Anna come di un titolo feudale. Seppure, alla guisa d’un re in incognito, egli occultava i propri splendori segreti a quegli zingari ubriaconi, era il taciuto nome di Anna che dava talora un suono squillante ed eroico alle sue proteste di umiliato. Le accuse ch’egli moveva ai propri doveri di capo di famiglia dichiaravan pure il suo legame con la diletta; e valevano ad evocargli, là in fondo alla cantina di Gesualdo, le nostre stanze e la loro padrona Anna. Similmente, altra volta, mostrando ad un estraneo le mie manine, minuscole di forma e scure di colore, e recanti perciò, insieme commisti, il segno di Francesco e quello di Anna, mio padre s’illuminava, nel volto, della propria memoria orgogliosa.

Sorda ai segreti echi, ma non all’enfasi paterna, io dovevo a quest’ultima la mia puerile opinione che i debiti d’un capo di famiglia, per quanto nefasti e sciagurati, abbian pure una loro qualità eroica. A un certo suo debito, però, mio padre alludeva con un accento misterioso, in cui suonava soltanto ripugnanza e rancore. Egli parlava di questo debito soltanto nell’ebbrezza del vino, e coi modi d’un peccatore che si accusa pubblicamente d’una colpa per riscattarla davanti alla sua propria coscienza. Taceva la persona del creditore, ma dichiarava la cifra del debito, una cifra per me, a quel tempo, inaudita, enorme; e aggiungeva essere tal debito un simbolo non solo della miseria, ma del disonore, così ch’egli non potrebbe aver pace finché non se ne liberasse. Mio padre dava in tale occasione alla parola onore quel tono drammatico e facondo che le dànno solitamente i meridionali. Ah, esclamava, una macchia simile era indegna d’un gentiluomo suo pari, e insudiciava il suo petto decorato di medaglie! lo guardavo allora la frusta giacchetta di mio padre, il suo colletto d’impiegato, e ancora una volta avevo la prova del suo vizio di mentire. Dov’erano le sue vantate insegne di gloria? Lui non ne possedeva alcuna, e, in realtà, le sole medaglie al merito, in casa nostra, eran quelle mensili a me concesse dalle suore francesi, recanti, incise nell’argento, le lettere B. M. (Bon Mérite). Eccolo, dunque, il mio bel padre, millantatore al cospetto di tutti!

La realtà dei suoi debiti, invece, non era dubbia; e, come già dissi altre volte, se ne avevano in casa nostra le prove. Circa le somme, poi, dovute da mio padre a creditori diversi, mi accadde tempo fa di ritrovare, fra vecchie carte di famiglia, dei lunghi conti di bottegai, delle cambiali, e delle ricevute di saldo firmate da qualche strozzino il cui nome basta a rievocare di sotterra scene familiari e miei puerili spettri. Tanto esigue, tuttavia, mi appaiono oggi le somme scritte sulle vecchie note, che mi vien fatto di sorriderne. Erano questi, mi domando, i nostri famosi rodomonti di debiti? Ma tant’è: per cifre simili mio padre era costretto a vendere di giorno in giorno la propria vita.

Quanto al mistero del debito disonorante, ancora poche pagine e la persona del creditore anzi creditrice, si svelerà ai nostri acuti lettori. I quali conosceranno così, nel tempo stesso, anche l’origine delle tante splendidezze di mio padre nella famosa serata dell’ Aida. Mia madre, nella stregata inerzia che la possedeva in quei giorni, non si curò affatto di ricercare l’origine di tale inopinata ricchezza, la cui somma precisa, per chi volesse conoscerla, fu di mille e cinquecento lire. Era questo, senza paragone, il più ingente fra i debiti di mio padre.