Capitolo terzo
Progetti per l’Estero
Primo saluto del cugino ad Anna
Le giornate non erano allegre né tranquille nella casa di Cesira e Teodoro. Il loro appartamento faceva parte d’un palazzo abitato per lo più da famiglie d’impiegatucci o d’operai, le cui mogli, discinte, conversavano la mattina sul ballatoio. Le scale erano anguste e sudice, di pietra. E nelle vie circostanti, in chiassosa promiscuità, s’aggiravano ragazzetti scalzi, galline, venditori ambulanti e lattai seguìti dalla loro capra. Le vie, per buona parte non lastricate, eran coperte di polvere nell’estate e di fango nell’inverno: onde spesso Cesira tornava dalle sue lezioni con la gonna inzaccherata, e ciò bastava a provocare le sue furie. Gli allievi di Cesira erano per lo più i figli dei borghesucci o popolani del quartiere e Cesira, cui l’ambizione non era bastata a riscattarsi da quella povertà, più che mai li disprezzava in cuor suo. Invelenita dalla sua sorte, era una maestra severa e rabbiosa: i suoi scolari ne avevano paura e la odiavano. Il suo viso grazioso, dai lineamenti altezzosi e puerili, appariva già sciupato dal rancore.
La sua vita di ricca gentildonna era durata poco più di un mese: dopo questo tempo, ella aveva dovuto via via spogliarsi dei begli abiti e dei gioielli, come una comparsa che abbia rappresentato in una commedia la parte d’una regina. Era pur sempre vanitosa; la sera, malgrado l’acerba stanchezza, mai rinunciava a farsi i ricci per la mattina seguente. E il suo abbigliamento era troppo vistoso e frivolo per una maestra. Perciò si bisbigliava di lei che avesse degli amanti; ma questo non fu mai vero.
Anzitutto, come si sa, ella era sempre stata di costumi rigidi, malgrado la sua civetteria. E inoltre, i gentiluomini che soli le parevano degni, ella non poteva frequentarli; e disprezzava troppo i poveri del suo ceto per abbassarsi fino a loro.
Adesso, ella non aveva più alcun fine interessato per nascondere al marito la propria ripugnanza; e in lei covava una disperazione furente, bramosa di prorompere ad ogni occasione, sì che quasi ogni discorso fra i due finiva in un litigio. Ella pareva inebriarsi di quel veleno: le sue sottili vene azzurre s’inturgidivano sotto la pelle delicata, le sue pupille si dilatavano, come affascinate dall’immagine del proprio odio. E con le labbra scolorate, asciutte, ella accusava il marito d’essere un mentitore, un fallito e un baro. Lo accusava d’averla ingannata, nascondendole la propria rovina, e d’aver approfittato della sua inesperienza per legarla a sé: – Ma tu, – domandava a questo punto, – credesti davvero di piacermi? – e s’abbandonava a un riso che pareva produrle un acuto spasimo. Gli svelava allora d’aver sempre recitato la commedia con lui, per farsi sposare, credendolo ricco; e gli dichiarava a voce alta d’averlo in tale orrore che fino il tocco della sua mano, fino il suono balbuziente della sua voce le erano insopportabile noia. Qui ella cadeva spesso in crisi di singhiozzi sterili, senza lagrime: – Ah, sono perduta! M’ha perduta! non ho più speranza! non ho più speranza! – gridava; e si spettinava, si graffiava, si batteva coi pugni il volto.
Mentr’ella imperversava in tal modo, lui la fissava, scosso da un penoso e strano tremito senile. Dopo la sua ultima rovina, era incredibilmente invecchiato; nella commozione dell’ira, la voce gli usciva stentata e roca, e gli saliva al viso un rossore nerastro. L’udir quei propositi venali, degni d’una sgualdrina, su una bocca da lui già creduta onesta, lo feriva più ancor delle acri delusioni e degli oltraggi. Egli perdeva ogni misura e fin l’antica generosità in una volontà di rivendicazione meschina e crudele: – Ah pazza! tu dunque mi accusi! tu accusi me! – esclamava, in un faticoso tumulto di parole quasi indistinte. – Come se non fossi tu, proprio tu la causa della mia rovina! e non fosse stato questo insensato matrimonio a farmi perdere parentele e amicizie! non ricordi dunque che cos’eri quando ti conobbi? eri poco più che una domestica in casa dei miei amici! e io che mi sono degradato sposandoti... che ho creduto alle tue smorfie, alle tue finte virtù, alle tue grazie... Ma guàrdati nello specchio, adesso non hai più neppur quelle... Sei sciupata, brutta, sei brutta! – Ferita nella propria vanità, Cesira, di rimando, rinfacciava allora a lui la sua decadenza fisica, enumerandogli tutte le sue bruttezze, e guasti, e miserie, con una sottigliezza perversa. In tal modo s’accaniva fino ad esserne esausta: allora, di solito s’abbatteva sul letto, dove restava per ore, coi capelli sciolti in disordine, lo sguardo incantato.
Teodoro invece, dopo un litigio, usciva di casa e andava a raggiungere i propri compagni, alla bettola o al caffè. Infatti egli non sapeva vivere senza compagni; e, perduti di vista la maggior parte dei vecchi, ne aveva trovati dei nuovi. I quali, sebbene d’un ceto alquanto più umile dei primi, appartenevano pur sempre alla sua società prediletta: quella, cioè, della gente d’origini dubbie, che vive d’ignoti proventi e ama l’ozio e le fantasie.
Le compagnie di Teodoro eran del tutto straniere e ignote a Cesira, la quale, del resto, non gli chiedeva conto né dei suoi affari né dei suoi passatempi, e s’augurava solo ch’essi lo trattenessero fuori di casa il maggior tempo possibile. Soltanto in assenza del marito, infatti, lei poteva concedere al proprio cuore un po’ di riposo e di tregua. La semplice vista di Teodoro bastava a irritarla.
Allorché s’udiva sul ballatoio il passo faticoso di lui che rientrava, e poi lo scatto della serratura, ella aveva un leggero trasalimento nei muscoli. Quanto a lui, le scenate e il contegno della moglie avevano finito con l’inaridire gli ultimi resti della sua creduta passione, ch’era stata, in realtà, solo un capriccio violento e passeggero. Non si può dire, tuttavia, che Teodoro odiasse sua moglie, essendo egli, per sua natura, incapace di odio. Ma la evitava, come si fugge un triste, maligno spirito, e con l’andar del tempo, prese anche a temerla; poiché la miseria e le infermità lo avevan reso debole, inquieto e vile.
Talvolta, dopo uno di quei litigi, ella era invasa da una smania di tentare ancora, di esaltarsi, di vivere.
Uscito Teodoro, febbrilmente si metteva in moto per la camera; e si pettinava, si rifaceva i riccioli, si profumava.
Se le sembrava d’esser troppo pallida, inumidiva un cencio di seta rossa e con esso si soffregava le guance. Poi s’agghindava con tutta la cura e la civetteria possibili, indossando il suo abito più vistoso, il cappellino più adorno, i più sottili scarpini. In questo affaccendarsi, parlava tra sé, con sorrisi amari, e ripeteva: «Ad ogni costo... non è finita... ad ogni costo...» Ma, come chi parte per una avventura indicibile, non osando d’uscir sola, prendeva per mano la figlia Anna, a quel tempo ancor piccolina, e s’avviava con lei. La sua mano nervosa stringeva quella di Anna fino a farle male; e se Anna, pur correndo, non sapeva tener dietro al suo passo frettoloso, Cesira la trascinava, strapazzandola con rimbrotti. Questa gran fretta, come un ruscello vertiginoso che poi confluisce con altre acque a formare un lento fiume, si placava appena giunti alla mèta. Era questa il Corso della città. Là sorgevano, guardati da portieri in livrea, quei palazzi che Cesira avrebbe voluto abitare non da sottoposta ma da signora; là, dietro le vetrine delle botteghe, su cuscini di velluto e di damasco, posavano dove un’aurea pantofola, dove un ventaglio di merletto, dove un diadema, dove un cappello simile a un giardino pensile, o ad un nido. Là passavano le carrozze scoperte, recanti le signore semidistese, che sorridevano, si salutavano l’una con l’altra, scherzavano coi loro cagnolini. Brune, pigre, ingioiellate come odalische, esse conversavano dalle carrozze, scambiandosi i loro vanti. E le venditrici di garofani, accoccolate sui marciapiedi vicino ai propri canestri, protendevano con la mano i mazzi, e ripetevano cantilenanti: – Signora! volete? Signora!
Composta, fiera, Cesira passeggiava, atteggiando a un lieve broncio mondano le labbra che fino a poco prima si era tormentate coi morsi. Anna le teneva dietro a piccoli passi. All’angolo del Corso con una viuzza laterale, Cesira sostava presso una fioraia, e, scelto con cura dal canestro un mazzolino di garofani bianchi, se lo appuntava sul petto, in atto dignitoso e amabile.
Di tanto in tanto, si fermava davanti alle vetrine come Eva davanti ai cancelli chiusi del paradiso terrestre. Il desiderio di quegli ornamenti proibiti si torceva in lei simile a furia, e nel pensiero ella infrangeva le vetrine, s’impadroniva delle merci preziose e, carica, ridendo e gridando come una baccante, si gettava su una di quelle carrozze e supplicava: «Aiutatemi». Di questo intimo tumulto, non appariva in lei che un pallore fugace e una collera misteriosa, per cui stringeva più forte le malmenate dita di Anna, e, magari, fingendo una colpa inesistente di lei, le graffiava i polsi con le unghie. Accadeva a volte che il suo desiderio compresso la esaltasse al punto da farle perdere ogni ritegno. «A qualunque costo!» ella imponeva a se stessa. E allora, se in una carrozza passava un gentiluomo solo, dai baffi bene arricciati, dalla lucida scriminatura, d’un tratto ella lo fissava con uno sguardo sfacciato, da cortigiana. Colui restava interdetto al curioso invito, e si voltava a riguardare, non senza un certo stupore, la signora agghindata per mano alla bambina bellissima. Però, se qualcuno, attirato, rispondeva con un sorriso, o un inchino, o magari ordinava alla propria carrozza di fermarsi, uno spavento invincibile afferrava Cesira. Ella abbassava gli occhi, e affrettava il passo, senza più guardare né le carrozze né i passanti; e quasi fuggendo ritornava a casa.
Qui giunta, lasciava finalmente la rossa e intormentita mano della figlia, e si lasciava cadere sopra una sedia, nella propria camera; le pupille dilatate e fisse, incominciava a gemere, e ad uno ad uno strappava coi denti i garofani del suo mazzo. – No... no... – ripeteva, – basta... basta – e singhiozzando si mordeva a sangue le mani.
Senza capire, stanca della passeggiata tumultuosa, Anna la osservava: e i morsi, senza pietà, ma solo con una curiosità nemica. Non diversamente da come io, tanti anni dopo, dovevo guardarle, quando mia nonna si lamentava del proprio male.
Cesira non tardò a stancarsi di quelle vane e folli passeggiate; e parve, sì, rassegnata, ma come un dannato può rassegnarsi all’inferno. Trascorrevano interi giorni senza che rivolgesse parola al marito; muta, ostile, s’aggirava attraverso le stanze, e usciva per le sue lezioni passando altezzosa fra le vicine dei ballatoi, che non degnava d’uno sguardo. Esse la seguivano con commenti beffardi, aspri: maligne leggende e calunnie correvano su lei. Se ella trovava, tuttavia, degli scolari, ciò avveniva perché le famiglie si facevano un vanto d’avere per maestra una signora titolata.
D’altra parte, ella era scrupolosa e precisa nel suo lavoro, come pure nelle faccende domestiche. Contrariamente alle donne dei Messia, fu sempre d’indole ordinata. Era, anzi, addirittura pedante, e legata ai propri oggetti da un’avara gelosia. Chiudeva i propri cassetti a chiave, e se, mentr’ella si trovava in altra stanza della casa, la figlia o il marito entravano nella sua camera, la si vedeva tosto accorrere sospettosa e ansiosa per sorvegliare di sulla soglia l’intruso, finché non se ne andasse.
Dal giorno che Teodoro le disse: – Ti sei sciupata, sei brutta, – ella prese l’abitudine di studiarsi attentamente nello specchio, come un malato a morte che esamini ogni giorno sul proprio viso i nuovi segni del male incalzante. Insieme spaurita e severa, scrutava i propri tratti uno ad uno, e chiamava Anna per chiederle: – Vedi qui? c’è una ruga? – rimanendo sospesa ad attendere la risposta della figlia come un verdetto di condanna. Se poi, mentre era allo specchio, il marito le rivolgeva la parola, ella evitava di rispondergli, e, pallida, le pupille ingrandite, mormorava a bassa voce preghiere strane; giacché s’era persuasa che il marito le gettasse la mala sorte.
È un fatto che, in quello specchio, il suo viso le appariva di giorno in giorno invecchiato. Come se le sue fallite ambizioni la bruciassero dal di dentro, si consumava e appassiva. Già, nel tempo di cui parlo, le prime rughe segnavano il suo volto, sul quale era sceso un arido pallore. Quando compié i trentacinque anni, aveva ormai l’aspetto d’una vecchia. E quand’io la conobbi, come sappiamo, pur non avendo compiuto i sessanta, pareva decrepita.
Fin dalla prima infanzia, Anna parteggiò per il padre, e i motivi di questa predilezione erano molteplici. Anzitutto, mentre Cesira pareva considerar la figlia null’altro che un peso di più nella sua vita già troppo gravosa, Teodoro, al contrario, l’adorava: si può dire, anzi, che per la prima volta dacché era vivo egli fosse innamorato d’un amore vero, innocente e inguaribile. La grazie della piccola figlia (in cui gli pareva di rivedere, più belle e delicate, le fattezze delle sue sorelle bambine), suscitava in lui quell’orgoglio familiare e di casta ch’egli aveva già condannato in altri. L’espansivo ardore del suo carattere, non spento in lui dall’età, poteva consumarsi alfine in un sentimento fedele, e senza peccato. Inoltre, l’età, e la perdita delle antiche attrattive, gli avevan portato una nostalgia di affetti, e un trasporto verso la gioventù, ai quali si doveva in parte, pur nella mescolanza di sentimenti più torbidi, la sua unione con l’ingenua maestrina.
Adesso, la sincera tenerezza rifiutata da Cesira egli poteva offrirla, intatta e più limpida, ad Anna; e il suo candido idillio con Anna gli dava delle gioie che nessun altro legame gli aveva dato mai.
La sua voce roca, interrotta dalla balbuzie, non si stancava di vezzeggiare la bambina, volgendole nomignoli e lodi che parevano esprimere, più che l’affetto paterno, una specie di mistico rapimento. Essi non suoneranno strani, del resto, a chi conosca i modi della nostra popolazione meridionale. – Cuore mio –, le diceva, – bella santa, carne mia, sangue mio, madonnuccia del padre tuo, – e le copriva di fitti baci le mani, e le dita una per una, e lo spazio fra dito e dito, solleticandola dolcemente sotto la palma per farla ridere. – Colombella! – le diceva udendo il suo riso e, perfino, componeva in onor suo dei piccoli madrigali come: – Di chi è la più bella figlia della città? È mia? La gente passa e dice: «Come profuma questo giardino di rose!» E il papà dice: «Non è un giardino, ma una sola rosa colombella. È Anna mia».
A lei piaceva d’ascoltare suo padre mentre parlava così, e ancor di più le piaceva d’ascoltarlo quando, improvvisando arie e motivi, egli le volgeva i propri complimenti in forma di canzoni; e presala sulle ginocchia la faceva dondolare secondo il ritmo di quelle musiche. Anna, divertita, rideva, rovesciando indietro il capo, e suo padre canticchiava: «Bocchina rosa e denti gelsomini!»
Egli aveva temperamento musicale, e voce intonata, come quasi tutta la gente dei nostri paesi; ma le note uscivano ormai dalla sua bocca tremule e spente. Anna, tuttavia, se ne deliziava, e nemmeno il tenore più celebre, o il più prezioso violino, le sarebber parsi cantori più bravi di suo padre.
Simili festosi colloqui avevan luogo per lo più quando Cesira era fuori, ché la presenza della moglie intimoriva e raggelava Teodoro, il quale senza dubbio, credo, avrebbe disertato per sempre la sua triste casa coniugale, non fosse stato per Anna. Talvolta, come farebbe un ragazzo con una sua sorella minore, egli proponeva alla figlia di fuggirsene insieme, loro due soli, e andarsene per il mondo. Gli piaceva di concertare lungamente, con Anna, i piani romanzeschi di questa fuga; e poiché nel passato aveva, in realtà, viaggiato molto, rievocava all’attonita bambina le nazioni e le contrade visitate già da lui solo, avanti che lei nascesse, e dove adesso ritornerebbero insieme. Per non confondere con nomi astrusi la mente infantile dell’ascoltatrice, egli soleva raccogliere, nei suoi racconti, tutti quei paesi remoti e stranieri sotto l’unico nome di: Estero. E le descriveva i favolosi itinerari che rifarebbero insieme, montando or su carrozze a quattro cavalli, ora su treni, ora su slitte trainate da cani, ora su navi e battelli, ora, infine, per l’aria, sul dirigibile; e le città ove si fermerebbero, le città dell’ Estero, che si chiamavano Parigi, Venezia, Pechino, Calcutta, Nuova York, Pietroburgo. A lungo Teodoro si fermava a descrivere queste città; ma, vuoi per soccorrere con la fantasia la propria memoria indebolita, vuoi per meglio commuovere l’immaginazione di Anna, si atteneva solo in parte, nelle sue descrizioni, alla scienza geografica e alle proprie veraci esperienze. Le città da lui descritte erano strane contaminazioni d’opposte metropoli, nelle cui piazze imperiali la Leggenda e l’Utopia sedevano in mezzo a uno sciame di scherzose favole paterne. Ma Anna ascoltava simili descrizioni e progetti con una fiducia religiosa, non dubitando ch’egli manterrebbe, prima o poi, le sue promesse, e la condurrebbe seco all’ Estero. Intanto, sebbene lui le ripetesse che le città dell’Estero, per quanto si cerchi d’immaginarle appaion sempre diverse da come ci si aspettava, ella andava costruendo tuttavia, su quei racconti paterni, una sua geografia strabiliante.
Sovente fantasticava intorno a queste meraviglie, e bramava che suo padre si risolvesse presto a rapirla, e a condurla in giro per l’Estero, secondo i loro progetti comuni. Talvolta, non senza timidezza, s’indusse a sollecitarlo; ma a tali sollecitazioni suo padre, mortificato, rispondeva di non avere, sul momento, abbastanza denaro per il viaggio: aggiungendo subito, però, d’aver intrapreso degli affari donde sperava grandi guadagni, per cui si potrebbe partire, forse, l’anno prossimo. Detto ciò, egli cadeva in pensose e taciturne malinconie; e Anna, sospirando fra sé, rinunciava a insistere.
Gli affari di cui parlava Teodoro Massia, oltre ad essere d’una specie alquanto dubbia, gli procuravano, in realtà, magrissimi guadagni. Di questi, una gran parte egli la spendeva per comperare alla figlia vestiti e regali, e ciò provocava molti litigi, perché un simile sciupìo, quando in casa mancava il necessario, esasperava Cesira.
A lui piaceva di vestire Anna come una sposa, e di condurla a passeggio, per farla vedere alla città. Simili passeggiate col padre erano assai diverse da quelle, descritte, in compagnia di Cesira. Le passeggiate col padre erano tutte a onore e gloria di Anna. Egli adattava il proprio passo a quello di lei, e si chinava per conversare allegramente insieme. Le mostrava piazze, palazzi e strade narrandogliene la storia e celebrandole i fasti e le ricchezze dei Massia.
Quando lei, per la sua piccola statura, non riusciva a vedere bene, egli la sollevava sulle braccia, sebbene anche quel lieve peso fosse sufficiente a farlo ansimare. E la conduceva nelle pasticcerie più eleganti, dove lei stessa, come una dama, ordinava ciò che più le faceva voglia, subito ubbidita dal cameriere, il quale, fattole un inchino, le recava sopra un vassoio tutto quanto ella aveva chiesto. Sul Corso, il padre sapeva dirle il nome di quasi tutti i signori che passavano in carrozza: talvolta, anzi, li salutava, con una scappellata e un inchino cerimonioso. Alcune gaie signore gli rispondevano con gesti festosi d’addio; ma la maggior parte di quella gente gli rispondeva con un freddo, infastidito cenno dei sopraccigli, o magari voltava la testa per non salutare affatto. Anna, estasiata, non poteva avvertire simili ingiurie, né egli, da parte sua, ne sembrava ferito. Recava per mano Anna come una sfida alla sua sprezzante società, con l’aria di dire: «Ecco, a voi, guardate la mia bella figlia».
Come Cesira, anche lui si fermava presso il canestro d’una fioraia, e, dopo aver invitato Anna a scegliersi un mazzolino, voleva lui stesso infilarglielo nella cintura, e diceva: – Per la regina mia.
Un giorno (a quel tempo ella aveva sei anni), Anna, trascelto appena dal canestro il suo mazzo di ciclamini violetti, se lo rigirava fra le dita, ferma, in attesa che suo padre pagasse la fioraia. Ma Teodoro indugiava, distratto dallo spettacolo del passeggio; a un tratto si volse ad Anna, e le disse con fervore:
– Guarda, guarda tua zia Concetta e tuo cugino Edoardo!
C’era un crocchio di gente intorno a quella fioraia; e Anna, impedita dalla sua piccolezza, non riusciva a veder bene. Allora Teodoro la sollevò in alto sulle braccia, e tenendola così sospesa al disopra della gente, le spiegava:
– Li vedi? sono nella terza carrozza, quella coi due cavallini bruni.
Anna guardò, e vide perfettamente, nella carrozza indicata, una signora dall’aspetto pigro e opulento, dalla pelle bianca; di sotto al cappello di velluto, abbassato davanti, le sporgeva sulla nuca una grande crocchia nera, un po’ allentata. Ella teneva gli occhi bassi, con un riserbo che sembrava piuttosto d’orgoglio che di modestia. E il suo vestito poco appariscente, quasi trasandato, non nascondeva tuttavia la nobiltà del suo rango. Vicino a lei sedeva un fanciulletto circa dell’età di Anna: il quale, cosa rara a vedersi in quei paesi, aveva una capigliatura bionda che gli scendeva in lunghi riccioli sulle spalle, come a una bambina. Gli occhi erano irrequieti e lucenti, d’un bruno dorato; egli dondolava le gambe, chiuse, fino a mezzo polpaccio, in candidi stivalini, e nelle mani minute, grassocce come tutta la sua persona, stringeva un tamburo verniciato di cui pareva oltremodo gloriarsi.
– Li vedo, li vedo, – bisbigliò Anna. – Allora, salutalo, Annuccia, salutalo, – la esortò suo padre, con voce affannosa per la fatica di sorreggerla, – digli: addio, Edoardo.
Anna impallidì per l’emozione; ridente, agitò il suo mazzolino, e gridò: – Edoardo! addio.
La signora della carrozza levò gli occhi a questo richiamo; ma, scorti Anna e suo padre, s’imporporò in viso e di scatto volse il capo per non rispondere. A bassa voce, ella ammonì il bambino; ma questi non volle udirla. Guardò Anna incuriosito, e sembrò esilararsi a tale vista. Acceso, ridente, agitò a sua volta il proprio tamburo, gridando: – Addio! addio!
La madre, turbata, ripeté con maggior forza l’ammonimento; ma, invece d’intimorirsi, il bambino, stimolato dal divieto, si esaltò. Poiché la carrozza aveva oltrepassato l’angolo della fioraia, egli si levò in piedi sul sedile, e, di dietro il mantice ripiegato, agitò ancora il suo tamburo ripetendo addio.
– Edoardo! Edoardo! – gridò Anna esaltata a sua volta; ma in quel punto suo padre, stanco, la depose a terra, ed ella non poté più scorgere la carrozza.
Lungo la via del ritorno, padre e figlia non parlarono che del cugino. Anna si stupiva soprattutto di quei capelli così biondi, e suo padre le spiegò che fra le famiglie della città ve n’erano alcune discendenti dai Normanni i quali, molti secoli prima, avevano invaso la regione. In tali famiglie, i biondi non erano rari. Il padre di Edoardo, di nome Ruggero Cerentano, era appunto uno di questi: egli aveva sposato Concetta Massia, sorella minore di Teodoro, e ne aveva avuto due figli. La maggiore, una fanciulla, che veniva educata in un convento di suore, era bruna come la madre; il minore, invece, Edoardo, rassomigliava in tutto al padre.
D’altra parte, soggiunse Teodoro, egli non poteva raccontarle, intorno a questo cugino, molto più di quanto la stessa Anna aveva visto. Soltanto per via indiretta gli arrivavano notizie di sua sorella e degli altri parenti, coi quali, da molti anni, aveva interrotto ogni relazione. E qui, in tono drammatico, accennò a misteriosi dissidi. Vedendo poi l’interesse di Anna allorché si parlava del cugino, le disse scherzando: – Scommetto che ne sei già innamorata. Benissimo, sarà tuo marito.
Così riprenderai nel mondo il posto che ti spetta per esser nata signora –. Anna, rossa in volto, rise follemente, al punto che gli occhi le si empirono di lagrime. Calmatosi, però, questo riso, ella si aggrondò, quasi offesa, e non volle più parlare di suo cugino. Per molti giorni, tuttavia, non cessò di pensare a lui; se voleva, in segreto, rallegrarsi, vagheggiava il ricordo di quelle due mani grassottelle, simili, per il loro candore, a garofani o mughetti, che si agitavano per salutarla. Poi si ripeteva le parole: sarà tuo marito, e rideva convulsamente fra sé.
Oppure si faceva rossa ripensando a quando, inebriata e audace, lo aveva chiamato: Edoardo! Edoardo! In segreto, a bassissima voce, e, piena di timore, pronunciava talvolta questo nome: e le pareva che il dire: Edoardo, la investisse d’un’arcana autorità. Subito, a quel nome misterioso, le si spalancavano le porte, ed ella veniva assunta alle regioni, per lei sovrumane, dei signori che andavano in carrozza sul Corso e abitavano i palazzi. A questo punto, si ripeteva, quasi a confermarselo: Siamo cugini, e tale verità la colmava d’uno sbigottimento ineffabile: simile a quello d’un povero pastore che ignora le proprie origini e infine, da un genio, apprende d’essere un semidio, figlio di dèi.
Purtuttavia, suo cugino restava sempre in una regione celeste, troppo più alta di quella sua, di Anna. E s’ella riandava al momento del loro saluto, allorché una festosa corrispondenza s’era svolta fra loro, ciò le pareva un miracolo. Quella confidenza effimera le dava un brivido di delizia.
Ogni volta che usciva a passeggio, sebbene, per fierezza, non lo dicesse, ella spiava avidamente fra le carrozze, in cerca di lui. Questa semplice ricerca la faceva impallidire e tremare: «Se lo vedo, – pensava, – cadrò in terra svenuta, o fuggirò via». Ma non rivide più la carrozza di Concetta e di Edoardo: finché Teodoro, un giorno, le svelò che il padre di Edoardo, al quale Anna, nel suo pensiero, aveva messo nome il Normanno, era morto precocemente, dopo una lunga malattia. Per cui la sua famiglia, in lutto, non poteva farsi vedere nelle strade.
Anna rinunciò dunque alla speranza di rivedere il cugino al passeggio. D’altra parte le passeggiate con suo padre, come già quelle con Cesira, si fecero sempre più rade, finché non cessarono del tutto. In quegli anni, infatti, la salute di Teodoro, già gravemente scossa, andò rovinando, ed egli dovette negarsi fino a quell’ultima gloria d’uscire in città con la bambina. Il suo passo faticoso e l’affanno di cui soffriva non gli permettevano di spingersi più in là del proprio sudicio quartiere dov’egli terminava, per solito, in una delle tante osterie le sue solitarie passeggiate. Così, di giorno in giorno, il nostro bel moschettiere d’un tempo finì con l’incanaglirsi del tutto e perdere ogni rispetto di se medesimo e ogni apparenza di decoro. Passavano delle intere settimane senza che si radesse il volto o si mutasse i panni. Spesso, rincasando la sera brillo, si coricava tutto vestito, e come Cesira lo scuoteva dal sonno esortandolo rudemente a spogliarsi («secondo le usanze della gente civile»), egli le ubbidiva, ma penosamente e quasi in sogno. In quei gesti abituali di scalzarsi e di svestirsi la sua persona bianca e scheletrica appariva un oggetto di terribile pietà, come d’un vagabondo agonizzante forzato a levarsi da un letto ove si gettò per morire. La piccola Anna provava in modo oscuro un sentimento cosiffatto; e non poteva perdonare a Cesira la sua severità.
In quell’epoca, in verità, uno straniero che avesse visto per le vie l’ossuta, allampanata figura di Teodoro Massia, in quei suoi abiti informi e incollati, la barba cresciuta sul volto malinconico e scarno, avrebbe potuto crederlo un malato levatosi dal suo letto d’ospedale, o un prigioniero fuggito da un campo d’umiliazione e di tortura. Invece, si trattava solo d’un ubriacone, che si faceva quasi in tutto mantenere dalla moglie, una povera maestra, e, adesso, se ne tornava a casa dall’osteria dove aveva passato il pomeriggio a bere e a giocare alle carte.
Il pensiero di Anna non lo lasciava. Non v’era giorno che rincasando, magari ubriaco, non le portasse dei piccoli doni, i quali si facevano, ohimè, sempre più miseri.
Anna, tuttavia, mostrava gratitudine per questi regali; e sospettiamo addirittura che li supponesse, malgrado la lor modesta apparenza, oggetti costosi e di pregio, poiché le venivano da lui.
Talvolta egli la chiamava a sé, e le domandava, con voce avvinazzata e commossa, s’ella ricordava ancora i bei pomeriggi che uscivano a passeggio insieme. Ella accennava di sì, e lo fissava; e lui, leggendo forse in quegli occhi puerili una domanda, aggiungeva, con accenti patetici, che purtroppo quei bei tempi eran finiti: lui s’era fatto troppo brutto, spiegava, e certo una bambina bella come lei si vergognava a mostrarsi in città con un uomo tanto brutto. A queste parole, Anna alzava una spalla e rideva amaramente, incredula: il fatto è che a lei Teodoro pareva sempre bellissimo.
Appena egli usciva, ella correva alla finestra, e come vedeva la figura di lui sbucar fuori del portone sottostante nella piazzetta, e internarsi in un vicolo, provava un’acuta invidia e nostalgia. Non dubitava che i siti ignoti ai quali egli s’incamminava, per il solo motivo d’esser frequentati da lui fossero ricchi e magnifici. E temeva sempre che, di quel passo, egli se ne partisse fuggitivo per l’Estero, secondo i loro progetti comuni, senza portarla con sé. Un giorno, in assenza di Cesira, non resistendo all’amaro pungolo di questi sospetti ella uscì sola sola di casa, e si mise alla ricerca di suo padre per le vie del quartiere. Dopo aver vagabondato invano per quasi mezz’ora, in un vicolo s’imbatté in lui che usciva da una botteguccia di droghiere dove aveva acquistato, per portarle in dono a lei stessa, certe pastiglie attaccaticce di zucchero rosa. Anna si fece raggiante a tale vista; e tenuta per mano da suo padre, stringendo nella destra il cartoccetto dei dolciumi, passo passo tornò a casa insieme a lui, come ai loro bei giorni.
In casa, l’atteggiamento di Cesira, ch’era nel tempo stesso, davanti a lui, quello d’un giudice e d’una vittima, teneva il marito in uno stato di continuo timore e dipendenza. Solo il vino lo liberava da simile disagio, e d’ogni altro ritegno. La sua esistenza sciagurata, i suoi vizi e le sue vergogne parevan allora diventare uno spettacolo ai suoi propri occhi. La considerazione della propria miseria lo traeva a una sorta d’entusiasmo; egli si batteva enfaticamente il petto coi pugni, e, chiamata Anna a gran voce, invocava la sua testimonianza: – Anna, guarda a che cosa han ridotto tuo padre! – esclamava, – guarda che cosa han fatto di Teodoro Massia di Corullo! Anna! tu vedi in tuo padre un uomo che preferì sempre la magnanimità alla vendetta; ma la vendetta è meglio del disonore. Le colpe esigono giustizia e riparazione! Anna, tuo padre non è finito, no, essi mi credono finito, ma io non sono finito ancora! L’ora della rivincita non è suonata, no, essi non sanno ancora, ma sapranno ben presto chi era tuo padre! E tu guardami, Anna: sotto quest’aspetto di paria, d’ebreo errante che non ha dove posare il capo, di soldato mercenario della cieca avventura, di maledetto la cui risata non è se non l’eco d’un singhiozzo, ah, in questo petto batte sempre lo stesso cuore! È il cuore di colui che t’ha dato un gran nome, il cuore di Teodoro Massia di Corullo, che non muta per mutare d’eventi e di fortuna, e che grida vendetta! – Di qual sorta di vendetta egli parlasse, e chi fossero i misteriosi avversari cui alludeva, è difficile dirlo, né, probabilmente, avrebbe saputo dirlo lui stesso. Secondo il solito, i nomi delle cose bastavano a lui per inspirargli i veraci sentimenti delle cose medesime. Un dolore sincero per la giustizia offesa, un sincero sdegno, e una sincera sfida ai nemici suoi propri e di Anna scuotevano la sua persona gesticolante e la sua voce ebbra. Né meno sincero egli era allorquando, un minuto dopo, dalla rivolta e dall’esecrazione cadeva in un accesso di grandezza: e prometteva ad Anna magnifici giorni avvenire, onori e ricchezze degni d’una Massia. Lui, Teodoro, avrebbe riconquistato per lui tutto ciò che le spettava di diritto.
Anna doveva soltanto attendere ancora un poco, fidando ciecamente in suo padre: ché lui s’occupava di ciò giorno e notte, aveva i propri disegni infallibili. Ella era nata con un nome di signora, ma suo padre la farebbe regina! Qui Teodoro toccava la nota culminante delle sue declamazioni; e, se un simile vocabolo non fosse disadatto all’abbrutita immagine dell’ubriachezza, diremmo che si trasfigurava. Quasi nel medesimo punto, finiva col prorompere in singhiozzi. La consapevolezza d’aver tratto nella propria disgrazia la bambina amata, lo stringeva d’improvviso, e i suoi scenari crollavano, le grandi parole si svuotavano per lui d’ogni prestigio. Fra i singhiozzi, chiedeva perdono ad Anna, con accenti febbrili e invasati, ripetendo d’esser maledetto, e giungeva fino a piegare i suo magri ginocchi davanti alla bambina.
Costei lo mirava confusa, ché non vedeva nessuna colpa né maledizione in suo padre, e non sapeva se giudicare un atto di supplica o di omaggio quella specie di mistica riverenza nella quale, a dispetto delle membra malferme, egli spirava una grazia antica. Invaghita e timida, Anna non sapeva trovare una degna risposta. Quanto a Cesira, a scene cosiffatte i suoi tratti stanchi e invecchiati s’impietrivano in un sorriso d’accusa e d’ironia.
Più d’una volta, negli alterchi, Anna aveva udito Cesira gridare al marito: ubriacone. Ma questa parola, come ogni altra accusa che toccasse a lui, l’aveva indignata contro sua madre, senza oscurare affatto le virtù di Teodoro ai suoi occhi. Non di rado le era accaduto, percorrendo le povere viuzze in cui viveva, d’imbattersi in uomini ubriachi; ma le sarebbe parsa empietà e follia paragonare dei personaggi così ignobili a suo padre.
Poiché Cesira, d’altronde, s’ostinava, per motivi di decoro, a ignorare le bettole e cantine dove suo marito spendeva i propri dopopranzi, ciò rimase avvolto nel segreto anche per Anna. Ma non v’è dubbio che se così non fosse stato, Anna, al vedere Teodoro seduto in una bettola, lo avrebbe creduto intento a un qualche misterioso rito paterno; nei poco brillanti compari che lo circondavano avrebbe supposto celarsi dei gran signori travestiti; e avrebbe invidiato quel covo d’ubriachi e l’aria infetta che si respirava là dentro.
Gli spettacoli d’ubriachezza dati da suo padre apparivano ad Anna quali manifestazioni d’una sorta di morbo sacro, e affascinante. È un fatto che Teodoro sapeva esaltarsi sulle proprie sconfitte come in passato s’esaltava sulle proprie rivolte; egli solennizzava anche la propria degradazione, e, come gli ingenui animali gustano il sangue delle ferite, gustava il sapore del decadimento.
Infine, lui medesimo, e non altri, era stato l’inventore della sua presente rovina e bruttezza; alla sua natura esuberante non eran bastati l’ozio e gli onori che la nascita gli riserbava; e, pur di rappresentare una parte più ricca, egli aveva preferito d’assumersi nella vita la parte del proprio diavolo. Per questo, l’immagine di lui non era d’un vinto (come tale, Anna l’avrebbe disprezzato, perché ella nutrì sempre, nei riguardi dei vinti e degli umiliati, un istintivo disprezzo); l’immagine di lui somigliava a quella d’un fanatico che alimenta il fuoco nel quale vuol essere consunto. E sua figlia, durante le scene su descritte, lo contemplava con inesausta ammirazione.
Tuttavia, passata la prima infanzia, ella incominciò a rendersi conto che il vino era nemico a suo padre, e, dunque, a lei medesima. Tanto più che la manifestazioni, per dir così, eroiche dell’ubriachezza, diventavano in suo padre sempre più rade. Avveniva ch’egli tornasse a casa come istupidito e reso muto da una stanchezza mortale, sì da esserne, talvolta, costretto al letto per alcuni giorni. Una sera, poco dopo il crepuscolo, tornò con una tempia sanguinante da una piccola ferita; sua moglie non c’era, e ad Anna egli raccontò d’avere urtato contro lo spigolo d’un muro nel salire su per la scala male illuminata: com’era avvenuto in realtà. Ma Anna sospettò che nei luoghi dov’egli si recava a bere vi fosse della gente a lui nemica, intesa ad assalirlo per fargli del male, o addirittura ucciderlo. Ella meditò allora di seguirlo non veduta, e quindi appostarsi nell’ombra, non discosto da lui, per accorrere a difenderlo appena fosse necessario. E un bel giorno, attese ch’egli fosse uscito, e come lo vide, dalla finestra, sbucare fuor del portone, si precipitò giù per le scale e si mise a seguirlo guardinga, alla distanza di qualche passo. Ma, fatti appena pochi metri, fu presa da vergogna all’idea di spiare suo padre come un malfattore; onde lo rincorse e, tutta in fiamme, quasi piangente nell’emozione dell’audacia, gli chiese dove andasse. Sorpreso, Teodoro le rispose che si recava presso certi amici, i quali dovevano aiutarlo a rifarsi ricco; tali amici, soggiunse, non ricevevano fanciulline come Anna, essendo tutti uomini e di grave età; ma se Anna preferiva ch’egli rinunciasse oggi ad andare da loro e tornasse con lei a casa, lui le avrebbe ubbidito, per farla contenta. A questo, Anna si vergognò di accettare un favore così splendido, e, scotendo con violenza il capo, lasciò suo padre e fuggì via. Da quel giorno, però, egli uscì assai più di rado, scegliendo di solito i momenti che in casa non c’era nessuno per recarsi inosservato alla sua mèta solita. Ma il cammino da farsi per arrivarvi, e, peggio ancora, per tornarne indietro, era diventato un gravoso viaggio per lui, soprattutto quelle sei o sette rampe di scale, nella cui salita, certe volte, egli impiegava più di mezz’ora. Arrivava a casa barcollante, affannoso; e s’aggirava per le stanze ripetendo frasi insensate e urtando contro i mobili.
Quand’egli rincasava in tale stato, Cesira si rinchiudeva nella propria camera, donde la si sentiva inveire. Accadeva che, sola fra una bambina e un uomo ubriaco, non trovando una creatura ragionevole con cui sfogare la propria ira, ella cadesse a volte in un vero deliquio. Come sentiva questo malore avvicinarsi, presa da paura, e non senza intenzione, ella riapriva l’uscio della propria camera, quasi a chiamare a testimoni la figlia e il marito; poi la si vedeva abbattersi a terra sulla soglia. Pur nella sua mente oscurata, Teodoro si spaventava e chiamava la moglie per nome; Anna le scuoteva le braccia e le asciugava la fronte sudata.
In pochi secondi, sua madre rinveniva, e Anna pensava, disdegnosa: «Fu tutta una commedia».
Sempre più, col passare del tempo, Anna diventava ostile a sua madre. Anzitutto, perché nei litigi fra i due coniugi, Teodoro era sempre meno violento, e riceveva le più gravi offese; e inoltre perché, dalle accuse ch’egli gettava contro la moglie, Anna aveva dedotto la convinzione che la persona di sua madre contaminasse la famiglia. Mentre le accuse di Cesira al marito suonavano al cuore di Anna come calunnie, le repliche esasperate di lui erano per Anna altrettante rivelazioni. – Mi son degradato sposandoti, – egli ripeteva, e Anna credette vedere nella persona di sua madre il principale ostacolo che separava loro due altri dai magnifici personaggi delle carrozze. Sua madre era in tutto diversa da suo padre e da lei: era di statura piccola, e aveva occhi d’un lucido azzurro. Camminava quasi di corsa, sebbene a piccoli passi, e così pure parlava frettolosamente. Né mai soleva confidarsi con la figlia, raccontandole di se stessa e del proprio passato, come faceva Teodoro; evidentemente, il suo passato era oscuro, e tale da tenersi occulto. I suoi stessi sacrifici, lo stesso accanito lavoro cui si sottoponeva, ella aveva l’aria d’imporli a se medesima come un dovere odiato, e agli altri come un’accusa o una vendetta.
Fra i malevoli gruppi delle casigliane, Anna aveva sorpreso, al passaggio di sua madre, qualche voce chiamarla strega. Inoltre, ella soffriva di accidenti bizzarri, che accrescevano la diffidenza di Anna, invece di sedurla col loro mistero, come avveniva per suo padre: a volte, per esempio, lei così seria e triste, per una inezia qualsiasi aveva assalti d’un riso convulso, irrefrenabile, che la faceva lagrimare. Da principio, trascinata, Anna rideva a sua volta; ma poi vedeva la madre, pur nella folle ilarità, premersi il petto e la fronte gemendo: – Ah Dio, ah Dio, mi fa male –. Né era troppo raro il caso che tali risate si risolvessero in amari singhiozzi.
Altre volte, sebbene in piena salute, Cesira veniva còlta da ribrezzo come accade a chi soffre di febbri. Le sue mani incominciavano a scuotersi come due foglie in balìa del vento invernale, e i denti le battevano. Quasi compiaciuta da questo fenomeno, ella diceva con voce rotta: –
Anna, guarda, guarda come tremo. Non posso frenarmi, non posso... – E aveva, nel dir ciò, un sorriso maligno, quasi a significare: «È colpa vostra se sono così».
Si era fatta misantropa; né usciva mai dal suo severo riserbo se non per offendere o per ferire. Di rado, poteva accadere che, in occasione di una visita, si animasse, e, tutta agghindata, arricciati i capelli, tinte di rosso le guance, diventasse gaia e vivace. C’era però, in questa sua frivolezza, un che di smanioso e ambiguo, che metteva il disagio. E ben presto, ella usciva in qualche cattiveria che le inimicava il visitatore. Per Anna, ella era pressoché un’estranea se non addirittura un’intrusa; in cuor suo, Anna la disprezzava. Tali suoi sentimenti verso la madre diventarono ancora più acuti da quando Anna incolpò Cesira della malattia che condusse a morte Teodoro. In realtà, già da tempo la sorte di Teodoro era segnata; e l’accidente, cui nella sua mente puerile Anna attribuiva la colpa della crisi, non fu invece altro che un’occasione.
Ad ogni modo, l’occasione scelta dalla sorte per finire Teodoro, fu proprio una di quelle liti domestiche tanto frequenti in casa Massia. Avvenne un giorno che Teodoro, tornato a casa in preda al vino, si spingesse fino alla stanza ove sua moglie teneva scuola a due ragazzette, e, aperto l’uscio, di sulla soglia pronunciasse non so quali sciocche parole con la sua voce ubriaca. Le due scolare si guardarono, e inutilmente si sforzarono di trattenere il riso; ma Cesira, alla vista del marito, aveva gettato un grido quasi avesse scorto un fantasma. Poi si volse alle due ragazze, e, vedendole ridere, si levò come sferzata: –
Via, sfacciate, stupide! – gridò, – via di qui! – Le ragazze, spaurite, s’affrettarono ad uscire, e Cesira ebbe dinanzi solo il suo avversario (Anna accorse poco più tardi alle grida). In verità, quell’avversario pareva, a vederlo, non troppo diverso da un’ombra, ma, come certi furiosi animali che, per manìa di risse, s’avventarono contro le ombre, Cesira, protesa, urlante, si dette a inveire contro lo spettrale ubriacone. Ai soliti vecchi insulti ella, fuor di sé, mescolava parole inaudite e triviali, di quelle che le infime popolane sogliono urlarsi a vicenda nelle loro baruffe. Probabilmente le aveva apprese da bambina, nell’umile mondo della sua famiglia, e adesso, godeva a liberarsi d’ogni ritegno, pari a una cavalla sfrenata. Sembrava che in questa indegnità, in questo brutale strazio ch’ella faceva della rispettabile signora Cesira, il suo odio contro il marito, alfine, trovasse intero sfogo. Né ella prevedeva certo, in quel momento, che per l’ultima volta, oggi, le veniva concessa una simile soddisfazione.
Nella sua strana voluttà, la donna quasi non vedeva più il suo nemico; il quale, aggrappato a un battente dell’uscio, gli occhi sanguigni fissi su di lei, si sforzava di raccogliere la propria ragione vacillante per una adeguata risposta. Ma d’un tratto l’espressione di lui, febbrile e intenta, si tramutò nell’inerme terrore di chi domanda aiuto. Egli cercò di parlare, ma soffocò; e, abbattuto il capo sul petto, stramazzò sul divano vicino.
Per qualche minuto, la moglie e la figlia lo credettero morto; ma com’egli riaprì lentamente gli occhi stravolti e opachi, Anna, curva su di lui, volse a sua madre uno sguardo cattivo, col quale, freddamente, la scacciava dal capezzale di Teodoro. Con quello sguardo, la fanciullina di undici anni iniziò il suo dominio sulla mente confusa di Cesira. Fu lei, da quel momento, la padrona. La sua fanciullezza finì, e Cesira non poté mai più liberarsi, in presenza della figlia, da un sentimento di soggezione servile e pavida: non dettato però dall’amore.
Per molti giorni, Teodoro non poté articolare né le membra né la voce. Poi riacquistò la parola e, in parte, i movimenti del busto; ma non gli guarì più la paralisi delle gambe. Egli dovette così trascorrere sulla sua poltrona d’inferno gli ultimi due anni di vita che gli restavano: e Anna, che sempre fu crudele ed egoista col suo prossimo, ma disperata nel sacrificio allorché era vinta dall’amore, fu la compagna di quella sua lunga agonia.