Capitolo settimo
La figlia del bottegaio si mortifica
S'ode per un istante la voce del Cugino

In fondo, Cesira non isdegnava troppo chi la maltrattava. Con Anna, la quale, al cospetto delle sue crisi, mostrava solo l’indifferente fastidio che han talora i crudeli adolescenti per la cupaggine degli adulti; con Anna ella s’era fatta sottomessa e docile. Del loro litigio in presenza del morto Teodoro, madre e figlia non avevano più parlato; ma forse Cesira rivedeva sempre nella figlia l’accusatore e il giudice di quella notte, e ciò, nelle sue presenti angosce, la poneva alla mercé di Anna. Questa già sorpassava di molto sua madre nella statura; a volte, nella negligenza del sonno, le sue giovani membra si scoprivano, e la loro bellezza nascente era tale da non parere impudica, anche se nuda. Una simile fiera bellezza, opposta alla femminea fragilità che aveva fatto, un tempo, la grazia di Cesira, ispirava a quest’ultima ammirazione e rispetto. Spogliandosi o rivestendosi in presenza della figlia, ella, presa da una timida vergogna, cercava di nascondere agli occhi di lei le proprie membra appassite. Il suo corpo s’era smagrito eccessivamente, e le sue braccia, nude fuor della camicia, apparivano sottili e deboli come quelle d’un bambino: simile fragilità, però, non era, come prima, graziosa, bensì soltanto triste. Il suo volto pareva rimpicciolito, le sue spalle già s’incurvavano. Pettinandosi, la mattina, ella provava ogni volta una stretta al cuore nel vedere che folte ciocche dei suoi capelli cadevano sotto il pettine, ed eran già grigie.

Quando sbrigava le sue faccende domestiche, ella correva qua e là per la casa come una fiammella percossa dal vento. Per Anna, aveva delle attenzioni servili: prima di recarsi alle sue lezioni, le portava la colazione a letto, dove Anna pigramente s’indugiava; e tornando a mezzogiorno, cucinava il desinare per ambedue. Un giorno, entrò tutta affannosa, e ridendo follemente, rossa in volto, raccontò che un uomo l’aveva seguita. Era un uomo, spiegò, di bella statura, vestito con eleganza; ma poiché le parve, a questo punto, di legger negli occhi della figlia un incredulo disdegno, soggiunse: – Avrà voluto derubarmi, – e scosse ridendo la borsetta che teneva appesa al polso. Indi, secondo i suoi bizzarri umori, scoppiò in lagrime. Probabilmente, quest’avventura non era che una bugia.

Un’altra volta, Anna, durante il suo giro per le botteghe (la spesa quotidiana era una delle sue mansioni), s’imbatté per istrada in sua madre che, il fascio dei còmpiti sotto il braccio, parlava da sola fitto fitto sorridendo amaramente. Ella era così immersa in tali sue riflessioni ad alta voce, che non si curava di tener sollevata la gonna, lasciandola strisciare nella polvere, e rasentò Anna senza vederla. Non di rado, anche in casa, parlava da sola, quasi a sfogarsi con un compagno invisibile delle ingiustizie patite, e della propria cattiva sorte. Le sue solite crisi, poi, s’eran fatte più violente. Presa da un odio rabbioso contro la propria persona, ella si malmenava da se stessa, battendo contro il muro la fronte e i pugni, e Anna doveva tenerla per impedirle di ferirsi. – Ah, non fossi mai nata! – ripeteva lei, dibattendosi: – e tu, – esclamava poi, fissando il vuoto, – perché mi guardi, che vuoi da me? – Essa pretendeva di scorgere, immobile contro la parete, Teodoro, che affascinandola coi suoi occhi nemici la gettava in quelle angosce. In altri momenti, asseriva di scorgere negli angoli o sotto i mobili, un cane minaccioso, o un pipistrello, o un rospo che saltava; personificava così, in bestiali figure e apparizioni, gli spiriti maligni, a lei stessa oscuri, che la tormentavano. In simili momenti, Anna pensava ch’ella avesse perduto la ragione; ma eran questi, invece, gli ultimi, fittizi tumulti d’animo ancora in lotta contro speranze e desiderî, e che non voleva rassegnarsi. Ciò durò pochissimi anni ancora; poi Cesira trovò una calma amara nella sua precoce vecchiaia.

Malgrado la sua soggezione ad Anna, ella non si teneva dal dirle spesso delle cose perfide. E la sua stessa ammirazione per la bellezza di lei fu, almeno nei primi tempi, mescolata d’invidia. La sua malevolenza scopriva imperfezioni e difetti in Anna: – Sei troppo magra, – diceva ella a sua figlia, – sei troppo pallida, – oppure: – sei bella, ma non hai quel che piace agli uomini... – Talvolta, irritata al veder sua figlia crescere tanto orgogliosa e superba: – Non credere, – le diceva, – perché sei bella, d’avere in pugno il mondo. Io ero più bella di te, – mentiva con millanteria disperata, – e vedi come sono ridotta.

In tutti, del resto, Cesira scopriva difetti, tutti erano brutti e malvagi, le facce in cui s’imbattevano le parevano atteggiate a smorfie pazze o malevole. Tutti evitava, ed era evitata da tutti. Pure, nell’odio-amore che aveva per se stessa, si pasceva quasi con gusto dei propri tormenti.

La sua salute, naturalmente, soffriva di tanto disordine. Ella ebbe degli svenimenti e dei capogiri, e dovette rinunciare ad alcune lezioni; altri alunni, scontenti della capricciosa maestra, non più zelante come un tempo, l’abbandonarono. Anna e Cesira si trovarono allora in gravi difficoltà di denaro. E un bel giorno Cesira ebbe una delle sue decisioni impetuose ed eroiche, e disse ad Anna di vestirsi, perché si andava dalla zia Cerentano.

L’idea di questa visita non dispiacque ad Anna, ma anzi la inebriò. Ella ignorava il fine preciso di sua madre (costei le aveva accennato vagamente di dover trattare con la zia certe questioni lasciate insolute da Teodoro); e neppure conosceva esattamente, ancor bambina come era, i veri motivi del dissidio fra le due famiglie. Quanto a Cesira, ella credeva forse di placare l’ombra vendicativa di Teodoro umiliandosi alla sorella di lui.

Entrate che furono nel palazzetto, Cesira, pallida pallida, in tono di riscossa chiese della signora sua cognata.

Fu detto loro di aspettare e Anna, col batticuore, oppressa da una specie di vulnerabile paura alla vista di tanta ricchezza, a ogni momento s’aspettava di veder comparire Edoardo. Finalmente una tenda si scostò, e il medesimo servitore che s’era incaricato dell’ambasciata riferì che la Signora non poteva ricevere. Al che Cesira sorrise nervosamente, e presa dalla borsetta, con mani tremanti, una lettera chiusa, pregò il servitore di consegnarla subito a donna Cerentano. Il servitore parve un momento interdetto, ma infine accettò la nuova commissione, e sparì.

In quella lettera, che Cesira aveva preparato per il caso appunto che non la si volesse ricevere, eran descritti con accenti folgoranti e fatali le condizioni sue e di Anna. Vi si diceva come una madre perseguitata da una stella infausta e una fanciulla ancora alle soglie della vita corressero il pericolo d’esser gettate sulla strada a mendicarsi un pane. Vi si alludeva all’ombra d’un genitore che aveva portato il nome dei Massia e che certo inorridirebbe vedendo le eredi del suo nome vagare elemosinando sulla terra. Vi si citava Lazzaro e il ricco Epulone e ciò, verosimilmente, piuttosto al fine di atterrire la devota cognata che di invocare un precetto cristiano. Infine, in nome della parentela, sia pure ripudiata, e in nome della religiosa pietà di Concetta, vi si chiedeva un soccorso finanziario. Tutto ciò era scritto in uno stile da salmo, sotto il quale serpeggiava un’ipocrisia servile e astuta. Alla ingegnosa ricerca degli effetti s’univa, in questo componimento, un furbo uso dei mezzi più atti allo scopo e un’untuosa cortigianeria. Con quel tono solenne, la fiera Cesira aveva scritto la propria capitolazione: i piccoli polsi frementi che avevano vergato quelle righe erano cerchiati ormai dalle catene della schiavitù.

Anna ignorava il testo della lettera, ma avvertiva nell’aria non sapeva quale umiliazione: – Andiamo via di qui, – bisbigliò a un tratto. – Sei pazza? – le rispose sua madre con l’antica autoritaria violenza, – qui si decide la tua vita –. Anna ubbidì, pur senza capire, ma sentì d’improvviso un odio per la sua propria vita.

Dopo la consegna di quella lettera, trascorse un lungo intervallo d’attesa, durante il quale s’udiva da una non lontana stanza il suono d’un pianoforte, accompagnato da una voce, piuttosto disgraziata, di fanciulla. Il canto si spense d’un tratto in un rumore che parve un singhiozzo: ma poi si capì ch’era invece una risata. A tale risata femminile si mescolò un altro riso spiegato, di bambino, ma già con qualche nota maschile e aspra. La voce che prima cantava disse allora, in tono di ammonimento: – Edoardo, ah! Edoardo! – All’udire questo nome, Anna trasalì e si fece tutta rossa. Colui che prima rideva (il quale altri non era, evidentemente, che Edoardo), incominciò quindi a discorrere in un modo gaio e capriccioso, anzi quasi sfrenato. Non si capivano le parole, ma, come già nella risata, si riudivano nella voce le note dissonanti dell’adolescenza: note rauche, come d’un violino melodioso per sua natura ma non ancora bene accordato. Una tal voce bizzarra ispirò ad Anna un sentimento di tenera compassione.

Il suo cuore impetuosamente volò a quella ignota stanza; ma proprio a questo punto, la tenda del vestibolo ov’esse attendevano si scostò, e apparve un signore sconosciuto che recava una busta verde. Era costui, come si poté intendere, il successore di Nicola Monaco nell’amministrazione di casa Cerentano. Aveva un volto sottile, simile a quello d’un arabo, e i baffi neri. Egli si ritrasse con le due donne verso un angolo del vestibolo, come chi ha da comunicare una qualche notizia riservata.

Poi, parlando a voce bassa, e porgendo a Cesira la busta, spiegò che la Signora non poteva riceverle, per i motivi che esse facilmente capirebbero. Tuttavia, ella inviava per suo mezzo questa busta, e d’ora innanzi ne avrebbe depositata una consimile per loro ogni mese, all’indirizzo ch’esse troverebbero indicato dentro la busta stessa.

Ciò era stato deciso in considerazione della bambina soltanto (Anna), e la Signora insisteva su questo punto espressamente. Quale unica condizione, si chiedeva nella maniera più esplicita alle due donne di astenersi d’ora in avanti da ogni rapporto sia verbale che scritto con la signora Cerentano e con la sua casa: facessero conto di ignorarne l’esistenza. L’amministratore stesso era incaricato di depositare la busta a loro nome; e con ciò, la questione si considerasse conchiusa per sempre.

Alle parole di quell’estraneo, Cesira, un sorriso falso sulle labbra, teneva il viso arditamente levato, quasi porgendolo alle percosse. E, proprio come sotto le percosse, un rossore disordinato le macchiava le guance. Ella ricevette dalle mani di colui la busta, che in fretta nascose nella borsa; poi con voce modesta e piena d’unzione disse che comprendeva perfettamente e porgeva alla signora le sue più vive grazie. Una simile conversazione fra sua madre e lo sconosciuto rivelò finalmente ad Anna il vero scopo della loro visita in casa della zia. Una funesta nube sanguigna le calò sopra, e la testa china di quell’uomo che parlava sommesso nei suoi baffi neri le parve un’apparizione satanica. Ella si fece tutta pallida, e i muscoli del suo volto incominciarono a sussultare. Intanto, l’ignoto signore le accompagnava alla porta del vestibolo; indi, lo stesso servitore che le aveva introdotte guidò freddamente all’uscita quelle due donne vestite male, che non s’era voluto ricevere. Come furono fuori, con un movimento convulso Anna si svincolò da sua madre, e si dette a correre avanti, verso casa; le pareva di gettarsi in un sanguinoso precipizio, e tutto ciò che incontrava le appariva deformato e travolto dalla bufera dei suoi singhiozzi. I passanti guardavano stupiti quella bella fanciulletta, dalla persona già sviluppata nei vestiti a lutto fattisi troppo corti per la sua statura; la quale fuggiva a denti stretti, di non altro memore che del suo pianto, come se l’avessero ferocemente battuta. Cesira, tornando a casa, trovò la figlia supina sul letto: le sue scarpine, ch’ella s’era sfilate nella furia, e il suo cappello tinto di nero giacevano rovesciati a terra. Ella si teneva con le membra rigide e protese, quasi offrendosi agli assalti del proprio dolore; e premendosi con le unghie le guance seguitava a gemere: – No, no, no... – Ah, che hai fatto! – inveì all’entrar di sua madre, – vergognati, ah, vergognati! Che cosa hai fatto! – È strano com’ella non provasse nessun rancore contro la zia che l’aveva umiliata: costei le appariva tuttora inaccessibile a ogni rimprovero, sospesa negli aurei fastigi dei Cerentano. Chi provocava invece il suo rancore, e un disprezzo sempre più forte, era sua madre, ch’ella aveva veduto, subdola e servile, sottomettersi a quell’onta che le bruciava. E il cugino Edoardo... – Ah, non ti perdonerò mai! – proferì Anna.

– Che cosa non mi perdonerai? – rimbeccò Cesira, rompendo in un riso convulso, – d’averti evitato la fame? è questo che non mi perdonerai? Presuntuosa e sfrontata! che cosa dunque pretendi? Sei la peggior pigra e ignorante che si sia mai vista, incapace di qualsiasi lavoro per bastare a te stessa, buona solo a farti servire...

Passi le tue giornate nell’ozio, senza nemmeno pettinarti, e non so di che cosa sempre fantastichi. E ora t’atteggi a regina, perché t’ho procurato ancora una volta i mezzi per vivere. I suoi degni parenti io li detesto, ah, non meritano neppure di baciarmi i piedi. In cambio della loro elemosina, invece d’un ringraziamento si abbiano, tutti dove sono, la mia maledizione. Sì, che siano maledetti in eterno! Se ho finto d’accarezzarli, quest’oggi, è stato per farli servire ai miei scopi. E difatti, ecco, l’importante, per me, è d’aver ottenuto questa busta.

Forse che morde, la busta? E che m’importa di loro! – Qui Cesira, in un gesto di trionfo che valeva per la piangente Anna quanto un insulto, sventolò nelle dita la busta verde, con gusto crudele. Ritiratasi quindi nel vano della finestra, alla luce già declinante di fuori, lacerò la busta e socchiudendo gli occhi un po’ deboli, con avarizia pavida e intenta, da quella figlia di bottegaio che era, si dette a contare i pochi biglietti di banca.

La somma contenuta nella busta, sebbene oltremodo esigua, era tuttavia sufficiente a far vivere per un mese due donne povere come loro. Ciò, naturalmente, sorvegliando ogni spesa e limitandosi allo stretto necessario.

Ma Cesira, pur così vaga di grandi ricchezze, era per sua natura capace d’una minuziosa economia.

Unito alla somma, la busta conteneva un biglietto con su scritto nient’altro che l’indirizzo d’un ufficio della città. Cesira ripose il biglietto nel portafogli, non senza aver segnato l’indirizzo sul suo libriccino.

Adesso, ella desiderava il riposo. Le sue mani avevan preso a tremare, e lei se le premeva l’una contro l’altra sul petto, per costringerle alla calma.

– Ah, – gridò Anna in quel momento, – non fossi mai nata, piuttosto che nascer povera, non fossi mai nata!

Lasciata la ribelle sua figlia, Cesira si ritrasse nella stanza da pranzo, e si sedette alla tavola che faceva anche da scrittoio per le sue lezioni. Appoggiando le braccia sulla tela incerata che la copriva, e che era tutta macchiata d’inchiostro e tagliuzzata dai temperini degli scolari, pensò che d’ora innanzi avrebbe potuto limitare il numero delle sue lezioni, e indugiare a letto qualche volta, senza pensare a nulla. «Come sono stanca, – si ripeteva, – come sono stanca». E nell’amaro senso della propria stanchezza, le venne fatto di vagheggiare piena d’invidia la sorte dei vecchi decrepiti, ormai di là da questa vita seppure in apparenza ancor vivi; o di coloro che, nati deformi o affetti da malattie senza rimedio, non hanno altra scelta che un atto di rinuncia a qualsiasi ambizione terrena. O di quelli che vengono ricoverati negli ospizi, o che vagabondano elemosinando. A tutti costoro nessuno chiede nulla, son liberi da doveri e da vergogne, e da ogni impegno o desiderio per il futuro.

La disperazione è la loro vittoria. Ella pensava a quanto sarebbe stato meglio per lei nascere brutta, e senza speranze. Vagheggiava, per esempio, il destino di certe suore, oscure, disseccate, pallide, che traggono nei conventi la lor vita sempre uguale, soggette a una disciplina che non concede più dubbi, né scelta. Non teneva conto, lei, della loro sovrumana certezza; ma solo della loro apparenza d’ombre. «Ah, potessi vivere come un’ombra!» si ripeteva, e fra tali fantasticherie si mise a piangere ansiosamente, al modo d’una bambina. Un acuto gemito interrompeva il suo pianto allorché le riappariva il personaggio dai baffi neri che l’aveva umiliata nel vestibolo dei Cerentano: e bramava d’uccider costui, ma non lui soltanto, insieme a lui i suoi padroni, e tutti quelli che avevano mortificato lei, Cesira, dal giorno che era nata fino ad oggi. Le pareva che la sua stanchezza si sarebbe riposata in simile strage; ma in realtà, la povera Cesira aveva fatto strage solo di se medesima, e con tale accanimento da esserne ridotta esangue e impaurita. Non soltanto non sapeva infierire contro gli altri; ma stava ormai fra loro alla guisa d’un bambino malaticcio, il quale schiva le busse coprendosi col braccio il viso; mentre di sotto quel riparo il suo sguardo obliquo e maligno dice ch’egli non perdonerà mai.

Secondo la promessa, Cesira da quel giorno poté ritirare ogni mese la somma a lei destinata da Concetta Cerentano. Lei stessa si recava a prenderla, e da parte di Anna non fu accennato mai più a questo argomento.

Certo Anna si rese conto che non v’era altra risorsa per loro, e s’adattò col tempo ad accettare quella provvidenza odiata. Ella cresceva nell’ozio e nell’ignoranza, mostrando un’indole selvatica e amante della solitudine; i suoi modi, tuttavia, non apparivano né rozzi né impacciati, ma al contrario, graziosi e pieni d’alterigia. Il suo volto taciturno, dagli occhi sognanti e fervidi, dai labbri un po’ rigonfi che si sporgevano in atto imbronciato, serbava quell’espressione di limpida innocenza che di solito si perde alla fine della prima età puerile, e ciò contrastava con la sua persona, che non era più di bambina, bensì di donna delicata e acerba. Son certa che, fra sé, già Anna fantasticava d’amore; ma non conosceva alcuno del quale potesse innamorarsi o che potesse innamorarsi di lei.

Quanto a Cesira, essa andava ogni giorno declinando verso una senilità discreta e subdola; si trasformava così, pian piano, in quella vecchia malata ch’io dovevo conoscere più tardi.