Capitolo secondo
Anna glorificata
Dono dell'anello

Verso le dieci di quella stessa sera, Anna, già coricata nel letto che divideva con sua madre, tardava un poco a prender sonno. Si può credere che conoscesse ormai a memoria, in ogni sua parola, il messaggio consegnatole furtivamente dalla portinaia. Ancora una volta, in quel momento, ella andava recitandosi in cuor suo la strofa: «Anna, perché non brilla per me sol | di tue pupille il notturno tesor? | Raggio di stelle per me non val | che a tutti è dato mirar | Di pietre chiuse in ferreo scrigno sol | l’avaro, segreto splendor, | ahimè, | sol questo piace a me». Già l’approssimarsi del sonno imbrogliava ai suoi sensi sopiti i memorabili versi, allorché, per la finestra chiusa, dalla strada le giunse una voce affettuosa che cantava quei versi stessi, accompagnandosi a un suono di chitarra.

Per un momento, Anna poté vaneggiare, nel dormiveglia, che l’anima di tali versi, da lei evocata, si esaltasse per lei sola in forma di suono: il canto improvviso, sebbene salisse dalla strada, aveva una qualità insinuante che lo faceva parer vicino, e detto sottovoce. Ma Cesira, che giaceva, sveglia, accanto a lei, si rizzò a sedere sul letto, e disse, sorpresa: – Non senti? Non senti?

Anna si sedette a sua volta sul letto e mormorò: – Sì, ho sentito –. Ormai, giunta alla fine di quel giorno miracoloso, ogni nuovo prodigio la trovava già credente, e disposta. Ma il pensiero d’una serenata d’Edoardo in onor suo la travolse in tal modo, che, dimenticando in quell’attimo il proprio ritegno con sua madre e la volontà di mantenere il segreto, ella disse, fremendo: – Cantano per me.

– Per te? – ripeté Cesira, incredula, ma già lievemente elettrizzata. Da che la curva della sua vita declinava, in lei nasceva una misteriosa attrazione e compiacenza per gli amori altrui, per gli amanti e per le confidenze d’amore. Mia madre, chiusa nel suo pudore orgoglioso, non soddisfece mai quest’ingenua bramosia di mia nonna: ché anzi un tale vagheggiamento la infastidiva, sembrandole indiscreta e senile curiosità. Ma so che talvolta, nei suoi ultimi anni, Cesira non disdegnava le confidenze amorose di qualche povera fantesca, o lavandaia, o sartina a giornata. Per la smania, comune a tutti gli amanti, di parlare e riparlare dell’oggetto amato, volentieri queste ragazze aprivano il loro cuore alla vecchia curiosa. In tal modo, esse ingannavano il tempo durante il lavoro; ed erano, per mia nonna, ore beate, quelle trascorse a pascersi di tali segreti d’amore.

Per udire meglio la serenata, dunque, Cesira scese da letto e gettatasi sulle spalle una coperta, accostò l’orecchio alla finestra chiusa. La voce che saliva dalla strada, benché piena di graziosa dolcezza, non era la voce d’un virtuoso: era poco robusta, e, incapace d’arrivare agli acuti, li schivava ogni volta abbassandosi di tono. Anna riudiva nel canto certi modi di pronunciare alcune sillabe e perfino certe cadenze di voce che già la mattina l’avevano commossa, allorché li aveva còlti sulla bocca d’Edoardo. Non poteva esistere un altro accento altrettanto amabile: «È lui, – Anna si ripeteva, – è lui». Uno per uno, ella riconosceva quei versi, e per di più, alla fine d’ogni strofa, Edoardo ripeteva come ritornello, librandolo in cima a una frase melodiosa, il nome di Anna. Udendo quell’ Anna! salire fino a lei, ogni volta ella provava una scossa violenta. Indovinava che Edoardo ripeteva il suo nome, forse, per meglio convincerla che la serenata era proprio in onor suo. E tale attenzione la inteneriva, colmandola di gratitudine. Si vergognava, però, di sua madre, e non osava accostarsi, a sua volta, alla finestra; ma udendo quel ritornello di Anna! Cesira ebbe una risatina e disse: – Ti chiamano! È proprio per te! Che fai? Non rispondi?

Anna scese dal letto, in camicia da notte, senza avvertire il freddo: – Che debbo fare? – domandò, sperduta.

– Le mie sorelle, – disse Cesira, – quando ebbero le serenate dei loro pretendenti, che poi le sposarono, aprirono le finestre, per significare che accettavano l’omaggio –. S’informò poi dalla figlia se conoscesse questo suo pretendente; ma Anna, gelosa del proprio segreto, rispose di no. – Allora certo non puoi affacciarti, – concluse Cesira a malincuore.

Per un poco Anna rimase titubante presso la finestra chiusa. Ma pensando che Edoardo là fuori stava a gelarsi, nella speranza che lei s’affacciasse, d’un tratto spalancò la finestra, e sporse il capo, agitando nervosamente la mano. Fece appena in tempo a vedere giù in basso, nella notte lunare, tre figurine di suonatori in lunghi cappotti; e, più distinto dal canto prima udito, l’ Ahimè! del penultimo verso volò fino a lei. Come al giorno del loro primissimo incontro al Corso delle carrozze, ella avrebbe voluto gridare: «Edoardo! Edoardo!», ma le mancò il coraggio, e richiuse a precipizio la finestra. – Che fai? che fai? sei pazza? – aveva bisbigliato Cesira allorché la figlia s’era affacciata; ma pure, ritraendosi in un cantuccio, per fuggire al soffio gelato di fuori, ella rideva come una collegiale. Anna invece si sentiva quasi triste: già si pentiva d’aver subito richiuso la finestra; e come, ben presto, i suonatori tacquero e s’allontanarono nella notte, incominciò a rimpiangere follemente di non essere tosto discesa in istrada, e fuggita via col cugino: «Vigliacca, insulsa donnetta, – si diceva, – ecco il tuo grande ardimento! E adesso? Chi ti dice che potrai ritrovarlo ancora?

Chi ti dice che questo suo canto non fosse un addio?»

Fra simili pensieri, ella si sentiva tutta in sudore e scottante, malgrado il freddo; e cadde in un sonno acceso e vacuo, simile al sonno d’una fanciulletta malata.

La mattina dopo, ella era d’uno strano umore violento, nel timore che, nonostante tutto, il Cugino mancasse al convegno. Per non so quale contrarietà domestica, sorse un battibecco fra lei e Cesira, e questa colse l’occasione per rinfacciare alla figlia il contegno tenuto la sera innanzi, allorché, come una spudorata, s’era affacciata alla finestra, pur non conoscendo colui che cantava: – Sì, che lo conosco, invece! – gridò Anna, – ma certo non verrò a raccontare la mia vita a te! – Cesira le rispose che non le importava di saper nulla: era stanca, e nulla più la interessava, non chiedeva che il riposo. Ma subito dopo tale dichiarazione, per il dispetto d’esser tenuta all’oscuro d’un segreto d’amore, si dette a insultare la figlia, predicendole una fine da svergognata. Del resto, soggiunse, lei, Cesira, aveva previsto tutto ciò; ma Anna doveva sapere, per sua norma, che quel giovane, chiunque fosse, certo era uno che si faceva beffe di lei. Altrimenti, sarebbe venuto a chiederla a sua madre; ma già, Anna non piaceva agli uomini.

Venuta l’ora delle spese, Anna uscì. Come giunse all’ingresso del mercato, ella abbassò rapida le palpebre, e, pur avanzando, tenne lo sguardo rigidamente fisso in terra per timore d’accorgersi, al girar gli occhi, che Edoardo non c’era. Ma nonostante questo suo stratagemma, una voce maligna le insinuò: «È inutile che tu cerchi di sottrarti al vero. S’egli fosse qui, ti verrebbe lui stesso incontro e ti chiamerebbe. Dunque non c’è, è chiaro. Non c’è, non c’è, e non verrà». A un tal pensiero, ella fu presa da un acuto disgusto, e inoltrandosi fra i banchi, con voce frettolosa e spenta prese a ordinare questa e quella mercanzia. D’un tratto, volgendo gli occhi di sbieco, vide il Cugino che le muoveva incontro: e allora, girò a precipizio il capo da un’altra parte.

Questo movimento, di cui neppure la stessa Anna avrebbe saputo dire la cagione, dispiacque da principio al cugino; ma come, accostandosi, egli poté distinguere meglio l’aspetto di lei, un’espressione di trionfo gli illuminò la faccia: «Ah, come ti sei sbiancata al vedermi, – egli pensò, – povera straccioncella, angelo mio». – Non mi riconosci, forse, Anna, cugina mia? – disse nel tempo stesso a voce alta.

– Sì, – mormorò Anna, – v’ho riconosciuto... t’ho riconosciuto subito. T’ho subito veduto da lontano.

Così dicendo, levò gli occhi su di lui. Quest’oggi, il cugino era molto ben pettinato, aveva il cappotto chiuso accuratamente fino al collo, e teneva il cappello sotto il braccio.

– Io ho già terminato i miei acquisti, – egli riprese a dire, – e tu? – Anch’io, – rispose Anna. Ciò non era esatto, le restavano ancor da fare la più gran parte delle sue spese, ma ella si sentiva troppo confusa per occuparsi di cose simili in presenza d’Edoardo.

– Allora, – egli le disse, – se non ti dispiace, si potrebbe uscire di qui, e passeggiare un poco –. Anna non fece alcuna obiezione; e alla domanda di lui, se avesse freddo, fece vivamente segno di no: – Ti prego, – egli la invitò gentilmente, – dammi la tua sporta. Voglio portarla io, – e con aria orgogliosa, le ritolse quell’umile carico.

Una folla di donne invadeva il mercato a quell’ora del mattino; e al passaggio dei due cugini, molte di esse, invidiando ad Anna il suo galante compagno, le gettavano delle occhiate curiose e oblique, che sembravan quasi intese a gettarle addosso la mala sorte. Anna, però, non le vedeva nemmeno; e il cugino, da parte sua, per quel giorno evitava di guardare altre ragazze fuori di Anna.

Durante quella storica traversata del mercato, Anna sentì il cuore dilatarlesi in un senso di gloria straordinaria, che doveva poi riprovare in seguito, ogni volta che camminava, fra estranei, a fianco del cugino. Era un sentimento prodigioso, ma nel tempo stesso familiare e antico: quasi ch’ella avesse vissuto fino adesso in un carcere mortificante, e si trovasse, finalmente, oggi, nella sua condizione naturale. La folla che le si muoveva intorno le pareva un brulichìo di brutti, miseri paria, dannati a un umile inferno e che lei, Anna la Beata, avrebbe potuto calpestare senza rimorso; e tutto ciò perché passeggiava in compagnia di quel ragazzo normanno!

La giornata non appariva molto propizia al passeggiare. La neve del giorno prima, disciolta, copriva le strade di fanghiglia, il vento era cambiato e basse nubi disordinate promettevano la pioggia. Usciti dal mercato, i due cugini, attraverso due o tre straducce, sbucarono in un breve spiazzo riquadro, formato dall’abside e dalle fabbriche laterali d’una chiesa; nel fondo, l’alta muraglia d’un cortile conventuale. Il luogo era deserto, e Anna, al trovarsi sola col cugino, provò un subitaneo smarrimento. Ebbe la certezza d’un evento unico, meraviglioso, che stava per accaderle in questo luogo stesso: un evento che in seguito la sua memoria avrebbe serbato come puro oro, lavorandolo e cesellandolo per renderlo più prezioso. E una tale certezza la empì d’attesa tripudiante e, nel medesimo tempo, di paura.

Edoardo la guardò di sotto in su, e osservò: – Sei pallida, più pallida di ieri. Forse non hai dormito, stanotte?

– Sì, – ella mormorò, – sì, ho dormito. – Hai dormito... dopo ch’io sono andato via? – Sì, – ripeté Anna. – E, – riprese egli, intento, – hai sognato? – No, – rispose Anna, alquanto intimidita a tante domande, – ho avuto un sonno senza sogni.

– Ah, – egli osservò chinando la testa, fra mortificato e indispettito, – io credevo che avresti sognato di me.

All’udir queste parole, e il tono con cui furono dette, Anna si sentì d’un tratto colpevole d’un grave peccato, addirittura d’un tradimento, per non aver sognato di lui.

Col rimorso, la vinse una tenera pietà di lui, come s’egli le stesse innanzi ferito, e bramò di aiutarlo, di medicarlo, e questo non già da eguale a lui, ma da sottoposta:

«Ah, poter essere il suo garzone, il suo domestico, – si disse, accesa da una selvaggia umiltà, – e servirlo giorno e notte, vegliare in attesa dei suoi comandi». Fra tali pensieri, dominò la propria timidezza, e confessò, piena di fervore:

– La vostra... la tua poesia, quanto è bella! L’ho imparata a memoria, la so tutta!

– Ne scriverò molte altre per te, – egli promise, impetuoso e lusinghiero, – e assai più belle della prima. Scriverò per te delle canzoni, che ti canterò come ieri notte... e ti darò dei baci.

A queste parole, il cuore di Anna batté in tal modo ch’ella ebbe il senso d’una grande, solenne cavalcata avanzante sulla piazzetta.

– Rifiuti... rifiuti ch’io ti baci? – riprese a dire Edoardo, – rifiuti o no?

Anna s’addossò al muro; e levando un braccio sul capo, quasi in atto di difesa, chinò sulla spalla il volto, in modo da celarlo un poco di contro quelle pietre scabre.

Nel far ciò, ebbe una risata convulsa e timida; ma inaspettatamente, risollevò il volto; e con uno sguardo risplendente, quasi severo, in accento mutato, esaltante e temerario, esclamò:

– Edoardo! Perché lo domandi? io t’ho sempre amato! ti amo!

Allora il cugino incominciò a baciarla; e da principio, in verità, pareva ad Anna di stringersi a un affettuoso fratello, tanto quei baci erano semplici, rattenuti e schivi. Ma pian piano, in questo fratello parve incarnarsi una bizzarra creatura animalesca; e a tale metamorfosi Anna stessa si mescolava, con quella sensazione fresca e insieme delirante che proviamo in certi sogni. Allorché la coscienza di noi stessi si perde, e i limiti fra le specie si confondono, e le nostre persone, ridiscese ad antichi paesi barbarici, sembrano scambiarsi con quelle di creature selvatiche già invidiate da noi nella veglia: volpi, o capretti, o gatti, o cani-lupi.

Anche questa, come la gloria provata poc’anzi, nell’attraversare il mercato, fu per Anna una strana, e nuova, ma al tempo stesso antichissima felicità. Or ecco: fino a poco prima, un bacio le pareva un evento così enorme, e misterioso. E adesso, trascorso appena un minuto, già ella non avrebbe potuto più contare i baci di Edoardo.

Poiché aveva preso a piovere, Edoardo riaccompagnò la cugina con la sua carrozza, che lo aspettava in quei pressi. Durante il tragitto, egli si tenne quieto, e taciturno; solo, ogni tanto sollevava una mano di Anna (ella non portava i guanti, avendoli insudiciati e guastati il giorno prima), e contemplando quelle dita piccole, arrossate dal freddo, con le minute unghie ovali così gentili seppur trascurate, vi strisciava contro la guancia, col gesto d’un gatto familiare.

Anna scese dinanzi al portone di casa, e fu vista da una vicina, che la squadrò sospettosamente dalla testa ai piedi, e poi girò il viso per non salutarla. «Che m’importa del tuo saluto!» pensò Anna. Come già ieri entrando nella pasticceria, così oggi sapeva bene che, accompagnata a casa da un giovanotto in carrozza chiusa, si disonorava agli occhi di tutti. Ma questo pensiero le dava una sorta di gaudio, e una fierezza disperata.

  

In tal modo cominciò l’amore fra Edoardo e Anna.

Ogni giorno i due cugini si davano convegno in qualche deserta via campestre, oppure, se pioveva, si facevano condurre dalla carrozza chiusa lungo interminabili viaggi per luoghi poco frequentati. Il cocchiere d’Edoardo, fedele al suo padrone, e da lui premiato con ricchi regali, manteneva il segreto sull’idillio. A volte, quando Cesira s’assentava per una delle sue scarse lezioni, Edoardo saliva all’appartamento delle Massia, dove Anna lo attendeva sola.

Nei loro colloqui, i due cugini si scambiavano tutte quelle carezze che potrebbero scambiarsi due fervidi fidanzati avanti di congiungersi nelle nozze. Ma di nozze, fra loro, non si faceva parola; né Anna osava ripensare al suo sogno infantile di maritarsi con Edoardo, perché temeva di ombrare con una troppo grande speranza la felicità che le veniva concessa.

Fin dal momento in cui, la mattina della neve, rialzandosi dalla lor comune caduta, egli le aveva detto il proprio nome, Anna senza dubbi né rimorsi gli aveva, in cuor suo, fatto dono di sé. Ella credeva infatti d’esser nata e d’aver vissuto solo per giungere a quel momento, e le pareva, non dando se stessa in cambio, di mancare al proprio fausto patto con la sorte. Questo incantevole patto le sembrava il decreto stesso della vita; e, fuori di esso, non v’era che mortificazione e condanna. Simile forma prendeva, in lei, quel misticismo comune a molte donne dei Massia.

In ogni suo atto o parola col cugino, anche nei più semplici, si esprimeva questa sua virginea volontà di dedizione. E quand’egli la stringeva e la baciava, il pallido, raggiante viso di lei pareva ripetergli con una adorazione quasi aspra: «Fa’ di me quel che ti piace». Ma, pago di sapere che nulla gli sarebbe negato, lui s’arrestava alle soglie di tanto inebriante certezza e non voleva di più.

Non si creda, a questo punto, a un suo scrupolo d’onestà verso la candida cugina né, tanto meno, a un suo timore d’impegnarsi troppo o di venir compromesso. Timori e scrupoli di questo genere non esistevano per lo spensierato Edoardo. Spensierato, eppur vittima di capricci e di impulsi che lui medesimo non avrebbe saputo spiegare! per cui voler indagare i motivi della sua condotta sarebbe un lavoro infruttuoso e infido. Mi si propongono soltanto delle ipotesi che, seppur deboli e malcerte, vi comunico tuttavia. Dunque, eccole: noi sappiamo che, nonostante la sua giovinezza estrema, Edoardo, grazie al suo destino e alla sua turbolenta immaginazione, conosceva le più diverse esperienze d’amore. Forse un tal fatto, alleato con l’indole volubile di lui, lo sollecitava già a cercare dei piaceri dissimili da quelli del volgo. Forse il suo gusto prediligeva qualcosa che gli sapesse un poco d’amaro; ed egli non voleva sciupare le ambigue delizie d’un amore quasi innocente. Troppo egli amava l’innocente offerta di Anna: «Fa’ di me quel che tu vuoi», e troppo gli piaceva la sua dolce vittima, così com’era, per trasformarla, lui stesso, in un’altra cosa. Vi ripeto che queste son soltanto delle ipotesi, certamente premature e incomplete. Si può supporre che dei motivi assai più sottili e profondi rattenessero Edoardo, o che lui medesimo soggiacesse, a sua insaputa, a un destino il quale si compiaceva di lasciare Anna e lui fidanzati. I miei lettori mi perdonino se non posso offrir loro che delle supposizioni; ma, come ad un fotografo, soprattutto se inabile, è difficile di ritrarre un essere inconsapevole e vivace (un infante, ad esempio, o un cucciolo), così a una cronista, e tanto più se maldestra al par di me, è difficile di fermare in limiti precisi un personaggio labile, svariante, futile, qual è il nostro Cugino.

Dovete poi sapere che Anna, cresciuta nella più ingenua ignoranza, non sapeva precisamente quale offerta faceva al cugino allorché, pur senza parlare, gli andava ripetendo: «Fa’ di me quel che tu vuoi». Ella ignorava l’intimo significato della parola: sposi. Ma seppure avesse creduto che la propria tacita offerta la esponesse a una ferita mortale, a perire come una splendida vanessa trafitta da una spilla, che serba, sì, i suoi bei colori, ma in realtà non è più che un vile involucro, un niente; ebbene, che le importava? avrebbe voluto esser trafitta, ferita a morte, non essere più niente. Ciò ch’ella voleva era il proprio sacrificio; ed esso non veniva accolto.

Malgrado quest’amara ingenuità dei loro incontri, nessuna conobbe certo un amante più grazioso e tenero dell’amante-cugino. Secondo la sua promessa, egli aveva scritto altri versi e canzoni in onore di lei; ma dobbiamo deplorare che in tali scritti i suoi sentimenti si rivestissero d’uno stile solenne e pomposo che pareva, in quei tempi, il più acconcio alla poesia. Nei colloqui, invece, il nostro poeta si abbandonava semplicemente alla sua carezzevole voglia.

I sonanti appellativi coi quali si volgeva ad Anna nelle poesie cedevano il luogo a mille amorosi nomignoli ch’egli inventava d’improvviso, rubandoli a tutti i regni della natura. Ogni sorta di minerali sfavillanti, di esseri viventi dai più feroci ai più domestici, di fiori, naturalmente, inermi o spinosi; e perfino, uscendo dai regni della terra, ogni sorta di luci, pianeti, costellazioni; tutto diventava Anna per lui. Questi nomi, poi, da lui rimpiccioliti e vezzeggiati, diventavano chi sa come, ad ascoltarli, piuttosto che un suono, un sapore: e precisamente il sapore della sua bocca. Non era, per Anna, la stessa cosa di quando suo padre la vezzeggiava, allorché lei si compiaceva di sentirsi lodata. Adesso, come da fiamme, si sentiva lambire e consumare da questi nomignoli sciocchi, e né carezze né baci bastavano a spegnere il morbido incendio. Se la bocca di Edoardo s’indugiava sopra la sua palma, accadeva che la sua bocca, le sue palpebre, il suo collo, gelosi, volevano anch’essi venir baciati; e tutte le sue membra si tendevano implorando:

«Fa’ di me quel che tu vuoi!» A volte, la mano d’Edoardo, nel giocare coi riccioli della sua nuca o nel solleticarle la gola, giungeva a sbottonarle lo scollo della camicetta. La camicetta allora le scendeva dalla spalla, e il cugino posava i propri teneri labbri su quella nuda spalla magrolina, oppure s’insinuava sotto lo scollo, là dove soltanto una leggera camicia copriva le bellezze delicate di Anna. Questa soffriva del proprio pudore ferito, ma nessun piacere l’aveva mai tanto inebriata quanto una simile sofferenza. Ella attendeva in ansia che la bocca del cugino si posasse su quei segreti violati, ma, forse non senza intenzione, egli s’attardava nell’aprirle lo scollo.

Finalmente, allorché la bocca di lui la toccava, ella provava una scossa terribile, e levava un leggero grido, quale una giovane pettirossa colpita a morte. Il crudele cugino amava prolungare questo gioco tentante; che accompagnava con discorsi gentili e assurdi, senza logica alcuna. Egli si rivolgeva non proprio ad Anna, ma alle cose da lui baciate, come a creature animate che potessero capirlo. Per esempio, chiedeva alla spalla di Anna perché mai tremasse tanto, e chi mai l’avesse scoperta lasciandola nuda nel freddo; e tosto la consolava del freddo chiamandola con dei nomi carezzevoli che mescolava di piccoli baci. Così mescolati di baci e di sospiri i suoi capricciosi, insensati discorsi parevano intrisi di miele.

Talvolta, i suoi denti mordicchiavano Anna per trastullo, e Anna rideva: bizzarramente bramosa che quei denti penetrassero più a fondo, facendola sanguinare.

Troppo presto arrivava, ogni giorno, l’ora della separazione. Nel salutare Edoardo, come se il loro addio fosse l’ultimo, ella sentiva il proprio cuore frantumarsi, incalzata e stretta da rimorsi assurdi e tardivi. Le pareva che moltissime cose rimanessero ancora da dirsi fra lei e il cugino: cose arcane, e magiche, tali da annullare il crudele incantesimo ch’ella d’un tratto credeva avvertire su loro due; ma ecco, sul punto di dire quelle cose, il loro colloquio veniva interrotto. Ella già si protendeva verso il convegno di domani; ma anche domani cadeva rapida, immatura, l’ora di dirsi addio. Come se i due cugini fosser portati da un fiume turbolento, malioso e fantastico, il quale non giungeva mai alla foce.

Talvolta, Edoardo adduceva pretesti per trovarsi con la cugina là dove non si poteva esser soli del tutto, per esempio in qualche pasticceria suburbana. Ci si doveva tener paghi, allora, di strette di mano furtive; ma, chiacchierando, a un tratto Edoardo chiamava la cugina con uno dei suoi nomignoli d’amore ed ella soffriva ricordando i baci che un tal nome soleva accompagnare gli altri giorni.

Forse per annullare le differenze fra loro due, per sentirsi più fraterno e unito con Anna, talvolta egli la cingeva col braccio e, come parlando a un amico del suo medesimo sesso, la chiamava il suo compagno, il suo compagnuccio, il suo fedele. Ma non di rado, avveniva, al contrario, ch’egli la sospettasse infida e si mostrasse inquieto e amaro.

S’è già visto com’egli si risentì perché Anna, la notte della serenata, non s’era accompagnata con lui nel sogno. Risentimenti di tal genere, e spesso molto più aspri, lo mordevano ad ogni passo, fin dai primi giorni del loro amore. Per esempio, l’indomani del loro primo convegno, egli incomincia a dire: – Posso farti una domanda, Anna? – Ella assentisce umilmente: – Ma bada, – egli prosegue, – è una domanda pericolosa; sei certa che non ti rifiuterai di rispondere, e che dirai la verità? – Io sono sincera, – mormora Anna. – Sei proprio sincera! Allora senti: ieri tu lasciasti ch’io ti baciassi, è vero, non ti rivoltasti contro di me, e non fuggisti via. Ora, ricordati, ieri, era la prima volta che ci trovavamo insieme, e, insomma, è appena dall’altro ieri che ci conosciamo. Dunque, ripensando a questa cosa, m’è venuto un dubbio, m’è sembrato quasi un segno. Voglio dire: metti il caso che oggi tu incontri uno, come incontrasti me? Ebbene: domani costui potrà baciarti e tu non gli dirai di no, che ne dici? può darsi? – Che cosa vuoi dire? – balbetta Anna, – un altro? Ma tu sei mio cugino, io non ti conosco da ieri, ma da sempre, tu... io... noi due siamo cugini, cugini carnali. – Allora, s’io non fossi stato io... s’io non fossi tuo cugino, tu ti saresti comportata altrimenti? ne sei certa? – Certa? a costo di morire. Ma come si può pensare in altro modo! – E prima... prima d’incontrare me, non incontrasti mai nessun altro cugino, insomma nessun altro a cui fosse permesso di baciarti? – Ma quali cugini? – risponde Anna, in preda alla massima vergogna e confusione, – altri cugini? ma io non ne ho altri che te, voglio dire, non ne conosco nessun altro, fuori di tua sorella Augusta, che conosco appena di nome. E l’altro zio Massia, che abita nel Nord... voglio dire, per me, tu sei l’unico cugino mio. – Oh, che risposta da darsi! – esclama Edoardo, ridendo, sebbene un poco malcerto, – una risposta così potrei aspettarmela da una bambina d’un anno, oppure da una astuta consumata! Sei forse astuta fino a questo punto? – ma vedendo il viso di Anna, d’improvviso egli si pente dei propri sospetti, e l’abbraccia, chiedendole perdono.

Tuttavia, non passano molti giorni, forse neppure molte ore, ed ecco, egli ha una nuova domanda pericolosa da farle: – Sii sincera, – incomincia, con aria ridente, – non nascondermi nulla. Quando cadesti nella neve, avresti preferito che, invece di me, ti raccogliesse Sebastiano, quel mio compagno riccioluto, con le guance paffute. Mi avvidi che lo guardavi. Non sono indovino? – A una così assurda insinuazione, Anna diventa tutta rossa. – Oh, come ti sei fatta rossa! – esclama Edoardo ridendo amaramente, e rannuvolandosi in viso, – lo vedi che indovinavo –. Sorpresa nella propria innocenza, Anna con voce debole, disarmata, risponde che, in verità, non ha neppur veduto quel tale Sebastiano. – Come! Neppur visto! – ribatte Edoardo, – ecco che ti tradisci, credendo di salvarti. Ti rammenterò allora ciò che fingi di non rammentare: mentr’io mi rialzavo dal fango, lui ti porse una forcina che t’era caduta, e tu gli sorridesti, e lui disse: Prego, mio dovere. Lo vedi, io ricordo ogni parola. – Certo è vero quel che tu dici, – risponde Anna, – ma io non m’accorsi di nulla, tanto ero confusa. – Non sapevo, – commenta Edoardo, – che l’aspetto di Sebastiano potesse già confonderti a questo grado. Ed è strano che tu affermi di non averlo veduto, considerando ch’egli portava una cravatta orrenda, color arancione, anzi colore di rosso d’uovo, che solo a guardarla, faceva allegare i denti. Ma già, dimenticavo che tu, poverina, non hai avuto molte opportunità d’educare il tuo gusto, fino ad oggi!

Solo così posso spiegarmi che ti piaccia un tipo simile.

Ed è un fatto, pare impossibile, ma esistono delle donne (soprattutto fra le classi non troppo elevate), che amano un tal genere d’individui forzuti, dall’aspetto di pugilatori, di sollevatori di pesi. È una moda che viene dall’America, e si va diffondendo fra la gente triviale. Quanto a me, s’io fossi una donna, mi vergognerei di uscire in istrada con dei tipi simili. Mi parrebbe d’accompagnarmi a un rinoceronte, a uno scimpanzé, o quanto meno a un galeotto tatuato. Ma se proprio ti piace Sebastiano, se vuoi che te lo presenti... – Ti dico che non mi piace, non mi piace! – si difende Anna. – Tu dici che non ti piace!

Ma allora non è vero che tu non l’abbia neppure visto! – esclama ironicamente Edoardo. E con un sorriso agro aggiunge che, già, nonostante le sue arie gravi, Anna è doppia, simulatrice, come tutte le altre ragazze. Poi, vedendo che a questo insulto gli occhi di Anna si empiono di lagrime, prova un subitaneo rimorso («e se poi questa storia non fosse vera? – si domanda, – s’ella avesse ragione, e torto io?») e traendo un gran sospiro accarezza Anna sugli occhi: – No, – le dice, – non addolorarti, Anna mia. Vada all’inferno Sebastiano. Piuttosto, dimmi. Domani, sei sola in casa? – Sì, – risponde Anna già rasserenata. – Allora... – incomincia Edoardo; ma di nuovo il sospetto lo rimorde («se è stata così pronta a perdonarmi, – pensa, – vuol dire che ha la coscienza cattiva. Bisogna punirla»). E dispettosamente dice ad Anna: – Non posso venire a casa tua, domani. Troviamoci alle cinque alla solita pasticceria.

Un’altra volta, Edoardo chiede ad Anna come abbia occupato il pomeriggio di ieri (giacché ieri, per l’appunto, non si sono veduti). Anna risponde la verità, vale a dire che ha passato il pomeriggio in camera, a leggere.

Edoardo vuol sapere quale libro abbia letto, e Anna risponde I tre moschettieri di Dumas. E fin dove è giunta con la lettura? Dopo aver pensato un istante, per rammentarsene con precisione, Anna risponde anche a questa domanda. E che cosa racconta il libro? Anna incomincia a riassumere la trama del romanzo. Ma Edoardo l’interrompe, e, cambiando tono, con una risata ironica e nervosa: – È strano, – le dice, – si direbbe che tu legga al buio. M’avvenne, ieri pomeriggio, di passare davanti a casa tua due volte, e tutte e due le volte le persiane della tua camera erano chiuse sbarrate, malgrado il tempo scuro –. Il tono beffardo del cugino confonde Anna, la quale, tuttavia, giunge a ricordarsi d’avere infatti chiuso le persiane a una cert’ora, poiché soffriva di mal di capo e la luce la disturbava. – Dunque non hai trascorso il pomeriggio intero a leggere, – le obietta Edoardo, – ma, per di più, posso rivelarti che non eri nemmeno in casa.

Difatti io passai a chiedere alla tua portinaia, e seppi che eri uscita proprio allora –. Anna ammette d’essere uscita infatti, ma solo un minuto, per recarsi alla farmacia: Edoardo, certo, è capitato proprio in quel minuto. E il suo viso, insieme al corruccio di non esser creduta, esprime il rimpianto per non avere incontrato Edoardo.

– Proprio in quel minuto! È un caso! – prosegue il cugino, – ma come si spiega che, mentre la farmacia si trova a destra, tu t’avviasti verso la sinistra. Io ti seguivo da lontano, so tutto! – (quest’ultima obiezione, Edoardo, simile a una guardia sagace, l’ha inventata, per tendere un tranello: non è vero ch’egli abbia seguìto sua cugina, poiché questa era già fuori della sua vista, nell’intrico delle viuzze, allorché egli sopraggiunse a interrogare la portinaia). – È una falsità! – prorompe Anna, che a sentirsi trattare da bugiarda, mentre è sincera per sua natura, non sa più frenare lo sdegno. E prosegue, aggrondata e fosca: – Non domandarmi più niente, io non risponderò più a nessuna domanda –. Ma tosto s’impietosisce, e soggiunge con indulgente, materna malinconia: – Perché diffidi sempre di me? Perché m’accusi?

Certo un così accanito indagare del cugino su tutte le sue azioni e i suoi pensieri non poteva non esser lusinghiero, e magari inebriante, per la nostra innamorata.

Ma s’è già detto com’ella mancasse di civetteria: i continui sospetti d’Edoardo, sebbene le apportassero qualche dolcezza, come le prove dell’amor suo, le suonavano pur sempre insultanti. In lei rinasceva quel grande orgoglio ch’essa aveva immolato a lui; e la sua diritta, appassionata natura si dibatteva e soffriva nelle reti ch’egli le tendeva a ogni passo. Ma soprattutto cocente le era il pensiero che Edoardo non capisse quant’ella lo amava.

Come poteva egli supporre ch’ella avesse altri interessi al mondo fuor di lui, e che, da lui sollevata all’ultima spera celeste, potesse rivolgersi indietro alle bassure della terra? Tuttavia, la nostra idolatra non accusava d’incomprensione il proprio idolo: al contrario, si sentiva lei stessa in difetto per la propria incapacità di farsi comprendere. Le si stringeva il cuore al vedere quel delicato viso normanno contrarsi in un sorriso amaro, corrugarsi e impallidire; mentre iracondia e tristezza ombravano quella fronte d’angelo. È assai crudele adorare una divinità che non vede il cuore del suo devoto, e si nutre dei più scettici dubbi!

In realtà, Edoardo non dubitava d’essere adorato da Anna; ma s’è già detto che la parola pace non aveva alcun senso per lui. Fin dal primo istante ch’egli s’innamorava, la sua cattiva sorte accendeva in lui l’imperioso desiderio d’assoggettare la persona amata. Ma un tal desiderio, anzi volontà, s’accoppiava al continuo timore che il suo schiavo gli sfuggisse. La sua condanna era di vedere (anche a dispetto d’ogni evidenza), i propri amati sempre in fuga, alati quasi, infedeli e capricciosi. Egli non diffidava soltanto dei loro atti, ma anche dei loro pensieri, e perfino delle loro intenzioni riposte, e da loro stessi ignorate. Al fine di scoprire la verità su tante colpe immaginarie, egli sottoponeva a continui processi i propri accusati, servendosi della più sottile casistica e dei più complicati psicologismi. Ma, ahimè, lui stesso era la prima vittima dei propri congegni; ché addentrandosi in simili processi, i suoi dubbi, invece di cedere a una fiduciosa certezza, si moltiplicavano assurdamente, al contrario, e lo stringevano da ogni parte!

Come uno spiritello sottile, egli avrebbe voluto insinuarsi in tutti i pensieri, in tutte le occupazioni della persona a lui soggetta, e qualsiasi ostacolo al proprio totale dominio su lei, di qualsiasi ordine e natura fosse, lo empiva di sdegno. S’è visto in qual modo egli confutasse l’asserzione di Anna, d’aver trascorso il pomeriggio a leggere. Ci rimane però da aggiungere che, seppure egli l’avesse creduta veritiera, non avrebbe tuttavia perdonato ad Anna di essersi vòlta alla lettura invece che al pensiero di lui, Edoardo. Di qui un astio subitaneo per il libro ch’essa leggeva, nel presente caso I tre moschettieri, come anche per il loro rispettabile autore, l’ormai defunto Dumas padre, implicato ingiustamente nella faccenda. E insieme con l’astio verso tanti innocenti, la voglia, non troppo lodevole a dire il vero, che Anna fosse cresciuta analfabeta.

Ma allora, perché, invece di lasciarla sola, non aveva egli trascorso il pomeriggio con Anna? Ohimè, qui ci addentriamo in uno di quei meandri psicologici in cui certi personaggi fanno il possibile per attirarci, e per i quali, purtroppo, io dubito d’essere abbastanza sottile.

Molte volte, bisogna ammetterlo, Edoardo dichiarava ad Anna di non esser libero di vederla un certo giorno, mentre invece lo era; e simile menzogna, secondo ogni apparenza, veniva usata al fine preciso d’indagare sul come Anna impiegasse dal canto suo la propria inattesa libertà. Infatti, accadeva non di rado che, mentre Anna si struggeva sola sola in camera pensando al cugino, questi all’insaputa di lei facesse la guardia in istrada per vedere s’ella usciva per proprio conto a spasso. Ella si tormentava pensandolo intento ad altri svaghi, in compagnia d’altre fanciulle, e lui si tormentava nel dubbio ch’ella non si tormentasse abbastanza. Questa commedia si ripeté più d’una volta.

Ma di solito, Edoardo lasciava sola sua cugina per il motivo che, avido com’era di sopprimere l’altrui libertà, egli non rinunciava però alla propria. Seppure un oggetto lo attirava sopra tutti gli altri, la sua mente inquieta non sapeva rinunciare a lungo ai mille altri oggetti che l’attiravano. L’avere Anna vicina ad ogni ora del giorno dipendeva soltanto da lui, giacché ella, affrancatasi ormai da ogni autorità e da ogni scrupolo, non attendeva che il cenno dell’amato. Ma questi, dopo una prima settimana di assoluta dedizione alla cugina, aveva ripreso a frequentare balli, ricevimenti e partite. Il gusto per simili passatempi era nato in lui soltanto pochi mesi prima: ad esso era dunque mancato il tempo d’esaurirsi allorché sopravvenne Anna. Lungi dal venir soppiantato dall’amore, un tale gusto ne aveva anzi ricevuto un sapore più allettante. Infatti, Edoardo, frequentando, a malgrado di Anna, quelle feste inaccessibili a lei, non rinunciando a piacere alcuno, alimentava in se stesso quel senso di superiorità e di tirannide ch’egli non sapeva disgiungere dall’amore. Non sempre era cosciente di ciò; ma, secondo il solito, non dubitava che i propri istinti fossero legge non solo per lui medesimo, ma per gli altri. Il tempo che non passava insieme a lui, la cugina doveva consumarlo da reclusa: una sua trasgressione sarebbe a lui parsa una vera empietà, e un’ingiustizia ogni suo pensiero che non fosse per lui. Tuttavia, mentre s’adombrava perfino dinanzi al degno spettro di Dumas padre, il nostro erede normanno si compiaceva di raccontare alla cugina, coi più esaltati colori, le feste da lui stesso godute, e da lei non condivise. S’indugiava a descriverle una per una le splendide fanciulle ch’egli frequentava e, perfino, corteggiava; i loro vestiti da ballo, che lasciavano nude le spalle, e il sommo del seno (altrettanto, e non di più, egli s’era limitato a scoprire del corpo di Anna); i loro gioielli, che provenivano da remote ave, documentando, come simboli favolosi, la tradizione e l’antichità delle loro famiglie. Ogni loro gesto, egli asseriva, era pieno di sapienza e di grazia, poiché, fin da piccine, delle maestre a ciò addette avevano composto, al ritmo di vaghe musiche, i loro minimi atteggiamenti. Così pure, ogni lor parola suonava piena di spirito e di poesia, la loro voce era modulata come quella d’un’arpa. E ciò era logico, perché dalla loro nascita esse eran destinate a una sorte rara, ed è vera donna soltanto la signora, vale a dire colei che con l’arte dà pregio alla natura. Mentre discorreva in questo modo, Edoardo sogguardava sul viso di Anna l’effetto delle proprie studiate frottole. Nel suo totale asservimento al cugino, Anna avrebbe considerato follia perfino il pensiero di contrastargli quelle feste a lei negate. Giusto appannaggio della splendida sorte di lui, esse lo rendevano tanto più prezioso ai suoi occhi. Quanto alle fanciulle da lui celebrate, ella non dubitava che tutto quanto egli ne raccontava fosse vero; e all’udirne le lodi, combattuta fra l’orgoglio di se medesima e l’ammirazione, s’induriva in faccia senza nulla ribattere. Ma Edoardo s’avvedeva dei suoi pallori, e di come le tremava il mento: ora le si accendeva nelle pupille una punta scintillante e fissa, ora il suo sguardo si spegneva e quasi smoriva. Egli sentiva la persona di lei, sospesa al suo braccio, quando irrigidirsi, e quando trasalire. Da tutto ciò gli derivava una tenera compiacenza, e il voluttuoso gusto della pietà. Certe volte, infine, lo spasimo della gelosia faceva prorompere Anna in singhiozzi terribili e acuti: – Anna! che c’è? – esclamava Edoardo, con artefatto stupore, – perché piangi così? Anna! Anna!

Ella rispondeva soltanto con un grido. E lui, stringendo a sé quelle membra contratte dall’angoscia, la blandiva con piccoli baci frequenti, simili al piluccare d’un passero: – Anna mia, povera Annettina, – le diceva, lisciandole i capelli e carezzandole gli occhi bagnati, – che cosa c’è? si può sapere? oh, come ti batte il cuore! sembri un ghiaccio, e sei tutta sudata! Dimmi, Anna, non sarà forse per caso... un poco d’invidia?

E non ricevendo, neppure adesso, altra risposta che dei gemiti, proseguiva a dire con voce di blandizie e di finto corruccio: – Ha invidia la povera Anna? Ha invidia di me, e delle signorine mie amiche, perché noi ce ne andiamo alle feste da ballo, mentre altri son condannati a vivere all’oscuro, come talpe? Oh, povera talpa mia, che idea ti viene dunque di piangere per una ragione simile?

Sai bene che il nostro destino è diverso. C’è chi nasce talpa, e chi aquila, e chi leone. Io sarò, per esempio, un leone dorato... Così ci fecero le nostre madri. Ma tu, talpa mia, non ti credevo così invidiosa!

Egli non ignorava come ognuna di queste parole trafiggesse l’ingenua Anna. Ora dibattendosi con un lamento di ribellione, ora cedendo alla lusinga di quelle maliziose carezze, ella talvolta apriva sul cugino uno sguardo incantato e amaro. A tale sguardo, il cugino si sentiva inebriato a un tempo dalla propria gloria e dalla grande pietà per lei: «Quant’è umiliata, – si diceva, – e quant’è bella, questa superba, questa gelosa». Egli s’accorgeva che, pur nel suo geloso strazio, Anna avvertiva tuttavia senza tregua la presenza di lui, raggiante e consolatrice come d’un sole. Per acuire il senso della propria onnipotenza, egli trovava allora nuovi argomenti da umiliare la scioccherella, e a questo veleno mescolava le più morbide carezze. Ma se, infine, la sua capricciosa passione chiedeva di vedere Anna vinta, e l’ambascia disperata di lei sciogliersi in lagrime gaudiose, egli la scuoteva con violenza per le braccia, chiamandola: – Anna!

Anna! – E strettole fra le palme il viso, le diceva: – Anna, perché pensi alle altre! Tu non sei una dama, non sei una gran signora, ma sei un angelo, l’angelo mio!

Più tardi, però, con più gravi dispetti egli si vendicava di tale affettuoso trasporto. Da parte sua, col passar del tempo Anna imparò a contenere il proprio impeto; ma questo, rinchiuso in lei stessa, tanto più infuriava.

Edoardo se ne avvedeva, e non si stancava di pungerlo e di alimentarlo.

S’è già detto altrove com’egli fosse fiero del proprio nome e della propria casta. Pareva a lui, come ad altri suoi simili, che la sorte stessa, ponendola in una classe privilegiata, avesse voluto dimostrare di tenerlo da più degli altri, quasi fatto d’una sostanza rara. Seppure l’istinto di prevalere lo traeva sovente ad amare chi era posto più in basso di lui, non lo sfiorava mai l’intenzione, e neppure il pensiero di elevare al proprio rango la persona amata. Così gli dèi, se tentati a congiungersi con le mortali, scendevano a loro in forma umana, o magari di bestia o di nube, ma non elevavano le proprie amanti terrene agli onori dell’Olimpo. Nel caso presente, poi, troppa dolcezza traeva Edoardo dal seno della propria superiorità sociale. Nonché pensare di sopprimere questa differenza fra loro, egli bramava, al contrario, di ribadirla nella mente di Anna, per vedere prona e palpitante quella persona orgogliosa. E a tal fine studiava crudeli artifici.

Per esempio, in una mattina primaverile, egli riuniva una compagnia di giovani suoi pari e di libere e gaie ragazze. Indi si sedeva, nel centro di questo sciame, proprio alla stessa pasticceria di dove aveva veduto Anna la prima volta. Grazie alla stagione serena, i tavolini erano posti all’aperto, sullo spiazzo, fra piante fiorite; Edoardo sapeva che, ritornando dal mercato, Anna sarebbe passata di là, come ogni giorno.

Difatti, la cugina non tardava a passare, ed egli ostentava di non vederla; ma in quel momento stesso, per l’appunto, con una risata cingeva la più leggiadra delle sue ragazze, baciandole il nastro che le chiudeva la scollatura o sussurrandole all’orecchio qualcosa. Un’altra ragazza sedeva sul suo tavolino, dondolando i piedi, e dandogli per gioco dei piccoli calci; e dal gruppo veniva un tintinno di cucchiaini dentro i bicchieri, un suono di ciarle e di risate. Anna intravvedeva per un istante, in una turbinosa nebbia, quei nastri, quei riccioli, quelle bevande multicolori: frammezzo ai quali le balenava un viso... Ma tosto ella ritraeva lo sguardo di là e passava a testa alta, pallida come una morta.

Un altro giorno, Edoardo caricava una comitiva dello stesso genere sul proprio carrozzino scoperto; e si studiava di passare appunto per la piazzetta su cui davan le finestre di Anna. A tanti rumori insoliti in quel sito: il trotto gaio dei cavalli, i sonagli, le allegre strida femminili, Anna incuriosita s’affacciava alla finestra. Edoardo sogguardava dal basso il suo viso bianco e le sue trecce; e non dubitava d’essere stato riconosciuto, perché la lontana figurina dopo un attimo si ritirava dalla finestra, quasi avesse scorto una valanga di lava o qualche altro spavento.

Or ecco Edoardo, subito dopo questa scena, cambiava d’umore. Pensieroso e imbronciato, scostava da sé le amiche, e ordinava al cocchiere di ricondurlo a casa. E il motivo di ciò era il seguente: lui stesso, è vero, aveva con intenzione provocato quell’affacciarsi di Anna, e il suo fine preciso, recandosi laggiù, era appunto d’esser veduto da Anna, per farla un poco soffrire. Ma tuttavia, egli non poteva impedirsi di pensare: «Però! guardate! basta un niente, un girare di ruote un rumore qualsiasi, e lei subito corre ad affacciarsi sulla strada! proprio a modo d’una civetta e d’una frivola». Dopo di che, sebbene Anna volontariamente serbasse il silenzio su quel fatto, egli non sapeva rattenersi, alla prima occasione, dal dirle ciò che pensava, e l’accusava di star troppo affacciata, di mettersi in mostra per farsi vedere dai passanti, di trascurare il riserbo che s’addice a una fanciulla: insomma, la tacciava addirittura di scostumatezza.

Edoardo era venuto a conoscere, all’insaputa di Anna, che la vedova e la figlia di Teodoro Massia vivevano sulla carità dei Cerentano. Naturalmente, con Anna egli non fece mai cenno su questo argomento; ma la dipendenza e l’umiliazione di sua cugina gli parevano, adesso, più gravi, e più commovente, quindi, la persona di lei.

Quanto ad Anna, dopo l’incontro col cugino, di nuovo il pensiero di quella elemosina di Concetta la rimordeva in segreto. Ella sperava che l’amato non sapesse nulla di tal cosa, ma tuttavia se ne angustiava, e meditava di rifiutare una volta per sempre quel beneficio. La tratteneva dal mettere in atto simile risoluzione la coscienza della propria incapacità a qualsiasi lavoro e la paura che, vedendola affamata e mendìca, il cugino la disprezzasse più che mai, e magari l’abbandonasse. Così, ella seguitava ad accettare passivamente, un mese dopo l’altro, l’assegno dei Cerentano; solo più tardi, come si vedrà, mise in atto l’antico proposito. Ma allora, tutto era cambiato e quell’agognata rinuncia aveva un gusto gelido e amaro.

Ma di ciò vedremo a suo tempo. Dunque, Edoardo sapeva adesso che sua cugina dipendeva da lui in tutto, fin nella sua povera sussistenza; e ciò gliela rendeva più amabile. Conviene aggiungere a questo proposito che, noncurante del denaro, volentieri egli l’avrebbe profuso per aiutare Anna, se gliene fosse venuta l’ispirazione; ma era estraneo del tutto a tali cure, spensierato e cresciuto nel lusso; e non poteva intendere e neppur sospettare i bisogni degli altri. Per questo, accettava senza compatirli o stupirsene e senza quasi avvedersene i segni evidenti della povertà di Anna. Seppure li scorgeva, essi gli parevano un attributo inseparabile dalla persona di Anna, fatale e grazioso: quasi una civetteria per meglio piacere a lui stesso, Edoardo. Anna del resto, fiera e innamorata, avrebbe rifiutato qualsiasi offerta del cugino, al quale si sforzava di nascondere meglio che poteva le proprie strettezze. Egli non dubitava che l’assegno mensile di Concetta bastasse generosamente per le modeste abitudini di Anna; e mai, nei suoi discorsi, questa gli fece indovinare il contrario.

L’unico dono ch’ella ricevette da Edoardo fu un prezioso e splendido anello d’oro con incastonate due pietre di grandezza uguale: un diamante e un rubino. Concetta, ormai, non aveva, oltre al Sacramento, altro padrone che suo figlio, il quale già poteva disporre generosamente delle sue ricche rendite. Egli godeva il massimo credito presso tutti i gioiellieri e gli altri negozianti della città, e poté quindi senza ostacolo recare ad Anna quel gioiello regale, come segno d’una amorosa e dispotica investitura. Ella lo portava all’anulare della sinistra, come un anello di fidanzata: ma soltanto quand’era con Edoardo o sola in camera. Prima di ritornare fra gli altri, lo nascondeva in mezzo alla biancheria nel proprio cassetto, che rinchiudeva a chiave. Ciò non per salvare la propria riputazione dai sospetti della gente, ma piuttosto per un altèro pudore o gelosia della propria gloria.