Capitolo primo
Malizioso e straordinario accidente
Circa tre anni dopo gli avvenimenti su esposti vi fu un nuovo incontro fra i cugini Anna ed Edoardo.
Anna aveva ormai compiuto i diciassette anni allorché un caso bizzarro mise sulla sua strada il cugino. I fatti si svolsero nel modo seguente.
Una mattina di febbraio, la città si svegliò sotto la neve. Un simile fenomeno era così raro da quelle parti, che si segnavano come date degne di memoria tutte le volte ch’esso capitava in un secolo. Molti maestri di scuola eran costretti a dar vacanza perché gli scolari smaniavano sui banchi, nella brama di giocare con la neve. Da un uscio all’altro, e fra i passanti, si sentiva ripetere: – La neve! La neve! – e i cittadini, per solito taciturni, sembravano ubriacarsi di quella luce glaciale e dell’echeggiante sonorità delle loro voci. A tutti pareva d’aver trasmigrato, durante la notte, in un’altra città, perché le architetture e i colori apparivan quasi irriconoscibili, e da ciò nasceva una festa, ma effimera, simile alle feste celebrate nei sogni, i cui palagi di vetro son sempre sul punto d’incrinarsi. Molte signore, avvezze a poltrire fino a mezzogiorno, quella mattina si levavano presto, piene di curiosità e di fervore. E avvolte in pellicce, o in iscialli dai colori vivaci, popolavano i balconi, le terrazze, i tetti, da dove guardavano lontano coi binocoli, vociando gaiamente, come a uno spettacolo di fuochi d’artifizio.
C’era chi raccoglieva la neve nelle tazze, per farne dei sorbetti. E davanti ai portoni delle case signorili, i portieri, armati di scope e di pale, sgombravano la strada alle carrozze; essi scambiavano intanto i loro commenti coi cocchieri, mentre i cavalli, animati da quell’aria nuova, agitavano la criniera e la coda. Naturalmente, per l’inesperienza dei cittadini, frequenti erano le cadute, soprattutto verso mezzogiorno, quando, incominciato il disgelo, le strade si coprivano di fanghiglia.
Uno dei luoghi più rischiosi ad attraversarsi era un viale alberato che da un mercato assai noto scendeva verso il centro della città. Al piede di questa discesa si apriva, dinanzi a un breve spiazzo, una elegante pasticceria; e qui s’eran dati convegno, quella mattina, alcuni giovani dall’umore allegro, che avevano scelto il posto come un comodo osservatorio per divertirsi alle scene dei capitomboli. Il loro divertimento si doveva soprattutto al fatto che i passanti, in quel viale e a quell’ora della mattina, erano in maggioranza donne di ritorno dal mercato con le proprie spese: per lo più ragazze del popolo, servette e massaie. Di sulla porta vetrata del caffè, i giovani le adocchiavano una per una fin dal loro primo apparire in cima al viale. Ciascuna che sembrasse graziosa veniva scelta, a turno, da uno di loro. Il quale scommetteva coi suoi compagni (che tuttavia restavano, benché scommettitori, suoi fedeli alleati), di farla capitombolare nella neve col solo mezzo della suggestione: per concedersi, quindi, il diritto di aiutarla a rialzarsi. Il punto critico era al termine della discesa, là dove s’apriva lo spiazzo davanti al caffè: quivi, per l’accentuarsi del declivio, il terreno, coperto di neve semidisciolta, era quanto mai sdrucciolevole. Allorché la ragazza, eletta da uno del gruppo, dopo aver disceso non senza trepidazione il viale, giungeva al limite dello spiazzo, vi era accolta dal coro dei giovani amici: sul quale si levava più forte e incalzante, la voce singola del cavaliere predestinato. Fermi sulla soglia del loro osservatorio, i giovani complici incominciavano a dire: – Scommetti che cade?
– Scommetti di no? – intercalando tali scommesse con sorrisi d’intesa, madrigali e offerte d’aiuto alla pericolante. Questa fingeva per lo più di non vedere gli indiscreti; si sdegnava, oppure a stento soffocava la voglia di ridere. Ma era difficile che, fatta segno a tante chiacchiere, a tanti sguardi, riuscisse a serbare il proprio equilibrio. Già tre ragazze, secondo i voti dei singoli ammiratori, erano ruzzolate a terra, insieme alla varia mercanzia delle loro sporte. In tutti e tre i casi, il cavaliere predestinato s’era staccato dal gruppo degli amici precipitandosi a raccogliere la sua poverina e ad offrirle tutti i possibili favori. Mezza piangente e mezza ridente, ma senza essersi fatta alcun male, quella s’era rialzata; e raccolte, con l’aiuto del cavaliere, le proprie sparse vettovaglie, aveva ripreso la sua strada, senza sapere dove girar gli occhi. Un tal gioco avventuroso faceva le delizie di quel gruppo galante. Uno degli amici si vantava d’aver ottenuto dalla sua bella, in cambio del proprio aiuto, un sorriso quasi d’amore. Un altro, per sollevare la sua, l’aveva stretta forte fra le braccia. Il terzo aveva rivolto alla propria, a voce bassa, un complimento così ardente, che quella, estremamente confusa, appena rimessa in piedi era ruzzolata a terra una seconda volta. Ma due altri eran rimasti delusi: uno di loro, accorso presso la sua vittima, le aveva invano offerto il proprio braccio. Respintolo irosamente, la ragazza si era rialzata da sola, e tutta accesa di sdegno l’aveva scacciato con gravi e mortificanti insulti. Quanto all’altro deluso, inutilmente egli aveva tentato di confondere la predestinata sua vittima per farla cadere. Essa non aveva fatto nessun conto né di lui, né dei suoi complici, come non li vedesse. E, librata sul terreno viscido, aveva attraversato lo spiazzo simile a una ballerina sul filo, ed era scomparsa.
Uno del gruppo, il più giovane di tutti, quasi ancora imberbe, si distingueva fra gli altri per la sua graziosa bellezza: era questi, appunto, Edoardo Cerentano. A quanto sembra, egli era, oggi, d’un difficile umore: infatti, nessuna delle belle ragazze ammirate dai suoi amici gli era piaciuta fin adesso, e non aveva scommesso per nessuna. Una lieve preferenza aveva provato verso la ballerina di cui s’è detto per ultimo; ma s’era accorto di tale sentimento troppo tardi, nel momento che quella invitta sconosciuta già si dileguava alla svolta. E adesso, l’aver mancato l’occasione lo amareggiava un po’; quand’ecco, finalmente, apparve in cima al viale una fanciulla che gli piacque, ed egli s’affrettò ad esclamare:
– Questa è mia! – Era una ragazza alta, che vestiva una gonna rossa e una giacca nera, con un cappello pur esso nero. Edoardo non sapeva che questa ragazza era sua cugina: si trattava, in realtà, di Anna.
La bellezza di Anna era, a quel tempo, nel suo primo fiore, e non poteva non destare ammirazione, sebbene apparisse alquanto trasandata. Anna teneva i capelli semplicemente raccolti in una treccia pesante e sostenuti alla meglio con delle comuni forcine, il suo cappello disadorno era messo senza studio sul capo. Alla sua giacca, dalle maniche fattesi un po’ troppo corte, mancava un bottone, e da uno dei suoi guanti, rotti in punta, sbucava un ditino infreddolito. Ella scendeva lungo il viale con altera e languida noncuranza, come se il cammino malfido non la riguardasse. Nelle nere scarpe tutte infangate, dai lacci consunti e legati in fretta, i suoi minuscoli piedi avanzavano con un passo regolare e tranquillo; mentre i suoi teneri occhi oscuri, che non degnavano alcuno d’uno sguardo, seguivano chi sa quali intimi orgogliosi splendori; e le sue labbra imbronciate si sporgevano in un modo ancor da bambina. Ella portava infilata al braccio una grossa sporta rigonfia e nella manina dal guanto bucato stringeva un portamonete assai logoro. L’altro braccio, in atto pigro e quasi dimentico, lo teneva abbandonato lungo la persona. Non c’era nell’atteggiamento di lei nessuna civetteria; e forse sua madre non si sbagliava dicendo ch’ella non piaceva agli uomini.
Come Anna giunse al limite dello spiazzo, l’accolse dal gruppo dei giovani un ridente brusìo, ma lei non vi fece alcun caso, secondo il suo fiero e riserbato costume.
Così distratta e inconscia, e insieme tanto sicura di sé, appariva una difficile preda. Ciò istigò l’ardore di Edoardo. Mentre Anna levava il piede ad attraversare una breve pozza fangosa, le giunse all’orecchio una voce dolce che diceva: – Oh, poverina! Cade... Che peccato, poverina! Cadrà!
Certo, Anna non poteva riconoscere questa voce.
Eran già passati tre anni da quando l’aveva udita, e inoltre, da allora, la metamorfosi dell’adolescenza s’era compiuta, e la voce s’era fatta armoniosa e virile. Tuttavia, per chi sa qual motivo, essa confuse Anna, che levò lo sguardo al gruppo dei giovani, senza distinguerne singolarmente nessuno, ma arrossendo a un tratto sotto il fuoco di quegli occhi ridenti. Uno di coloro, lo stesso che l’aveva confusa, proseguì a dirle: – Attenta, attenta.
Ecco, ora cade, poverina! ora cade... oh, l’avevo detto, io! – Difatti, in quel punto, mentre girava le pupille in cerca del suo persecutore, ella aveva perduto l’equilibrio, ed era caduta coi ginocchi sulla neve sciolta.
Una esclamazione unanime del gruppo deplorò la sua caduta, mentre colui che l’aveva provocata si staccava dagli amici, e sollecito accorreva presso di lei. Ma prima ch’egli potesse sopraggiungerla, già Anna s’era rialzata a precipizio, senza il suo aiuto, e si trovava ora in piedi al suo cospetto, un poco più in alto di lui per causa del declivio. Naturalmente, ella non poteva riconoscere Edoardo; ma come, a suo proprio dispetto, e pur abbassando gli occhi confusi, le accadde di guardarlo, provò una commozione inattesa, che accrebbe il suo turbamento.
L’erede Cerentano era un giovinetto della stessa età circa di Anna: alto di persona, ma gracile, benché l’orgoglioso portamento lo facesse apparire quasi vigoroso.
Nei suoi abiti, soprattutto in alcuni particolari, si osservava un’eleganza fin troppo compiaciuta per un uomo, e che faceva pensare, invero, a una specie di femminea civetteria; ma in contrasto con essa, si notava nella sua persona un certo disordine, e il suo cappotto di panno vellutato era inzaccherato di fango. Ciò perché la neve, nelle sue rare e strane apparizioni sulla nostra città, invitava anche i grandi a quelle gare turbolente che di solito sembrano adatte solo ai bambini; onde il Cugino richiamava alla mente certi ragazzetti i quali, dopo essere stati agghindati dalla madre con gran cura, e non senza soddisfazione della loro vanità, poi non si fanno scrupolo, obliandosi nei giochi coi compagni, di maltrattare e guastare il bel vestito della festa.
Edoardo era senza cappello; e i suoi capelli, non più così chiari come una volta, ma d’un biondo scuro vicino al castagno, apparivano in quel momento assai scomposti, e, divisi di lato da una scriminatura, gli ricadevano con negligenza sulla fronte. Quanto al suo volto, d’un ovale ben colmo, dagli occhi grandi e screziati, aveva un colore piuttosto pallido, malgrado la presente, grande animazione; ed era disegnato con tale grazia che una novella sposa non potrebbe vagheggiare, nei suoi pensieri segreti, un volto più leggiadro per il suo primo figlio. Le maniere, poi, del Cugino, pur nella loro vivacità irruenta e un poco nervosa, erano tuttavia tanto cortesi e delicate che nemmeno un cerimoniere di corte avrebbe potuto trovarvi, io credo, niente da ridire.
Ciononostante, a dispetto, voglio dire, di tali innegabili pregi, io temo che un uomo giusto, avvezzo ad ascoltare piuttosto la propria ragione che il proprio cuore, avrebbe provato, al vedere Edoardo, una fredda irritazione se non addirittura una grave antipatia o ripulsa.
L’erede Cerentano, infatti, a un primo sguardo, sembrava impersonare tutti i difetti che i moralisti severi imputano alla viziata gioventù della sua casta. Ho detto a un primo sguardo, però, e non senza motivo: poiché l’aspetto d’Edoardo era cosiffatto da poter ispirare sentimenti diversi ogni volta che lo si guardava, soprattutto se lo si riguardava con occhi non di giustizia, ma, per così dire, di maternità. E allora, ecco: tu avevi giudicato arroganza e braverìa il leggero, ma, si direbbe, un poco ostentato disordine dei suoi capelli, e adesso ti vien voglia di pettinarglieli, impietosita del loro spensierato abbandono. E l’alta curva dei sopraccigli esprime, come ti parve, altezzoso dispregio, o non piuttosto ansia e stupore? E in fondo a quello sguardo animoso e fervido, non vedi una specie d’interrogazione severa, quasi il comando, non disgiunto da trepidazione, di perdonargli i suoi effimeri privilegi? E il suo modo di sporger le labbra esprime un capriccioso corruccio, una presunzione irritante, o nasce invece dal gusto e dalla consuetudine dei baci? Ora il costume di baciare, per quanto esso pure un vizio, è meno riprovevole, però, vogliate ammetterlo, del suo vizio contrario, la scostante e gelida astinenza. Quanto alle sue mani, esse son forse la cosa più conturbante di questo personaggio. A vederle, si direbbero le mani d’una ragazza: fragili, futilmente nervose, si fan gioco di tutte le loro sorelle condannate alla violenza e al lavoro.
Non si vergognano di votarsi a tutto ciò che è frivolo e carnale, ma, all’opposto, se ne fanno una gloria; e sebbene scherzose e languide tradiscono però la bellicosa insolenza di chi è certo di sopraffare l’avversario. Ché se la Natura le fece deboli, la Fortuna, armandole, contro i più forti, dei suoi privilegi, le salvò dalla vigliaccheria.
Così Edoardo, con le sue mani di ragazza, si stima un prode, e ritiene l’ingiustizia suo proprio valore e merito.
Ebbene, dopo aver detto tanto male di loro lasciate ch’io riguardi queste piccole mani. Innocenza e fugacità esse esprimono, e poi null’altro, se non forse un’affettuosa mestizia; come se tu già presentissi il giorno che queste due ricche favorite saranno polvere. In verità, come si potrebbe odiare un così effimero personaggio a motivo della sua fortuna? Sarebbe lo stesso che nutrire rancore contro un gattino il quale, unico d’una nidiata destinata al sacrificio, fu risparmiato, e toccò a una padrona amorosa. Vien fatto, anzi, di ringraziare l’ingiustizia e la carità che consigliarono alla sorte di favorire Edoardo. E d’altro canto, se tu perdoni a un tuo simile la sfortuna, perché non vorrai perdonare a un altro i privilegi?
Tali sarebbero stati, suppongo, i miei sentimenti di ragazza se quel fortunato incontro col Cugino fosse toccato a me. Non vorrete attribuire, però, ad Anna, osservazioni o considerazioni consimili; anzitutto perché, a quel primo, fugace sguardo che gettò sul giovinetto, ella non ebbe certo l’opportunità di farne; e in secondo luogo perché a lei i privilegi di nascita, in quanto tali, piacevano come grandi virtù. Nella confusione di quell’istante, ad ogni modo, ella non vide altro innanzi a sé che un radioso, pietoso volto, il quale avrebbe potuto anche appartenere a uno straccione, ella non distinse nulla fuori d’un volto e d’una capigliatura spettinata. E il sentimento che provò subito per essi fu uno solo: il perdono.
Senza indugio perdonò a colui ciò ch’egli era o poteva essere e ciò ch’egli aveva fatto a lei, Anna.
Quanto a se medesima, si sentiva piena di vergogna, poiché nella caduta le si era un poco rovesciata la gonna, scoprendo la sottoveste dall’orlo di merletto alquanto sciupato. La sporta le si era sfilata dal braccio e le arance ch’essa conteneva rotolavano giù per la discesa. Rossa in viso, quasi lagrimante, ella cercava di nettarsi dal fango la veste, e i suoi guanti s’erano già tutti insudiciati nella prova: – Vi siete fatta male? posso darvi aiuto? – le chiese il giovinetto premurosamente. Ella balbettò che non s’era fatta nulla, e poi ridendo come chi, per orgoglio, vuol celare un impulso a piangere, soggiunse che non ritrovava il suo borsellino. Aiutato dall’amore che già lo accendeva, Edoardo non tardò a ritrovarlo, e quindi si dette a rincorrere le arance, respingendo con energia gli amici che gli contendevano un tal privilegio. L’ardente zelo e la soddisfazione di lui nel recarle quelle prede riconquistate commossero suo malgrado Anna, la quale, dimenticando ch’egli era, in fondo, colpevole della sua caduta, mormorava dei timidi grazie. Ella, tuttavia, provava una fretta straordinaria d’andarsene e agitata schivava gli omaggi dello sconosciuto; e questi, vedendola così frettolosa, fu invaso dal timore di perderla davvero per sempre. Cercò dunque nuove scuse per trattenerla: dapprima, toltosi dalla tasca un finissimo fazzoletto, insisté per nettare con esso i guanti di lei; e a tal fine, benché ella protestasse, s’impadronì delle sue mani e una dopo l’altra le stropicciò col fazzoletto, in atto delicato e gentile. Fatto ciò, ripose con grande amore il fazzoletto, dichiarando, con un piccolo sorriso galante e timido insieme, che lo avrebbe conservato in eterno, senza permettere a nessuno di nettarlo di quel fango. Ma poiché la fanciulla si disponeva ormai a fuggire, egli decise ch’ella non poteva attraversare il viscido spiazzo da sola, e le offerse, o meglio le impose, il proprio braccio. Un mormorìo di plauso, dalla parte degli amici, seguì la traversata della coppia; ma Edoardo, sogguardando il viso crucciato e i cigli aggrottati della fanciulla, sentiva com’ella, costretta a subire il suo sostegno, fremesse di liberarsi. Egli contava fra di sé i passi che li separavano dall’addio; e infine, non vedendo altro scampo, prese una suprema decisione. Sul punto d’arrivare alla mèta, volontariamente mise un piede in fallo, e cadde, trascinando la propria dama nella caduta.
Un grido di gaio spavento si levò dagli amici, che accorsero verso la coppia. Nell’inciampare, Edoardo aveva avuto cura di cingere la fanciulla alla vita, affinché non si facesse male. Ciò accrebbe il turbamento di lei, che si levò rapida, tutta tremante, e pallida fin sulla bocca. La gente che passava osservava la scena, chi con aria di scandalo, e chi con divertito stupore; e Anna voleva fuggire, ma Edoardo, ancora in terra, piegato su se stesso, con un volto attristato e sofferente, la rimproverò di lasciarlo in quello stato. Egli ostentava di levarsi con gran pena, e accusava un acuto male a una gamba; né d’altra parte, lei stessa, benché illesa, era in condizioni di partire, ché aveva perduto il cappello, e la sua grossa treccia, liberatasi dalle forcine, le pendeva giù lungo il dorso.
Smarrita, ella chinò gli occhi sul suo persecutore, il quale rialzandosi a fatica, e mostrando di zoppicare, non si stancava di chiederle perdono, e d’inveire contro la nevicata, e il suolo fangoso, colpevoli, a sentir lui, d’aver tradito le sue buone intenzioni, provocando quel duplice e maligno accidente. Mentr’egli così parlava, gli altri giovani si prodigavano intorno ad Anna, porgendole chi il cappello, chi una forcinella, e chi un’arancia. Ma Edoardo, con occhiate ombrose, allontanò la schiera degli amici, i quali fattisi da una parte dello spiazzo andavano commentando a bassa voce il seguito della scena: – Sentite, signorina, – disse Edoardo ad Anna, in un tono serio, e un poco scontroso, – io non so se voi siete cattiva o buona. Se siete buona, non potete lasciare così uno che s’è ferito per aiutarvi. Se poi siete cattiva, si capisce, non può importarvi niente ch’io mi sia ferito e magari storpiato per voi. Ma anche se non v’importa, per piacere, non andate via subito. O almeno ditemi il vostro nome, ditemi se abitate lontano di qui e se posso comunicarvi la mia guarigione, quando avverrà. Come vi chiamate? E dov’è la vostra casa? Il mio nome, scusate se non ve l’ho detto subito, – (qui il giovinetto fece un piccolo inchino decoroso), – è Edoardo Cerentano.
A questo nome, i circostanti e tutta la presente scena scomparvero agli occhi di Anna. Il suo mento incominciò a tremare, ed ella balbettò, con uno sguardo rapito:
– Ma io... sono vostra cugina.
Una simile scoperta rallegrò al sommo Edoardo. E poiché, richiesta nuovamente del suo nome, ella gli disse di chiamarsi Anna Massia, incantato egli affermò che infatti Massia era il cognome di sua madre: – Allora, – concluse poi con una felicità subitanea, che lo rendeva quasi inquieto, – possiamo subito darci del tu? – Anna rispose con una risata febbrile e sommessa. – E dimmi, – egli soggiunse, – che cosa ti piace? Ti piace il cioccolato? – E s’affrettò a spiegare che, per l’appunto, nella pasticceria là presso si faceva un cioccolato squisito, e che, essendo loro due cugini, non v’era niente di male per loro a bere insieme una bevanda calda, dopo esser caduti nella neve. Così detto, e immediatamente risanato, secondo ogni evidenza, della sua ferita alla gamba, egli guidò prestamente Anna dentro la bottega: e l’iridata, scintillante porta a vetri si richiuse su loro due. Quanto ai compagni, essi conoscevano il proprio dovere, in simili occasioni; e s’eran dileguati tutti.
Anna non ignorava che, per le severe costumanze della città, dal momento stesso che entrava con un giovanotto nella pasticceria, ella era disonorata. Ma ormai, sapendo ch’egli era Edoardo, non poneva più mente ad altro, e lo avrebbe seguito pur se lui le avesse proposto di recarsi all’America. Sedettero a un tavolino, dove fu servito loro il cioccolato, e il cugino le domandò se questo le piacesse. Anna accennò di sì, ma, in realtà, in luogo del cioccolato avrebbero potuto servirle una medicina amara, che lei non si sarebbe accorta della sostituzione. Le dita che reggevano la tazza le tremavano così forte, che un poco di cioccolato le si versò sul mento, e lei fece per pulirsi coi suoi guanti già tanto sudici, ma il cugino si affrettò ad asciugarle il mento lui stesso, col tovagliolo ricamato della pasticceria. Nel far ciò, s’accorse che Anna piangeva, e le domandò se forse, cadendo poco prima, s’era fatta male. No, Anna non s’era fatta alcun male, e non sapeva neppur lei perché piangeva; ma, quando tentò di rassicurare il cugino, le lagrime le caddero più fitte, e poté appena fargli segno di no col capo. Il pensiero d’aver provocato, in qualche modo, quel pianto, mortificava il cugino; il quale, dopo avere invano insistito con le sue domande, si tolse dal collo una sciarpetta di lana (scusandosi di non poter più offrire il suo fazzoletto sporco di terra), affinché Anna si asciugasse gli occhi. Ella ubbidì, ma nell’accostare al volto quella sciarpetta provò un senso di gioia così pungente, che, dimenticandosi degli estranei presenti nella bottega, s’abbandonò a un debole singhiozzare. Nel frattempo, il cugino era corso al banco, dove aveva scelto lui stesso dei pasticcini, che adesso le recava in persona su di un vassoio, allo scopo di consolarla; ma Anna, pur volgendogli uno sguardo grato, accennò che non poteva mangiar niente: – Ma dimmi almeno perché piangi, cucina mia, – egli ripeté. E finalmente, in risposta, ella gli confessò con un filo di voce che, dal giorno in cui s’erano salutati dalla carrozza, non aveva mai cessato di pensare a lui; e oggi, le pareva una cosa troppo strana d’averlo incontrato. Troppo strana, e addirittura non vera: ecco perché lei, che non piangeva mai, s’era messa a piangere. – Salutati dalla carrozza? – domandò Edoardo dubbioso. Naturalmente, quell’evento d’undici anni prima era svanito dalla sua memoria; ma come Anna, con voce rotta e sommessa, gli rievocò l’episodio, egli finse di ricordarsene e fece grandi meraviglie per non aver subito riconosciuto sua cugina. Di ciò risero entrambi come pazzi; ma venne infine il momento di separarsi, e il cugino vi si rassegnò a malincuore, non senza aver prima chiesto ad Anna l’indirizzo di casa sua. Poi, caricatosi della sporta, dopo che la fanciulla si fu riassestata alla meglio, la sorresse con grazia cavalleresca attraverso il cammino fangoso. Là in quei pressi, lo attendeva la carrozza dei Cerentano; ma invitare la fanciulla a salirvi avrebbe significato insultarla, secondo il codice morale della città, ond’egli, suo malgrado, rinunciò a farle simile proposta. Il pensiero di lasciare Anna gli dava, però, un’amarezza vicina allo sgomento; e cercando un pretesto per ritardare l’addio, giunti che furono all’incrocio ove conveniva salutarsi, egli si dette a rimirare la mano di Anna, che stringeva nella propria, e osservò: – Hai la mano assai piccola per la tua statura, e bella, assai bianca! Tu non ami di cucire, scommetto.
Conosco delle ragazze che han le dita punzecchiate dal cucire. E io, guarda sulla mia mano, questa macchia scura. Indovina perché? è il fumo. Io cominciai a fumare quando avevo undici anni. Ed ecco, questo è il segno dei fumatori. Anche la mia mano è piccola, no, per essere d’un uomo? E abbastanza bella, che ne dici? Somiglia alla tua, non ti pare? Ebbene, si capisce, è sua cugina carnale –. Qui egli prese a intrecciare le dita di Anna intorno alle proprie, con l’aria di trastullarsi; ma aveva un volto sconcertato e triste; e infine, incapace di resistere ancora al proprio sentimento, trasse un sospiro e avventò la domanda: – Possiamo rivederci... domani?
In fretta, quasi a perdita di fiato, ella mormorò che tutte le mattine alla medesima ora di quel giorno, si recava al mercato là vicino per le spese: – Anch’io, – disse allora il cugino risolutamente, – son solito d’andare tutti i giorni proprio a quel mercato. Ci vado per acquistare tabacco.
Tabacco da pipa –. Ma un tal motivo, a ripensarci, dovette sembrargli un poco inverosimile, perché aggiunse, dopo una breve incertezza: – E carrube. Carrube per il mio cavallo. Vedi là quel cavallo rossiccio, attaccato alla carrozza? Quella è la mia carrozza, la riconosci, no, dallo stemma? E quel cavallo là, quello di sinistra, si chiama, per l’appunto, Mangiacarrube. Ebbene, che cosa dici?
Supponi che c’incontreremo, domani, al mercato?
Anna non capì s’egli scherzasse o parlasse sul serio, e, non sapendo che rispondere, arrossì. Ma il cugino la guardava intento, già morso dal dubbio e dall’ansietà del domani: – Forse, – le disse con disappunto, e con un piccolo riso forzato, – da domani tu farai le spese altrove, o manderai qualcun altro in tua vece? Magari già mediti questo, o magari sarà soltanto un caso? E io andrò lì, e tu no?
Tutta rosa, Anna balbettò che questo non poteva certo accadere: – Allora, – egli esclamò pieno d’impazienza, in tono supplice e insieme autoritario, – allora non mancherai? non mancherai per nessuna ragione al mondo?
Alla timida assicurazione di lei, egli si decise infine, non senza riluttanza, a lasciarle la mano, e a restituirle la sporta delle spese. Si staccarono dunque uno dall’altra, lui per avviarsi verso la carrozza, e lei per inoltrarsi nelle opposte vie che la conducevano a casa. Per solito così languida e superba nell’andatura, ella, fatto qualche passo, incominciò a correre febbrilmente: usanza, questa, non nuova in lei, allorché si trovava in balìa d’una qualche passione.
Era una fuga esultante, incosciente, e libera da pensieri terrestri: non diversamente, immagino, fuggiranno le anime degli eletti, ascendendo al cielo. Com’ella poi si ritrovò sola a casa (sua madre era fuori per una lezione), la sua mente incominciò a turbinare fra pensieri in contrasto, ma pari tutti nella violenza, sì che uno la trascinava a un riso smodato, e un altro a una lagrimosa e insana malinconia. Il suo primo pensiero fu di trionfo, e di quella certezza, temeraria fino alla empietà, che esalta non di rado i fanciulli inesperti. Ecco, diceva ella a se stessa, la promessa si compie, non t’accorgi ora d’aver sempre saputo che tu e lui dovevate incontrarvi, che ciò non poteva mancare? Da oggi la tua vita comincia, è la legge, il tuo diritto. Di che ti meravigli, dunque? Ella si disprezzava per aver qualche volta dubitato, e si riposava un poco in questo disprezzo; ma nel medesimo istante la assaliva un pensiero del tutto opposto. Il dubbio, cioè, che l’evento di oggi fosse un fuggitivo episodio senza seguito, un inganno. Ella non rivedrebbe mai più Edoardo, e tutto ricomincerebbe come ieri... Qui ritornava a un infinito vagheggiamento della persona d’Edoardo: potresti tu, pur volendo, si ripeteva, immaginare una maggior gentilezza, e grazia, e bontà? e pensare che s’udirono tante calunnie sul conto di lui! Del resto, concludeva ella a sua propria discolpa, io non vi prestai mai fede... Così pensando, era tratta a un’adorazione di lui tanto smisurata, che le pareva impossibile d’aver risposta o compenso ad essa. Confrontava se medesima a lui, e con sùbita umiltà si trovava del tutto indegna al confronto. Allora, come un eroe esaltato, al quale in una battaglia impari e senza speranza sembra vittoria l’immolarsi, ella avrebbe voluto morire in quel momento stesso, per legarsi in eterno alla propria, adorata utopia.
Rincasata che fu sua madre, la nostra esaltata eroina si ricompose; e poiché la vita familiare procedeva secondo il solito, l’evento straordinario della mattina parve allontanarsi, come fosse già antico d’un secolo. Simile a un naufrago che scorga lontano una nave, senza sapere s’essa gli venga incontro o se dilegui, Anna cercava di irrigidirsi contro la speranza: «Devo fingere che non sia accaduto nulla, – s’imponeva, – non devo crederci». Ma un’esultanza mescolata di paura la risollevava d’un tratto, suo malgrado: «Al mercato, domattina... – si diceva, – ma non verrà. Sarebbe meglio per me di morire stanotte». Già il mondo consueto le appariva insopportabile senza quella nuova speranza, ed ella si tenne in casa tutto il giorno per non vedere nessun viso profano. Or che aveva respirato nelle sfere del suo grande Cugino, l’aria terrestre la soffocava. La gente tutta era volgare, stolta e ignorante, giacché non avvertiva l’incantevole cuginanza di Anna, non divinava l’evento di quella mattina né che lei, Anna, non era più la stessa di ieri. Come potevan essi presumere che Anna fosse ancora una di loro! Tutti gli abitanti della città, fuor d’Edoardo e di chi gli stava vicino, eran da oggi inferiori e servi di Anna. Come accade a un tiranno detronizzato che aspetta di riavere il suo regno, la sfiducia nella propria sorte accresceva il suo odio per loro, e la fede, il suo disprezzo; e nell’attesa, ella si saziava in cuor suo di superbia e di crudeltà.
I miei lettori mi perdoneranno se li intrattengo su simili fanciullaggini: essi devono comprendere che una storia, come una pianta, avanti d’essere un albero frondoso, e carico di frutti, è uno stelo acerbo, la cui natura si può riconoscere appena appena dalla forma delle foglioline insapori ed esigue. Perciò, avanti che la mia storia maturi, vogliano essi adattarsi al sapore insipido, comune e amarognolo della sua età acerba.
Dunque, in conclusione, Anna passò una giornata piena d’angoscia. Ma se verso una cert’ora, mentre si consumava nel dubbio, si fosse affacciata alla finestra, e avesse potuto spingere lo sguardo dietro l’angolo d’una viuzza sottostante, le sarebbe apparsa in tutta la sua ricchezza, ferma là sul suolo fangoso, la carrozza dei Cerentano.
Alla mattina, quando s’erano lasciati, Edoardo nel montare in carrozza aveva gridato al cocchiere l’indirizzo della cugina, ordinandogli però di seguire una via diversa da quella che Anna stessa percorreva fuggendo. Giunto alla mèta quasi nello stesso tempo di Anna, dall’angolo d’una straduccia là presso egli l’aveva veduta scomparire in un portone; e a lungo era rimasto ad attendere, senza saper che cosa, finché, suonato da un pezzo il mezzogiorno, s’era deciso a tornare indietro. Come s’è già accennato, fin dal momento stesso in cui, dalla soglia del caffè, egli aveva veduto Anna discendere il viale assorta e superba, e poi cadere, e rialzarsi tutta sgomenta, con le guance rosse di vergogna; fin da quel momento egli s’era innamorato di lei. Da allora aveva perduto la pace (seppur la parola pace aveva senso alcuno nella tormentata esistenza d’Edoardo).
A casa, egli non aveva nessuno a cui confidare la sua nuova, subitanea passione. Sua sorella Augusta già da due anni s’era sposata. Il matrimonio, secondo il costume di quei tempi e di quei luoghi, era stato deciso di comune accordo dalla parentela di ambedue le parti, ubbidendo a criteri di casta e di censo. Augusta s’era trasferita dunque nella casa di suo marito, e non aveva tardato ad innamorarsi di costui, come talvolta accade: giacché il marito, dopo il fratello, rappresentava, nella sua mortificata esistenza, l’unico esempio, e addirittura il simbolo, di tutta intera l’umanità virile. Non per questo era diminuito in lei l’affetto fraterno; ma Edoardo, passato il primo dispetto per l’abbandono di lei, non cercava più la sua compagnia, che giudicava noiosa. Quanto a Concetta, fin dall’età della ragione Edoardo non provava alcuna voglia di confidarsi con sua madre. Egli non aveva tardato, inoltre, a rendersi conto che Anna era quella cugina Massia tenuta al bando dalla parentela. Ciò non intralciava per nulla i suoi propositi, ma non lo incoraggiava alla confidenza. Neppure con gli amici egli non poteva effondersi, perché la sua natura gelosa lo tratteneva dal vantare troppo con essi la sua conquista.
Avvertiamo a questo punto ch’egli non era affatto, come potreste credere, uno di coloro che non san tenere un segreto tutto per sé: al contrario, il segreto e l’intrigo davano spesso un più strano, delicato gusto ai suoi sentimenti. Ma oggi, il suo nascente amore per Anna gli pareva diverso, e più serio, dagli altri già provati nella sua giovane vita; e incerto ancora del seguito di questo amore, timoroso di perderlo, quasi che Anna potesse svanire prima di domani, egli non sapeva rinchiudere in sé la propria inquietudine. Troppo impaziente per aspettare fino al giorno dopo, arrivato a casa scrisse una poesia in onore di Anna, in cui, con aulici accenti, e non senza maestria, diceva che avrebbe voluto essere una folata di vento, per entrare d’un balzo nella stanza di lei, scompigliarle i capelli con una carezza, e sconvolgere i suoi pensieri. Le diceva inoltre com’egli fosse abbagliato dal fulgore delle sue pupille; ma, ahimè, esse eran come le stelle che brillano nel cielo aperto, e tutti possono ammirarle.
Egli avrebbe voluto invece contemplarle in solitudine, come pietre riposte in uno scrigno. Scrisse questi versi su un foglio di carta da lettere, come un messaggio, e rinchiusili in una busta, decise di portarli lui stesso all’indirizzo di Anna. Si fece condurre dunque dal cocchiere, per la seconda volta in quel giorno, fino al quartiere popolare dov’ella viveva. Ed inoltratosi in un sudicio androne, già buio nel pomeriggio d’inverno, consegnò la busta a una portinaia spettinata intenta a cucinare dentro il suo sgabuzzino, pregandola di recapitare segretamente il messaggio alla signorina Anna Massia. Per questo servizio, pagò splendidamente la donna, e, sempre raccomandandole il segreto, mentr’ella agitava la sua ventola si sedette su una sedia spagliata presso di lei e cominciò a interrogarla sul soggetto di Anna: quale fosse la vita della signorina Massia, e se questa uscisse molto al passeggio, e se avesse corteggiatori, e se mai fosse stata innamorata.
Le risposte a tale interrogatorio furono secondo i suoi desiderî; ma non basta. Risalito sulla carrozza, Edoardo si confidò col cocchiere, a lui quasi coetaneo, amico e devoto, chiedendogli il suo parere sulla bellezza di Anna, che il poveretto aveva appena intravista quella mattina.
Sebbene intirizzito, e non certo grato, nell’intimo, alla colpevole di così scomodi pellegrinaggi, il cocchiere rispose con le più alte lodi. Ciò attizzò la fiamma d’Edoardo; incurante del freddo, egli non si decideva a ripartire sperando di scorgere Anna. Avido e geloso guardava a quella facciata plebea dietro la quale Anna viveva; e cercava di figurarsi l’aspetto della stanza ov’ella si muoveva in quel momento, gli oggetti ch’ella guardava, le persone che le parlavano. Quando volle Iddio, lo smanioso innamorato ordinò al cocchiere di ripartire. Ma giunto a casa, non potendo volgere ad altro i suoi pensieri, si sedette al piano, ove adattò ai versi già scritti in onore di Anna una musica di sua propria invenzione. Quindi, convocati ai suoi ordini due garzoni di casa a lui cari, i quali suonavano l’uno il mandolino e l’altro la chitarra, in poco tempo insegnò loro la sua musica e s’apprestò a fare una serenata a sua cugina in quella notte stessa.