Capitolo quarto
Il Cugino incontra la paura e volta le spalle alla compagnia

Suo primo pensiero, arrivato in città, fu di correre da Edoardo; ma lo aspettava, qui, un’amara sorpresa. Aperto il portoncino d’ingresso, il servitore, che conosceva Francesco per le sue precedenti visite, rimase un poco interdetto alla sua richiesta di vedere il padroncino. E meravigliandosi ch’egli non sapesse la nuova, gli annunciò che il signorino Edoardo era partito insieme con la signora tre o quattro giorni avanti, e in casa non era rimasta che la servitù. Francesco spiegò di essere stato fuori in quei giorni, e s’informò se il signorino avesse lasciato qualche comunicazione per lui; ma il servitore rispose di non avere ricevuto nessun ordine a questo riguardo. Alla domanda, poi, di Francesco, sulla destinazione d’Edoardo e sulla durata dell’assenza, il servitore dichiarò di non saper nulla. E aggiunse che il padroncino e la signora avevano deciso la partenza da un giorno all’altro, a scopo di svago e istruzione del padroncino, e non avevano lasciato messaggi o comunicazioni di sorta. Amareggiato, senza riuscire ad aver notizie più precise, Francesco ritornò sui propri passi. Egli pensò che Edoardo si fosse deciso, finalmente, al viaggio consigliatogli già dai medici, e rimandato più volte, sebbene annunciato ad Anna per finta; ed aspettò, nei giorni successivi, una lettera di lui, coi suoi saluti e le sue spiegazioni. Ma né in quei giorni, né in seguito, Edoardo non si fece più vivo. Da principio, Francesco pensò che l’amico volesse, col suo silenzio, vendicarsi di lui per la mancata promessa di scrivergli dalla campagna. Ma poiché tale silenzio si prolungava oltre i limiti d’un affettuoso dispetto, si persuase alla fine d’essere trascurato, dimenticato e tradito. Forse, egli pensò, ignorando il suo preciso indirizzo di campagna, Edoardo, da principio, aveva tardato a scrivergli, ripromettendosi di farlo più tardi, allorché si poteva presumere ch’egli fosse tornato alla sua camera di città. Ma tale breve indugio, si diceva Francesco, era bastato, a quanto pare, perché Edoardo, distratto dalle novità, divertimenti e amicizie di viaggio, si dimenticasse addirittura dell’amico, o non si curasse più di lui. Così che, per orgoglio, anche Francesco si sforzò di scacciarlo dalla memoria e dal cuore. In realtà, i fatti s’erano svolti in tutt’altro modo; ma Francesco non conobbe la sorte dell’amico se non molti anni più tardi.

Un paio di giorni dopo la partenza di Francesco dalla città, Edoardo, entrando un pomeriggio nella propria camera, per riposarsi di una grave stanchezza, proprio sulla soglia era stato còlto da malore. Egli credette il primo istante di provare una semplice nausea, o capogiro. E dopo la gran luce che i finestroni a vetri riversavano sui corridoi, si fermò abbagliato e incerto nella penombra della camera, tenendosi a malapena in piedi contro l’uscio accostato; mentre con impulso infrenabile, sebbene languido, una schiuma sanguinosa gli saliva dal petto empiendogli la bocca. Una torpida liberazione si mescolava al suo venir meno; un fiotto più copioso gli sgorgò dalle labbra, spogliandolo d’ogni forza, ed egli con le orecchie ronzanti, le pupille offuscate, si lasciò docilmente sopraffare da questa violenza, senza più cercare di spiegarla.

Accorsa da una stanza vicina ai suoi rauchi lamenti, una cameriera lo trovò in ginocchio presso la soglia, tutto insanguinato. Ella gridò al soccorso; e come, per far luce, furono tirate le tende, Edoardo si guardò le mani e gli abiti con occhi sbigottiti e interrogativi.

Rinvenuto, in poco tempo, dal suo passeggero deliquio, egli rivide ogni cosa con subitanea chiarezza. Al malore che l’aveva còlto, d’un tratto egli dette nella mente un nome. E ripensò ad una giovinetta, compagna di collegio di sua sorella Augusta: il quale, dopo un malore simile a questo, non s’era più riavuta e nel giro di una stagione era morta di tisi. Durante la lunga malattia dell’estate avanti, Edoardo s’era pure incontrato con la morte; ma era, in quei giorni, sopito, nell’incoscienza della febbre. Adesso, invece, vedendo con occhi spalancati e lucidi questo antico spavento, incominciò a piangere e a singhiozzare. Le lusinghe e gli inganni di sua madre e dei medici lo esasperavano invece di consolarlo; ma allorché i dottori, d’accordo, gli consigliarono la partenza vergo luoghi più salubri, non appena si fosse rimesso un poco, e gli fecero il nome d’una celebre casa di cura, egli entrò in una fretta smaniosa di partire. Quasi illuso di fuggire, così la minaccia di morte, lasciandola in questa casa, in questa città, ripeteva che voleva partire subito, per guarire subito, subito! Chi avesse osato dirgli che la sua guarigione richiederebbe dei mesi e forse degli anni, avrebbe provocato in lui scoppi d’ira o di pianto. Nei suoi volubili umori, passando, dallo spavento, alla speranza e alla rivolta, egli dava ordine di affrettare i preparativi; ché, insisteva con puerile accanimento lui, non voleva esser malato, voleva, senza ritardo, ridiventare quello di prima. E, nel dir così, girava, sugli altri, sguardi irrequieti e burrascosi, come se paventasse, o sfidasse, una possibile obiezione. Gli apprestamenti per il viaggio lo resero quasi ilare; sebbene gli si consigliasse il riposo, nell’insofferenza di giacere a lungo egli seguiva per le stanze sua madre, che aveva subito stabilito di accompagnarlo nella partenza; e assisteva, neghittoso, alla febbrile attività di lei. Di tratto in tratto, poi, le si stringeva accosto, e serrandole il viso fra le palme o scompigliandole un poco la pettinatura, secondo il suo costume, le chiedeva in tono festoso: – Non sei contenta che si parte? non piace forse a donna Concetta questo viaggio? non le piace forse d’essere la mia compagna? – E ridendo, la fissava con occhi lucenti e ostinati, che le ordinavano, con prepotenza, di partecipare a quella fittizia allegria. A lei, talvolta, vedendolo tornato ai suoi modi vivaci, si dilatava il cuore nella speranza; ma poi, se riguardava quel volto assottigliato, che l’ansia e ardore di vivere consumavano, era presa d’un tratto da una disperata ribellione. E gridava: – Ah, se si fosse fatto prima, questo viaggio! Se tu avessi ascoltati i consigli di tua madre! – A queste parole, vedeva Edoardo trascolorarsi, percorso da un fremito, come ad una profezia funesta. E rimproverandosi, allora, i propri impulsi, avidamente abbracciava il figlio, lo copriva di baci; e prolungava la stretta, cui dava forse nel segreto della propria volontà un potere di magìa. – Lasciami, lasciami, – diceva Edoardo, stizzito e triste, – mi farai venire la tosse –.

Ché, in quei primi giorni dopo la rivelazione del male, egli paventava ogni colpo di tosse come uno spettro. Si svincolava dunque da sua madre; e imbronciato cominciava ad errare per le stanze, in preda alle sue paure.

Concetta imparò, allora, a fingere un umore tranquillo.

Ma un giorno, entrando d’improvviso in una stanza dov’ella, con l’aiuto della figlia Augusta, finiva di riporre alcuni oggetti, Edoardo la sorprese in una convulsione di pianto, mentre Augusta, anch’essa col viso lagrimoso, cercava invano di richiamarla alla ragione. Tale vista esasperò Edoardo, non meno che se avesse sorpreso le due donne a congiurare contro di lui. – Voi piangete per me! – esclamò con un tono in cui l’accusa e la collera si mescolavano alla ormai quotidiana, ritornante ambascia.

E gettando sguardi inquieti a sua madre, accovacciata come una selvaggia sul pavimento, fra le valige sparse, prese a inveire contro di lei. Con voce dolorosa e capricciosa, gridava che quel pianto gli portava sfortuna; e di voler fuggire da simili volti luttuosi e tetri; andarsene da solo, e non esser più ricordato né amato da chi, con le notturne orazioni, coi tristi digiuni e i voti gli gettava la cattiva sorte. A questo punto, con parole violente, mentre vampe e pallori gli si alternavano in viso, Edoardo prese a insultare le Messe, le Comunioni, e le altre sacre cerimonie con cui sua madre sperava di meritare da Dio la sua guarigione: cerimonie ch’egli chiamava commedie malaugurate e fastidiose magìe. Così il nostro ostinato personaggio rinnovava ancora una volta l’antica battaglia contro le credenze di sua madre: agli orecchi della quale, nelle circostanze presenti, le sue grida acquistavano un suono più che mai temerario e nefasto. Incapace di farle tacere, Concetta, i grigi capelli scomposti intorno al viso invecchiato dalle veglie, fissava sul giovane gli occhi dilatati e supplici; e bianca bianca, percossa dal timor sacro, pareva ammutolita. Ma poiché Augusta esclamò: – Edoardo! Edoardo, per amor di Dio! – e fece l’atto di segnarsi, Edoardo si rivoltò contro la sorella, e afferrato a caso un cencio fra gli indumenti già disposti nella valigia, glielo gettò in viso.

Dopo tale gesto, egli ebbe un piccolo singulto; e voltando le spalle, silenzioso e curvo si sedette sopra un baule, ravviandosi con le dita convulse i bei capelli, che il male aveva un po’ sfioriti. Concetta indovinò ch’egli era stanco, e già bisognoso di carezze; ella esclamò: – Edoardo mio! – e tutta tremante ancora, accostatasi a lui prese a ravviargli a sua volta i capelli, come per aiutarlo, intrecciando a quelle di lui le proprie dita. – Edoardo, che Dio ti perdoni, – ripeteva, affranta, e pervicace, – che Dio non t’ascolti e creda a tua madre, non a te, cuoricino mio prezioso, anima cara senza giudizio. Ah, tu parli senza darti pensiero delle parole che dici, sempre così fosti, sempre lo stesso spensierato, e come ti conosce tua madre, Nostro Signore ti conosce e ti perdona. Di che accusi tua madre? Di che t’insospettisci? di che rimproveri Concetta tua? Sentimi, sentimi, – ed ella (dicendosi fra di sé: mentire per carità non è peccato), addusse delle false scuse alle proprie recenti lagrime, che tanto avevano offeso Edoardo. Il quale, sebbene incredulo e fosco, tuttavia, docile alle altrui carezze, rimuoveva un poco le labbra al sorriso; ché, mentre sua madre lo cullava come un bambino, una febbre leggerissima e ancora inavvertita, compagna del crepuscolo, gli rendeva i sensi più acuti e lo indeboliva.

Dall’ora che quel primo, funesto malore lo aveva abbattuto nella sua camera; dal punto, dico, in cui, ripresi i sensi, aveva riconosciuto la propria sorte, Edoardo non concedeva più alcun pensiero né a familiari, né ad amici.

Dimenticato ogni altro affetto e interesse al mondo, in cuore non ebbe posto che per se stesso. Voleva partire, guarire, voleva vivere. E rifiutava con una sorta di disgusto ogni ritorno al passato, fin la fedeltà dei ricordi: poiché la memoria gettava baleni crudeli sulla sua presente disgrazia. Coloro che gli erano cari un tempo, adesso egli li odiava: per essere, loro, sani e liberi, mentre lui, già vittorioso fra tutti, era malato. E giunse a tale accidia che, stando lontano, rifuggì non soltanto dallo scriver lettere, ma perfino dall’aggiungere una firma o un saluto a quelle scritte da sua madre. Per cui, non diversamente da Francesco, anche gli altri amici della città rinunciarono infine ad ogni corrispondenza con lui.

La partenza fu di pomeriggio; nel momento che il cocchiere diede il via con la frusta, Edoardo accennò, di dietro il vetro dello sportello, un imbronciato segno d’addio. Davanti al palazzetto dei Cerentano, s’erano raccolti i parenti più prossimi, alle spalle dei quali s’affollava la servitù, per salutare i due viaggiatori. Gli anni precedenti, al partire per la campagna, Edoardo soleva salutare uno per uno tutti i domestici, con festosa confidenza, non senza aver lasciato, ai suoi più cari, un dono generoso. E, allontanandosi nella carrozza, più di una volta si sporgeva a sorridere e a fare addio, quasi che si accingesse ad un lunghissimo viaggio. Ma oggi, il suo volto, che pareva rimpicciolito, si appoggiava pigro e gelido sui cuscini della carrozza. Le sue mani nervose, estremamente smagrite, si stringevano l’una all’altra sotto la coperta da viaggio. Egli non si volse neppure un istante, né girò gli occhi, lungo il percorso, a riguardare le vie dove tante volte, in libertà, s’era divertito a fare il vagabondo.

Accanto a lui Concetta, disavvezza ai lunghi viaggi, come la più parte delle nostre signore, si costringeva a nascondere, dietro un’apparenza statuaria, i sentimenti dai quali era tutta sconvolta. Unico segno apparente della sua commozione eran le sue labbra insolitamente vermiglie, a causa dei morsi ch’ella si era data per vincere il pianto. In una occasione diversa, forse non avrebbe avuto un simile ritegno a rivelarsi turbata, e a portare il fazzoletto sugli occhi. Ma stavolta era necessario mostrarsi impassibile: affinché a nessuno venisse il sospetto che il viaggio intrapreso da lei stessa e da suo figlio non era un viaggio di piacere.

Fra i congiunti e i domestici radunati per salutare, soltanto pochissimi conoscevano la verità, e questi sotto il sigillo del segreto. Alla cameriera che aveva, per prima, soccorso Edoardo, erano stati dati ordini severi di non raccontare l’accidente ad alcuno; e inoltre s’era cercato di farle credere ad un malessere di lieve importanza. I pochi altri che, per diversi motivi, erano a conoscenza della verità, avevan solennemente promesso di non rivelarla. Difatti, nel codice sociale di quei luoghi, la malattia d’Edoardo era considerata non soltanto una sventura, ma poco meno di un disonore. Di più, i congiunti, oltre al timore di venire sfuggiti nella loro cerchia, non volevano dar gusto all’invidia, o esca alla malevolenza altrui. Malgrado questa lor volontà, naturalmente, non si poteva impedire che, col passare del tempo, il triste segreto venisse scoperto e diffuso. Non si tardò molto, nella società dei signori, a conoscere la sventura dei Cerentano. Ma Francesco De Salvi, dopo l’abbandono di Edoardo, era per sempre diviso e lontano da tale società. La notizia, quindi, già ve lo dissi, lo raggiunse con molti anni di ritardo: fino ad allora, dell’amico egli non seppe più nulla.