Villa suburbana di Aurelio sul colle Gianicolo

Il mattino dopo Aurelio si svegliava nella sua villa alle falde del Gianicolo, che pochi servi fidati tenevano sempre pronta per ospitare lontano da occhi indiscreti le signore poco propense a compromettersi. Il corpo nervoso di Lavinia captò il lieve mutamento del suo respiro come se fosse dotato di antenne simili a quelle di una mantide. Un istante dopo la ragazza sedeva sul letto in atteggiamento aggressivo, velando con tardiva pudicizia la nudità totale delle membra sotto l’angolo di una coltre.

«Chi credi di essere per mandarmi a prelevare a sera inoltrata con una scusa idiota e farmi portare qui come una schiava qualunque?»

«Be’, ha funzionato, no?» allargò le braccia Aurelio con un sorriso disarmante. «E poi non era una scusa, avevo davvero una notizia di grande importanza da comunicarti.»

«Sentiamo.»

«Hai mai pensato al matrimonio?»

«No» escluse Lavinia.

«Come mai?»

«Primo perché non voglio avere un padrone, secondo perché nessun uomo decente mi avrebbe presa. Adesso godo di una piccola rendita, che però potrebbe far gola soltanto a qualche vedovo male in arnese, al quale non ho alcuna intenzione di fare da serva e infermiera!»

«A dire il vero hai anche una dote discreta: mi sono permesso di intestare a tuo nome un gruzzolo che, se ti sposassi sine manu, in caso di divorzio resterebbe comunque di tua totale proprietà.»

«Ah ah ah ah, intendi dire che mi hai procurato la dote, in modo che qualcuno faccia di me una donna onesta? Ah ah ah ah, ma tu sei matto, Publio mio, sei tutto matto!»

«In effetti sto per farmi latore di un’istanza.»

«Non me lo dire, qualcuno mi ha chiesto davvero in moglie?» ghignò Lavinia. «È incredibile. E quanti anni ha, ottanta o novanta?»

«Va verso la quarantina.»

«È guercio, zoppo, paralitico, o che altro?»

«Occhi azzurri, alto, ben piantato e molto appetibile» precisò Aurelio.

«Allora dove sta l’inghippo?»

«Due ragazzi orfani a cui provvedere, solo dal punto di vista umano però, dato che hanno mezzi propri.»

«Ehi, non starai parlando di quel mollusco viscido e odioso di mio cugino, eh?» strabiliò Lavinia.

«Gran bell’uomo!» perorò il senatore.

«Oh sì, ottimo per una notte. Anzi, facciamo mezza.»

«Piacevolissimo conversatore!»

«Un bugiardo nato, vorrai dire.»

«Sa come divertire una donna!»

«E anche come ridurla all’esasperazione con la sua arroganza. Adesso che sono economicamente indipendente, mi spieghi a che mi serve un marito?»

«A tradirlo con me, per esempio. Non vorrai paragonare una banale tresca con il gusto proibito di un adulterio? E comunque uno sposo prestante è sempre utile per presentarsi in coppia alle feste.»

«Che c’entrano i due pargoli?»

«Sposandoti, lo zio se ne assumerebbe parte della responsabilità educativa.»

«La maniera migliore di farli finire anzitempo ai ceppi!» concluse la donna. «Ma io che c’entro, dovrei forse sostituire Sofia, che ha deciso di ritirarsi in solitudine nella casa di suo padre? Pazienza il moccioso, ma il bietolone è un po’ cresciuto, non trovi? Mi guarda con certi occhi...»

«Evitiamo gli incesti, per favore, ho già visto che portano male. Comunque Quinto il giovane, anzi Quinto e basta, dato che ormai è restato il solo, è sempre vissuto tra quattro mura, senza mai mettere il naso fuori dalla sua biblioteca, quindi era ovvio che una femmina garbata, mansueta e dolce come te attirasse la sua segreta attenzione. Ora però sta per entrare nella maggiore età e, libero da un’autorità genitoriale eccessiva, potrà trovarsi una ragazza degna di lui.»

«Più giovane e bella di me, intendi dire?» sibilò lei piccata. È davvero gelosa, constatò Aurelio. Dunque non si trattava soltanto di un’impressione, anche la feroce Lavinia aveva le sue debolezze femminili...

«Intendevo più adatta ai suoi denti inesperti, tanto ansiosi di mordere la vita. Tu invece sei un osso duro: spero proprio che il povero Lucio non ne esca stritolato.»

«Mentre tu ritieni di cavartela, vero?» ringhiò Lavinia.

«A festeggiare le tue nozze come meritano? Modestamente, sì» affermò il patrizio immobilizzandola tra le braccia mentre lei cercava di divincolarsi. Lavinia lottò come una tigre, ma soltanto per principio, dato che non aveva alcuna intenzione di vincere la schermaglia.

«Lo ientaculum, domine!» bussò in quel momento alla porta Castore con in mano il piatto della colazione zeppo di offelle di maiale.

Dalla stanza provenne un diluvio di insulti fioriti, pronunciati da una voce femminile tanto stentorea da far tremare il vassoio, che spiegavano per filo e per segno dove e con chi il servo sarebbe dovuto andare, e a fare che cosa.

Il segretario pensò bene di ritirarsi discretamente, ingoiando con voracità la più grossa tra le offelle di Ortensio.

Casa dei Babri sul colle Palatino

«Mio padre voleva uccidermi, vero?» chiese Furillo a mezza voce.

Aurelio faticò a sostenere il suo sguardo. Non poteva dire la verità: come sarebbe riuscito a nutrire stima di se stesso un figlio respinto dallo stesso uomo che l’aveva messo al mondo? Poiché infatti era impossibile che, nel fragore della cascata, il bambino avesse udito le frasi terribili pronunciate dal padre, era bene che continuasse a ignorarle. Ciò che cercava, rivolgendogli quella domanda agghiacciante, non era certo una conferma: voleva essere smentito, ne aveva un bisogno disperato.

«Non credo proprio» disse quindi il patrizio, mentendo spudoratamente.

«Gli avevo confidato di averlo visto in cantina» insistette il ragazzino.

«Sicuramente non intendeva farti del male» dichiarò Aurelio facendo appello a tutte le sue doti di abile bugiardo. Altro però era mettere fuori strada mariti e fidanzati sospettosi, altro convincere un ragazzino troppo duro, troppo sveglio e troppo guardingo. «È stato accecato dal panico, per cui, indubbiamente senza rendersene conto, ti ha fatto correre un grosso pericolo. Se non fosse stato per tuo fratello e per tuo zio...»

«Buono quello, lo credevo un grand’uomo, invece mi ha raccontato un mucchio di panzane.»

«Desiderava apparire ai tuoi occhi come un eroe. E alla fine lo è diventato davvero» gli ricordò il senatore.

«È soltanto uno stramaledetto contaballe!» disse sprezzante Furillo, pronto a giudicare e a condannare con la rigida severità dei giovani.

«Be’, magari ha ecceduto un po’ nell’ingigantire le sue imprese, comunque non è nemmeno un vigliacco: ha rischiato la vita per tirarti fuori dalla cascata. E anche tuo fratello ci ha messo molto del suo: disobbedire a un padre a cui era sempre stato sottomesso deve essergli costato molto e altrettanto vincere le sue enormi paure.»

«Però a sottrarmi alla morte sei stato tu. Se non fossi saltato, adesso me ne starei in fondo all’abisso.»

«Ti ho restituito vita per vita: tu l’hai salvata a me, io a te. Ora siamo pari. Non mi andava di avere grossi debiti» minimizzò il senatore, per nulla stupito che il ragazzino non chiedesse della madre. Tradito, deluso, negletto. Solo, come era sempre stato. Ce l’avrebbe fatta?

«Tuo fratello partirà alla volta della Grecia per completare la sua educazione. Vorresti andarci anche tu?» chiese.

«A me non importa molto» alzò le spalle Furillo.

«Sarei più tranquillo, se lo accompagnassi.»

«Non ho soldi, l’erede è lui, è l’unico nominato nel testamento di mio padre, esattamente come è accaduto allo zio Lucio con quello della nonna. In effetti Quinto se lo merita, anche se è un po’ mollaccione... però mica poi tanto, a dire il vero: si è comportato bene sulla cengia, mi ha tirato su correndo un bel pericolo. Credo che tutto sommato a me un po’ ci tenga.»

«Moltissimo!» esclamò con convinzione il patrizio, felice finalmente di non dover mentire.

«È anche bravo davvero. Un giorno diventerà senatore come te.»

«Forse non soltanto lui» disse Aurelio e davanti all’espressione stupita del bambinetto proseguì: «Io posso provvedere a parecchi dei tuoi bisogni e anche alla tua educazione, cominciando dal viaggio».

«Sei così ricco?» chiese Furillo.

«Disgustosamente ricco» confessò il patrizio.

«Perché mai lo faresti?» chiese ancora l’altro con palese diffidenza. Nessuno dava niente per niente, aveva precocemente imparato. Persino l’affetto, persino la stima, persino l’amore avevano un costo, talvolta non in favori o in denaro, ma comunque in sollecitudine, gratitudine, dedizione. Che cosa voleva dunque il senatore? Che fosse come quell’altro? Strano, non lo faceva il tipo... in questo caso sarebbe stato disposto a sganciare ben di più di due tortore. Ma lui non aveva nessuna intenzione di vendersi, forse un tempo ci avrebbe pensato, ora non più.

«Perché parli un greco da schifo e oggi chiunque voglia prendere posto tra i grandi di Roma deve conoscerlo alla perfezione» spiegò invece il patrizio.

«Tutto qui? Dov’è la fregatura?» chiese Furillo sospettoso.

«Ti toccherà studiare. Tuttavia ci sono anche ottime palestre nell’Ellade, in cui esercitarsi nella lotta e nell’uso delle armi. A proposito... ho una cosa da darti: il talismano di opale con la sirena che Fastia portava nascosto nella crocchia di capelli. È tutto ciò che rimane del tesoro di Velthur l’Avvoltoio, un uomo avido e violento, ma tuttavia ardito e coraggioso. Ti spetta di diritto, nel bene e nel male. Tocca a te decidere quale parte della sua eredità sei disposto ad accettare» disse Aurelio, tendendogli l’amuleto.

Negli occhi di Furillo passò un guizzo veloce, un lampo di luce, quasi uno slancio del cuore.

Ce la farà, pensò il patrizio, guardandosi bene dal sorridere.

Casa di Aurelio sul colle Viminale

Il pretore entrò nella domus del Viminale con l’impeto di una valanga.

«Finalmente l’ho incastrato! Dispongo di due testimoni noti e stimati, Porfirio e Calcedonio, pronti a deporre di averlo visto nel padiglione degli Orti Tauriani dal quale poco prima era uscita mia moglie. Dov’è quel figlio di cagna, quell’aborto di lupa da bordello, quell’abominevole frutto di malafemmina appestata, quel lurido, quel sozzo, quel lercio, quel sudicio, quell’immondo, quel turpe, quell’abietto, quell’ignobile, quell’infame, quel pidocchio, quella zecca, quel pezzo di escremento di mulo pulcioso?»

«Se alludi al mio nobile signore e padrone, il senatore consolare Publio Aurelio Stazio, come vedi non è in casa. Mi ha lasciato tuttavia l’incarico di accudire queste bestiole. Forse tu puoi aiutarmi, hai fama di esperto nell’allevamento delle tortore. Sto seguendo a puntino proprio alcune istruzioni scritte di tuo pugno» rispose serafico Castore, mentre imboccava premurosamente i volatili.

Lo scimmione guardò la gabbia e osservò con aria dubbiosa il codicillo che credeva di aver perduto per strada quando aveva comprato la coppia di pennuti nella speranza di compiacere Furillo. Sulla fronte gli si disegnarono due solchi profondi, indizio dell’avvio di un’intensa attività cerebrale. Castore intanto improvvisava lì per lì alcuni motivetti orecchiabili, per favorire la difficile riflessione del pretore.

«Vola, colomba bianca vola...» intonò ispirato, mentre il viso di Muzio, teso nello sforzo di comprensione, si faceva bianco come le nevi del Soratte.

«Se alla finestra viene una tortorella, trattala con amore che è la tua bella...» continuò Castore attaccando il secondo canto con teatrale gestualità. Il pretore cominciò a riflettere sui volatili regalati allo scontroso ragazzino sperando di averne in cambio qualche carezza e il colore delle guance gli volse dal niveo candore dei pruni invernali all’intenso rosa degli oleandri estivi.

«Cuccurucucù, cuccurucucù, cuccurucucù...» terminò infine con passione il segretario, lanciandosi in un terzo inno non appena Muzio, inteso infine il potenziale ricattatorio del codicillo vergato di sua mano, si tinse della sfumatura brillante delle felci che verdeggiano ai margini dei freschi fontanili montani.

«Di che cosa volevi parlare al padrone? Forse posso esserti utile io.»

Altre rughe, altro faticoso ragionamento: una tresca con una donna sposata poteva costare l’esilio a vita e il sequestro di metà del patrimonio, esattamente come il tentativo di corruzione di un fanciullo nato libero. In questo ultimo caso, però, i parenti del giovinetto molestato cercavano spesso di sventare il piano criminoso recidendo al reo gli organi necessari per consumarlo.

«È stato il piccolo Furillo Babrio ad affidare al senatore le tortore di cui tu gli hai fatto dono. Un gesto davvero gentile, e del tutto disinteressato! Cuccurucucù, cuccurucucù, cuccurucucù...» fischiettò Castore, osservando nel suo interlocutore i primi segni di cedimento, ovvero sudore copioso sotto le ascelle, sguardo smarrito, mani che correvano loro malgrado verso l’inguine, quasi a difenderlo da oscure minacce. «Lo ricordi, vero? E di certo conoscerai anche suo zio Lucio: un tipo grintoso, che si è fatto le ossa su al Nord, dove i barbari preferivano darsi la morte piuttosto che cadere in mano sua. È specialista nel manovrare la sica, un pugnale affilato e tagliente... Ma che mi dicevi dell’Esquilino? Oh, a proposito! Prevedendo la tua visita, il padrone si è raccomandato di invitarti alla festa per l’inaugurazione dell’ospedale, assieme a Porfirio, a Calcedonio e naturalmente alla tua affascinante consorte.»

Il pretore, che per quanto tardo era riuscito infine a fare i suoi conti, bofonchiò qualcosa di indistinto e, dardeggiando un lungo sguardo di odio – verso Castore, verso il senatore assente, verso la città che gli aveva dato i natali e infine verso l’universo stesso che permetteva a un lurido figuro come Publio Aurelio di vivere e prosperare –, si affrettò all’uscita, seguito dall’ultimo festoso cuccurucucù del segretario.