Foresta umbra, proprietà dei Velthinii Fasti
nei dintorni di Interamna

Chi si fosse chiesto che cosa spingeva un senatore romano ad aggirarsi, a cavallo e senza scorta, nei boschi sull’altopiano prospicente la valle della Nera, avrebbe dovuto mettere in conto alcune peculiarità di Publio Aurelio Stazio, prima fra tutte la sua attitudine a reperire informazioni in cambio di denaro sonante, e in secondo luogo il suo caparbio amor proprio.

Appresa infatti da schiavi, vicini e pettegoli vari, foraggiati con cospicui compensi, la vastità delle voci riportate dal segretario e da Lucio sull’esistenza di un ingente malloppo appartenuto al famigerato Avvoltoio – chi lo voleva bottino di guerra, chi ricavato da ruberie, chi estorto a poveracci indebitati dagli interessi da strozzo, chi ricavato da un filone segreto nelle viscere della terra –, l’impulso immediato di Aurelio era stato quello di recarsi di persona a dare un’occhiata nei fondi aviti della famiglia, il luogo più probabile nel quale Velthur Velthinio avrebbe potuto nascondere il preteso tesoro, possibile movente del delitto. Un progetto che, considerato alla luce del senno e della ragionevolezza, aveva tutti i crismi se non di una pazzia, almeno di una grossa sciocchezza, si era ripetuto il patrizio, censurandosi da solo: effettivamente, sarebbe stato più facile – come dicevano i greci – cercare una pulce in un pagliaio.

Ma ecco l’orgoglio era riaffiorato prepotente, fondendosi in un solido amalgama coi bei ricordi di gioventù, quando il vivissimo desiderio di percorrere tutto il mondo conosciuto lo aveva spinto a partire per le contrade più lontane e selvagge. “Ma come?” si era detto. “Perché mai io, che osavo un tempo penetrare nel territorio nemico della Partia, calcare le sabbie dei deserti e arrampicarmi su scoscesi picchi montani, esito ora a muovere verso la regione umbra, pacifica, comoda e vicinissima, praticamente a due passi dalla capitale?” A che cosa era dovuta quella sua nuova accidia da pantofolaio, avvezzo ormai a calzare morbide solae da casa, anziché calcei da pellegrino o caligae da soldato, o crepidae da viandante? Dov’erano finiti il suo spirito di avventura, la sua insaziabile curiosità, la sua brama di imprevisti? Era forse l’avanzare dell’età a renderlo così pigro?, si era chiesto, non senza una certa apprensione. Così, sordo ai consigli di Castore e soprattutto a quelli del buon senso, aveva chiesto un animale e una sella, per mettersi in viaggio da solo.

Ora, lasciato il cavallo in una radura ombrosa all’interno di quelle che supponeva essere le antiche proprietà dei Velthinii, procedeva a piedi, incerto sulla direzione verso cui volgere, ma comunque pago di respirare a pieni polmoni l’afrore umido del bosco, denso di mille fragranze inebrianti.

I fusti lisci degli alberi fitti, la morbida cedevolezza del suolo in cui affondavano i calzari, le chiazze cupe delle felci, lo stormire delle fronde, gli rammentarono una foresta tanto più cupa, su a Settentrione, il giorno in cui per la prima volta aveva ucciso un uomo. Il barbaro gli si era parato davanti con una lunga lancia, emettendo il suo gutturale grido di guerra. E lui, giovane tribuno che recava gli ordini del Senato, quella volta non aveva al suo fianco la legione, un corpo compatto dalla disciplina ferrea, uso a muoversi come un tutto unico sotto l’insegna dell’Urbe mentre una sola voce urlava nella testa e nel cuore di ogni soldato: “Non sei solo, non lo sarai mai: perché tu sei Roma!”.

Quella volta lui era solo davvero. «Vattene!» aveva detto al germano, come se l’altro riuscisse a capirlo, come se ciò che era inevitabile potesse essere eluso, o almeno demandato.

Ma l’altro – il selvaggio, il diverso, il nemico – voleva la sua vita. Aveva attaccato con l’impeto di una fiera, accecato dalla brama di offrire una vittima ai suoi cupi Dei guerrieri, o di raggiungerli nei loro eterni campi di battaglia celesti. Ucciderlo con un unico, precisissimo colpo di gladio era stato facile. Il sangue nero aveva imbevuto la terra, là dove cresceva una pianticella dalle foglie pelose e maculate. Per uno sciocco impulso, Aurelio l’aveva raccolta, attento a conservarle attorno il suo pane di melma fecondata dalla morte. Ma non era riuscito a riportarla a casa, a perenne monito di quell’attimo fatale della sua esistenza: era seccata nel corso del viaggio e dopo c’erano stati altri scontri, altri duelli, altre sfide, altre guerre, altre uccisioni. Troppe per ricordarle tutte.

Trascurando la via principale, più larga ma anche più esposta agli sguardi indiscreti, Aurelio percorse di buon passo un quarto di miglio lungo il viottolo circondato da un folto querceto – mulattiera piuttosto che sentiero – che ormai nessuno percorreva, salvo qualche cinghiale, la cui presenza era intuibile dalla corteccia divelta dei tronchi su cui i possenti suini sdrusciavano il mantello.

Distante, ma presente in sottofondo, si sentiva il boato sordo del salto d’acqua creato quasi duecento anni prima dal console romano Manio Curio Dentato attraverso una straordinaria opera di ingegneria, deviando il corso del Velino e facendolo precipitare in un’immensa cateratta artificiale nel sottostante Nera, affluente del Tevere. Come spesso accade, tuttavia, la brillante risoluzione di un problema ne aveva creato uno diverso, ovvero l’impaludamento non più a monte, ma a valle della cascata. Le due città coinvolte nella bonifica, Reate e Interamna, avevano infatti iniziato un interminabile contenzioso legale, coinvolgendovi persino Cicerone. A dire il vero Aurelio non ricordava bene come fosse finita la disputa, né si sarebbe meravigliato – messi in conto i tempi lunghissimi della giustizia, l’inesauribile ingordigia degli avvocati e l’altissimo tasso di litigiosità dei municipi di provincia – se avesse appreso che era ancora in corso. Tuttavia andava ugualmente fiero dell’enorme cascata, l’unica che poteva paragonarsi al grande salto del Reno nel paese degli elvezi, da lui raggiunto partendo da Augusta Raurica dopo un faticosissimo viaggio. Mentre però le acque del fiume nordico sprofondavano da millenni per volere del Fato – o del caso o della natura o degli Dei –, a creare l’incredibile meraviglia italica erano stati uomini come lui, e come lui romani, pensava ascoltando il possente ruggito che risuonava in lontananza.

Il rombo dei flutti però non era certo l’unico rumore, né il più inquietante, che giungeva alle sue orecchie: dal bosco infatti provenivano vari grugniti, intervallati da un fischio debole ma insistente, che il patrizio sperò dovuto a un istrice suscettibile, piuttosto che a una serpe velenosa.

Nondimeno il grufolio suonava pochissimo convincente, quasi la goffa imitazione del verso animale prodotto da un’ugola umana. Aurelio aguzzò l’udito: no, non era un falso allarme, qualcuno tentava davvero di intavolare una conversazione con i voraci suini per determinare il luogo preciso dove pasturavano, vuoi per raggiungerli, se si trattava di un cacciatore, vuoi per evitarli, se si trattava di qualcun altro. E siccome nessun cacciatore solitario con un minimo di senno si sarebbe mai inoltrato solo soletto in una foresta per dilettarsi nella cattura di un cinghiale – bestia temibile, infida e decisamente pericolosa –, era ragionevole presumere di trovarsi di fronte al secondo caso.

Eppure tutto il terreno attorno era appartenuto ai Velthinii fin dai tempi del console Dentato, come testimoniavano gli atti di proprietà che il senatore si era fatto scrupolo di controllare per interposta persona, mediante un paio di nummularii residenti a Interamna e alcuni dei selezionatissimi piccioni viaggiatori che facevano la spola tra l’Urbe e i suoi numerosi uffici in provincia.

Chi poteva essere, allora? Un eventuale porcaro, regolarmente autorizzato a percorrere il sentiero, sarebbe stato riconoscibile dal trapestio degli zoccoli e dal mugolare soddisfatto dei suoi maiali alle prese con il ricco bottino di ghiande del sottobosco, così come un taglialegna avrebbe rivelato la sua presenza mediante il baccano prodotto dall’ascia o dalla sega. Dunque non erano proprio minime le probabilità che tra le frasche ci fosse un clandestino diretto alla sua stessa meta e col suo stesso scopo, alla ricerca cioè dei vecchi segreti dell’Avvoltoio. E doveva essere anche molto vicino, si disse Aurelio rintanandosi per spiare l’intruso dietro al massiccio affioramento roccioso che rompeva subitaneamente il rigoglio della vegetazione, simile alla sommità di un grosso cranio pelato circondato da una folta corona di boccoli fluenti.

Silenziosamente il patrizio cominciò ad avanzare verso il punto al di là del macigno da cui aveva udito provenire il richiamo sospetto.

Sul lato opposto della roccia, un’altra forma umana si era acquattata con grande rapidità non appena udito il tipico scricchiolare delle foglie secche calpestate da un paio di calzari di cuoio. La miniera non era lontana, ma ecco un maledetto impiccione che rischiava di interferire proprio in vista del traguardo. Chi era il fastidioso ficcanaso e come avrebbe potuto seminarlo?, si chiese il senatore mentre retrocedeva attorno all’imponente ammasso pietroso con tutti i sensi all’erta.

Ora, non occorre aver sudato per anni sui testi di geometria per sapere che il perimetro di un cerchio è un cammino ricorsivo, ed è possibile percorrerlo all’infinito, tornando sempre al punto di partenza. È appunto ciò che aveva intenzione di fare Aurelio, circumnavigando cautamente il masso per scoprire chi si celasse dall’altra parte.

Perlustrò quindi la metà del circolo, senza peraltro trovarvi nessuno: la stessa idea, infatti, aveva attraversato anche la mente pronta del secondo frequentatore del bosco, per cui i due si erano ritrovati a scambiare le reciproche posizioni, senza riuscire affatto a incontrarsi.

Fu allora che, per una di quelle bizzarre coincidenze che accadono più spesso di quanto si pensi, decisero entrambi e nello stesso momento di proseguire a ritroso, invertendo pure il senso di marcia, nella speranza di tenere meglio d’occhio l’eventuale avversario. E poiché ambedue si muovevano silenziosi come felini e ambedue procedevano all’indietro, il cozzo divenne inevitabile.

L’impatto fu duro ma non devastante, in quanto le parti che ebbero a collidere erano le più morbide dell’intero corpo umano: agili e compatti i glutei del senatore, soffici ma sode le natiche femminili con cui urtarono nell’ineluttabile scontro.

«Chi va là?» chiesero i due a una sola voce, prima che la donna lasciasse esplodere tutto il suo disappunto.

«Di nuovo tu!» esclamò Lavinia inviperita, agitando il piccolo pugium che aveva brandito a sua difesa. «Che ci fai qui, sciaguratissimo intrigante?»

«Che ci fai tu, piuttosto?» la rimbeccò il senatore.

«Io sono sulle terre di mio nonno, Velthur l’Avvoltoio, della gens Fastia Velthinia» precisò lei con fare altezzoso.

«Terre che non appartengono affatto a te, ma a tuo cugino Quinto!»

«Su queste colline io ci sono cresciuta!» ribadì lei con una smorfia sprezzante.

«Già! Dimenticavo che ti sei aggirata abbastanza tempo da queste parti da ricordare le fantasiose leggende che circolano in giro... non ti basta quanto ti ha concesso Fastia nel testamento? Eppure sei stata trattata meglio di Lucio, che pure era il figlio primogenito del suo unico rampollo maschio. Forse però pretendevi di più, forse ambivi a mettere le mani su un mucchio di oro e di gemme!»

«Dunque sai del tesoro, mio astutissimo ficcanaso. Be’, quella roba è mia, sono io l’unica erede diretta dell’Avvoltoio!» mise in chiaro la ragazza.

«Nata dalla figlia che lui diseredò» ribatté seccamente il patrizio.

«E tuttavia sua parente di sangue, mentre i miei cugini non sono che nipoti di una sorella!»

«Istanza legale alquanto dubbia, quella che sostieni. Immagino comunque che tu non abbia alcuna intenzione di affrontare una regolare causa in tribunale, ma solo quella di appropriarti furtivamente delle ricchezze di Velthur, sempre che esistano.»

«Ora non saprei, ma sospetto che un tempo siano esistite. Ero appena arrivata a Roma quando gli schiavi di casa cominciarono a parlare di oggetti antichi e preziosi che comparivano da un momento all’altro nella casa, per poi sparire con rapidità alquanto sospetta. E poiché nessun altro personaggio nella storia della famiglia, se non mio nonno, si era mostrato abbastanza audace e intraprendente da venire associato a un misterioso tesoro, era ovvio che lo attribuissero a lui.»

«La versione ufficiale vuole che sia stato mandato a riscuotere il riscatto di alcuni ostaggi presso i barbari, dai quali venne ucciso a tradimento» obiettò il patrizio.

«E che significa riscatto se non denaro, mio scaltro senatore? Soldi, oro, gemme, gioielli, roba di valore! I perfidi barbari rifiutarono lo scambio e uccisero l’eroico mediatore. Così almeno si dice. Ma se invece avessero accettato lo scambio?»

La mente fervida del senatore fu lesta ad allacciare i nodi, congiungendo le voci confuse dei servi su ingenti risorse nascoste nelle viscere della terra con le vicende militari ben conosciute – e non sempre limpide – del fratello di Fastia, il cui corpo non era mai stato trovato.

«Se Velthur l’Avvoltoio invece di far ritorno alla guarnigione si fosse intascato il bottino per poi scomparire nel nulla, intendi?» chiese Aurelio.

«Appunto!» confermò la ragazza stringendo le labbra volitive.

«Avrebbe dunque inscenato una finta dipartita, simile a quella di tuo cugino, per godersi in pace il maltolto? Due casi di morte simulata nella stessa famiglia, a così breve distanza l’uno dall’altro, mi sembrano davvero eccessivi» osservò il patrizio.

«Io stessa stento a credervi, anche perché mio nonno nutriva ambizioni molto diverse da quelle di Lucio» scosse la testa Lavinia, alla quale l’ipotesi su cui tanto aveva astrologato appariva ora improvvisamente in tutta la sua fiabesca improbabilità.

«Voleva gloria e potere, non avventure stravaganti o esotiche peripezie, e non c’è gloria o potere lontano da Roma! L’Avvoltoio progettava senza dubbio di tornare, non di sparire nel nulla» concluse il senatore.

Per un attimo i due si fissarono, con reciproca intesa. Ma l’incanto durò poco.

«Bene, adesso che hai portato a termine le tue brillanti deduzioni, che ne diresti di tornartene a casa, mio prode padre coscritto?» propose Lavinia.

«Visto che sono arrivato fin qui, intendo guardarmi un po’ attorno. E avrei l’insano desiderio di farlo da solo!» dichiarò il patrizio.

«Gli Dei nella loro sublime indifferenza raramente esaudiscono le aspirazioni dei mortali, mio baldo Publio. Ci sono iugeri e iugeri di bosco qui attorno, e ogni forra può nascondere un tesoro sepolto: se vuoi metterti a scavare alla sua ricerca, fai pure, ma dubito che ti capiterà di trovare qualcosa.»

«Non mi depisterai tanto facilmente, piccola serpe! Se i documenti di proprietà da me consultati non sbagliano, tuo nonno possedeva una carbonaia proprio da queste parti: perché mai avrebbe dovuto mettere sottosopra una foresta per seppellirvi un oggetto prezioso, a rischio di non ritrovare mai più il punto esatto, quando c’era a disposizione un rifugio ben più protetto?»

«Perché si trattava di una vena a cielo aperto, dismessa da tempo, quindi non sarebbe stata un ricovero molto accorto, mio scaltrissimo segugio» si lasciò scappare Lavinia, pur di avere l’ultima parola. Chiacchiera, chiacchiera, colombella, e mi porterai dove voglio, pensò il patrizio dissimulando la soddisfazione.

«Il carbone di queste parti non è granché, infatti. Ma fra tutto ciò che Fastia ha comprato e venduto in questi ultimi anni, da sola o con l’aiuto di Quinto, soltanto le miniere in Sardinia e questi terreni, con la villa padronale, gli ergastula dei servi e la relativa vecchia cava in disuso non sono mai stati toccati.»

«Tiri a indovinare!» alzò le spalle Lavinia.

«Non più, visto che ti ho trovata qui, quasi con le mani nel sacco. Il che mi fa pensare che tu abbia ascoltato qualcosa di più circa il covo dell’Avvoltoio. Tuttavia anche se adesso ti riuscisse di arrivarci, non ti sarebbe facile accedervi, né trasportare da sola l’eventuale malloppo.»

«Bah, voi maschi credete sempre di essere indispensabili» storse la bocca Lavinia.

«In effetti in talune circostanze, come ad esempio la riproduzione, abbiamo una certa utilità» ribatté Aurelio piccato.

«Vado errata o stai proponendomi un’alleanza?» corrugò la fronte la ragazza.

«Soltanto temporanea. Uniamo le nostre reciproche competenze per scoprire ciò che accadde qui tanti anni or sono, poi ognuno per la propria strada.»

Lei lo guardò di sottecchi: doveva lasciarsi abbindolare da quell’arrogante dall’aspetto fin troppo piacevole? I capelli neri e corti, assai curati senza nulla concedere alla moda, il naso romanissimo, le mani forti e tuttavia eleganti, le braccia muscolose di chi si è esercitato all’aria aperta e non soltanto in palestra... braccia che si potevano facilmente immaginare nell’atto di brandire la spada, ma anche attorniare il corpo cedevole di una donna. E non era scritto da nessuna parte che quella donna dovesse essere quell’ipocrita sciacquetta piena di sé che aveva sposato suo cugino. “Che fai, Lavinia, non ci starai ricascando?” si domandò turbata, mentre il patrizio proseguiva in tono accattivante.

«Io cerco indizi, non oro. Se sotto tutte le voci che si tramandano ci fosse del vero e noi finissimo per trovare qualcosa di prezioso, fingerei di non aver visto nulla: ti arrangeresti tu a fare i conti con i tuoi parenti! Allora, ci stai?»

Non poteva farcela da sola o chiedere l’aiuto dei cugini, rifletté Lavinia, e nemmeno ricorrere a qualche schiavo chiacchierone. Per quanto poco si fidasse, il senatore era l’unica possibilità disponibile, e se l’era trovato proprio lì, già in loco, quindi tanto valeva approfittarne, tanto più che non se ne sarebbe mai andato spontaneamente: aveva l’aria del cane da fiuto che, una volta trovata la pista, non la molla più fino all’ultimo respiro.

«Va bene, si va!» cedette di malavoglia, e i due proseguirono il cammino affiancati, tenendosi reciprocamente d’occhio con aria circospetta.

«Ecco la carbonaia. Sembra abbandonata!» disse Lavinia e per procedere sul terreno assai disagevole si passò la parte posteriore della tunica in mezzo alle gambe, allacciandosi le falde in cintura.

Aurelio dette un’occhiata in tralice alle gambe di tutto rispetto.

«Che stai guardando?» chiese seccata la ragazza.

«La tua cavigliera e i sandali borchiati» rispose il patrizio con aria innocente. «Ne calzavi un modello simile anche sotto la tunica color zafferano, l’ultima volta che ti ho visto. Ti piace molto il bronzo?»

«Gli accessori di bronzo, rame e oricalco sono bellissimi, soprattutto se non ci si può permettere quelli d’argento o d’oro» ribatté lei acida, rivolgendo ostentatamente lo sguardo all’anello curiale sormontato dal sigillo di rubino che il senatore portava all’indice.

Seguì un lungo silenzio, mentre i due procedevano a passo spedito verso la vecchia carbonaia.

«Pare proprio che abbiamo fatto tutta questa strada per niente: qui da un pezzo non viene più nessuno» fece lei con palese disappunto, non appena giunsero alla meta.

Aurelio colse il rapido movimento dei suoi occhi e guardò attentamente nella stessa direzione, verso il costone roccioso che limitava la radura. Poco dopo Lavinia riabbassava lo sguardo, delusa; ma il patrizio non era tipo da lasciarsi dare per vinto.

«In quel dirupo laggiù, dove la vegetazione pare più bassa, potrebbe esserci un passaggio.»

«Per quanto abbia sempre tenuto le orecchie ben aperte, non mi risulta che le cave di Fastia si estendessero anche nel cuore della roccia» scosse la testa Lavinia.

«In teoria tutto ciò che giace nel sottosuolo o nelle viscere delle montagne appartiene a Roma e occorrono speciali concessioni per ottenerne lo sfruttamento. In premio per i suoi successi militari, Velthur ottenne il permesso di mettere a frutto le miniere della Sardinia, ma suppongo che non abbia mai chiesto una licenza per questa modesta struttura. Dunque, se qualcuno avesse scoperto un filone di qualche valore all’interno del colle e si fosse messo a estrarre segretamente, a dispetto della lex metallica dicta, non sarebbe andato in giro a proclamarlo ai quattro venti!»

«È assai improbabile. Il pessimo carbone di qui non vale tanta fatica.»

«Oppure... ma certo, esiste un’altra possibilità, molto meno remota.»

«Che cosa credi di aver capito, mio perspicace indagatore?»

«Grotta non significa necessariamente miniera. Io ho percorso in lungo e in largo la terra degli etruschi, non soltanto le città e i borghi, ma anche le colline, le gole, i burroni, e ricordo opere impressionanti, create scavando con relativa facilità il tufo: vie cave, spelonche da usare come magazzini o riparo per le greggi, antri votivi, rifugi, ma soprattutto tombe, sepolcri di difficile accesso, che si aprono su forre e precipizi... Ora, anche qui c’è del tufo, e questa regione è abitata da quando l’uomo ha memoria.»

«Ebbene?» chiese la ragazza perplessa.

«Non appena giunti qui, i tuoi antenati, tanto fieri di tener deste le tradizioni avite, potrebbe aver fatto scavare una grotta inaccessibile su uno strapiombo per adibirla a sepoltura, oppure aver usufruito di una cripta preesistente allo stesso scopo. Tutta la storia ha avuto inizio in una tomba, e forse in una tomba deve finire.»

«Quale storia?» impallidì Lavinia.

«Quella di una donna uccisa e inchiodata in un sepolcro appartenente alla vostra famiglia, forse perché la credevano un’empusa, uno di quei demoni femminili che giacciono con i giovani più belli e vigorosi per assorbirne lo sperma e il sangue, facendoli deperire a vista d’occhio finché non si spengono come candele consumate.»

«Non credere di riuscire a spaventarmi con i tuoi stupidi dettagli macabri» sbottò lei, ma intanto le tornavano in mente i racconti delle vecchie schiave e la proibizione assoluta per i bambini di avvicinarsi alla Pietra della Sirena, un luogo maledetto, dove le larve dei defunti invidiosi si destavano dal sonno per tormentare i vivi e trascinarli con loro nelle tenebre. Erano leggende, soltanto leggende, buone per gli sprovveduti, si ripeté, avvertendo nondimeno un brivido correrle lungo la schiena. Che Giove lo strafulminasse: quell’insopportabile impiccione era riuscito davvero a metterle paura.

«Ci sono un mucchio di favole simili anche qui, morti che camminano, spiriti nefasti, pietre della Sirena e roba simile» ripeté a voce alta, per scacciare l’inquietudine da cui si era sentita invadere.

«Hai detto Pietra della Sirena? Guarda!» esclamò Aurelio additando l’altura rocciosa che avevano osservato poco prima, senza scorgervi nulla di rilevante. La rupe superiore del rilievo, nuda in alto, si arrotondava in due ammassi ricurvi, in cui con parecchia fantasia sarebbe stato possibile scorgere il profilo di un seno e una testa muliebre, con bocca e naso appena abbozzati. I cespugli che ruscellavano dalla cima formavano una fitta chioma verde, simile a un intreccio di capelli sciolti. Sotto, l’affioramento roccioso si ripiegava su se stesso, in una serie di volute che si aggrovigliavano in una sorta di lunga serpentina.

Aurelio sorrise, felice che per una volta si fosse rivelata di qualche utilità la sua viva propensione a vedere donne dappertutto, nelle nubi, nelle rocce, persino nelle foreste.

«Dove sarebbe questa pretesa Sirena? Non ci sono le ali» protestava intanto Lavinia.

«Ci sono vari tipi di sirene; il mostro che chiamiamo in questo modo di solito è raffigurato come un uccello col volto femminile, però qualche volta la parte animale consiste nella coda di un serpente, o anche di un pesce. Ora, immagina quella rupe come doveva apparire decenni or sono, quando gli alberi erano molto più bassi, circa un terzo di quello che appaiono adesso, e l’erosione del vento non aveva ancora limato il picco in cui sembra si delinei un naso...»

«Hai ragione, la vedo, la vedo... metà donna e metà biscione» esultò Lavinia con tale entusiasmo che per un istante fu tentata di mettere le braccia al collo al suo sagace compagno d’avventura. Meglio di no, si ritrasse subito: se l’avesse fraintesa, difficilmente si sarebbe accontentato solo di un abbraccio fraterno... «Mio nonno l’Avvoltoio si fregiava proprio di un simbolo simile: è inciso anche sulle armi deposte nel suo cenotafio. Un monte che assomiglia a un mostro mitologico: quale miglior nascondiglio per un tesoro?»

«Ci siamo, allora! Dev’esserci una grotta, lassù. Sono convinto che tu ne conosca benissimo l’esistenza, per averne sentito parlare da piccola, quando origliavi i discorsi degli adulti.»

Il lampo ostile che attraversò lo sguardo della ragazza dette al senatore la certezza di essere sulla strada giusta.

«E se così fosse? Se sapessi dov’è, starei forse a portarmi appresso un accompagnatore?»

«Probabilmente hai soltanto una vaga idea dell’ubicazione: sta a noi scoprirla.»

«Vuoi dire che dobbiamo arrampicarci sul quel massiccio e ispezionare a una a una le varie fenditure che vi si aprono?» gemette la ragazza.

«Piano, piano, frena il tuo incontenibile zelo, mia giovane amica. Prima di esporci, proveremo a capire stando qui dove è probabile che sia celata la tana dell’Avvoltoio. Scarteremo subito gli anfratti occlusi da alberi molto vetusti e terremo invece in considerazione le cesure il cui accesso è ostruito da cespugli cresciuti di recente, oppure addirittura camuffato nell’intento di renderlo invisibile. Se tuo nonno aveva attrezzato come rifugio un antico sepolcro, il luogo potrebbe ancora essere riconoscibile: non si compie un’operazione del genere senza lasciare delle tracce.»

«Dopo vent’anni? Ma tu sei matto!»

«Be’, senza dubbio è quella che gli investigatori chiamerebbero una pista leggermente fredda» ammise il senatore. «Ma evitiamo di essere troppo pessimisti: certe cose, come ad esempio la pianta di un edificio o la nostra Pietra della Sirena, potrebbero essere irriconoscibili da vicino, ma divenire invece identificabili da lontano, cioè da un punto atto a coglierne i vari aspetti in modo globale. Dunque basterà che ci mettiamo a esaminare il costone con la massima cura, cercando di rilevare le eventuali eccentricità, per ridurre al minimo il sopralluogo.»

«Non basterà affatto, ci vorrebbe anche una fortuna maledetta!» obiettò la ragazza.

«Fortuna volubilis errat, come diceva Ovidio» citò il senatore. «La Fortuna erra volubile. Ed è femmina, aggiungo io, quindi apprezza gli inseguitori risoluti, che ne vanno tenacemente alla caccia convinti di meritarsela appieno.»

«Publio caro, sei intollerabilmente presuntuoso. Ti è già stato fatto notare?»

«Molte volte, da un mucchio di gente, in grandissima parte di sesso femminile» ammise sbrigativo il patrizio. «E ora, bando alle ripicche, dedichiamoci alle cose serie. Osserva attentamente il crinale alla tua dritta: vedi come digrada con una regolarità quasi eccessiva? Di rado la natura è tanto uniforme: il terreno è così perfettamente allineato con il profilo della collina, che nessuno noterebbe nulla di strano, se si trovasse a pochi passi. Ma noi, che lo guardiamo a debita distanza, da qui sotto siamo in grado di dedurre come il declivio sia stato colmato per renderlo pari al versante dell’altura e occultare così alla vista degli importuni un eventuale pertugio nascosto dalle frasche.»

«Ne sei sicuro?» chiese dubbiosa la ragazza.

«Assolutamente no. Vieni, cominciamo a salire» la esortò il patrizio, sciroppando buonumore da tutti i pori.

Era forte, era agile e prudente. Fin troppo prudente, pensava Aurelio precedendo la giovane tra i sassi e gli sterpi dell’erta scoscesa: mai un’esitazione, mai un piede in fallo che gli permettesse di trarla baldanzosamente d’impiccio, facendo la figura del maschio soccorritore...

«Qui non c’è nulla, nemmeno la misera tana di un tasso» brontolò Lavinia mentre arrancava in mezzo ai ginepri pungenti e alle spine dei rovi.

«Aspetta a dirlo! Quella giovane roverella che cresce contorta in mezzo alla sassaia presenta le visibili cicatrici di alcuni rami bassi tranciati di netto, come non accade mai quando cadono da soli o vengono distrutti da un fulmine. Lo sfregio è tanto preciso e pulito da rivelarci che sono stati abbattuti artificialmente.»

«Dobbiamo dunque cercare delle fronde di rovere... lassù, forse» disse la ragazza indicando un punto poco più in alto, dove si accatastavano tronchi, fuscelli, e sterpi secchi.

Qualche istante dopo il senatore scostava il cumulo di detriti della catasta, mettendo in luce una crepa larga abbastanza per farvi passare agevolmente un uomo robusto. A fianco dell’ingresso, un grezzo bassorilievo appena sbozzato mostrava una femmina dai lunghi capelli e i grandi seni, il cui torace finiva nella coda attorcigliata di un serpente.

«Aurelio felix, Aurelio il fortunato!» esclamò lei, e per la prima volta il patrizio la vide ridere. Fu soltanto un attimo, sufficiente però per mutarle completamente le fattezze. Davanti a lui non c’era più la fosca Persefone, sposa di Plutone e regina dell’Oltretomba, ma la stessa fanciulla divina prima che fosse rapita e trascinata nell’Ade dal re degli Inferi: Proserpina la bella, Dea della primavera, al tempo in cui cantava, correva nei prati, coglieva fiori e spighe accanto alla madre Demetra.

Incurante degli sguardi ammirati del senatore, Lavinia stava intanto accorciandosi ulteriormente la tunica per affrontare l’esplorazione della grotta, testa alta, spalle dritte, gambe scattanti, pugium alla cintura, sguardo fiero da amazzone, simulacro vivente della Dea Diana quando batteva i boschi a caccia di cervi, ricoperta solo di un corto chitone.

«Non è roba tua: lustrati pure gli occhi se vuoi, ma giù le mani» mise in chiaro la giovane. Chissà se era vero, come mormoravano le malelingue, che si portava a letto gli schiavi più prestanti, per licenziarli la mattina dopo con un cenno distratto, si chiese Aurelio. O erano soltanto fole di invidiosi, incapaci di perdonare la disinvoltura con cui Lavinia viveva il suo forzato zitellaggio? Certo non era una femmina arrendevole, né condiscendente. La donna è il riposo del guerriero, dicevano alcuni; tuttavia c’erano uomini che di riposarsi non avevano nessuna voglia, uomini a cui il desiderio di quiete difettava grandemente, mentre possedevano in massimo grado una fortissima propensione a mettersi nei guai. E lui era appunto uno di quelli, pensò, mentre seguiva la ragazza verso l’imbocco della tetra spelonca.

Pochi passi dopo l’entrata, la grotta andava contraendosi in un cunicolo breve e agevole, per aprirsi subito dopo in una stanza ricavata dal tufo, la cui stabilità non doveva essere eccelsa, almeno a giudicare dalle travature con cui erano stati puntellati i montanti che correvano lungo tutta la parete destra, laddove quella sinistra si allargava in un anfratto laterale protetto da una sporgenza di solida roccia. Se vi era stato carbone, o ferro, o argento o qualunque altra cosa nelle viscere di quell’aspra collina, ora non ne restava traccia alcuna: le nicchie murali, in parte erose o crollate, non evocavano nessun primitivo insediamento minerario, ma piuttosto un antico sepolcreto abbandonato da un pezzo. Le travi, però, per quanto vecchie, non apparivano secolari, constatò Aurelio, col ricordo che tornava insistentemente a un altro sepolcro, a un’altra tavola di legno, a cui erano state infisse membra umane con lunghi chiodi appuntiti.

«Ferma, vado avanti io, tu potresti inquinare gli indizi» ordinò a Lavinia.

«Indizi, dopo tanti anni? Io dico che sei tutto matto» alzò le spalle la ragazza, ben lieta in cuor suo di avere una scusa per non precederlo in quell’antro a dir poco inquietante.

Il patrizio si mosse cautamente, non senza esaminare prima il pavimento, dal quale il lento sgretolarsi del soffitto aveva cancellato ogni impronta utile. Negli incavi in alto si vedevano frammenti di coccio, probabilmente residui di urne funerarie andate ormai distrutte; quelli più bassi conservavano invece la forma allungata di loculi. Ma se mai corpi d’uomo vi erano stati deposti, le loro ossa si erano da tempo dissolte, mescolandosi ai sassi, ai detriti e alle schegge di roccia.

“Pulvis es et in pulverem reverteris”, sei polvere e polvere ritornerai, gli aveva detto, tanti anni prima, un saggio eremita incontrato accanto a una cascatella, su una montagna cinta dall’arido deserto della Giudea sovrastante il Grande Mare Salato, là dove secondo i miti ebraici il giovane Davide andava a pascolare le sue greggi. Quelle parole allora erano sembrate incongrue alle sue orecchie di giovane audace, rapito dal miracolo dell’acqua che sgorgava dalle sterili rocce rosse e tingeva di macchie verdi i dirupi sotto i quali si apriva uno dei paesaggi più favolosi del mondo. Ora però, in quella cupa tomba abbandonata, gli parevano minacciose e ben più veritiere...

«Bene, hai soddisfatto la tua curiosità? Possiamo cominciare a cercare il tesoro, adesso?»

«Porta ancora un po’ di pazienza» suggerì il patrizio indicando una piccola conca dove il terriccio si infossava nell’impronta di un oggetto pesante e informe: sul fondo, immobile, stava avvoltolata una sagoma sinuosa lunga e sottile, in tutto e per tutto simile a un orbettino.

Davanti a qualunque serpe, per innocua che sia, la reazione degli esseri umani – in particolare della metà femminile – è spesso di ripulsa, e Lavinia non fece eccezione.

«Numi, non sarà velenoso?» esclamò, schizzando indietro.

«Ma no, non si tratta di un serpente, è soltanto un canapo!» rise Aurelio, mentre avvallamento e fune lo aiutavano a ricostruire con l’immaginazione il profilo di un sacco, una scarsella o una bisaccia da viaggio. «La corda, come le travi, dimostrano che qualcuno è stato qui in tempi recenti. Tempi che devono essere calcolati in anni, non certo in secoli!»

«Allora siamo arrivati tardi: qualunque cosa ci fosse, restiamo a becco asciutto!» deplorò la sua compagna.

«Non è del tutto esatto: stiamo capendo molte cose» rettificò il senatore, che si era messo a setacciare con le dita il terriccio sotto la depressione, rinvenendo una fibula di bronzo che poteva aver fatto parte della chiusura di una sacca.

«Che ne è dunque del tesoro di mio nonno?» brontolò la ragazza prima di distogliere lo sguardo deluso dalla nicchia per sollevarlo verso il patrizio, che si interponeva in quel momento tra lei e il fondo oscuro della caverna.

Un attimo dopo gridava a perdifiato, puntando l’indice teso alle spalle del senatore.

Giratosi a sua volta, il patrizio intravide nella penombra alcuni miseri resti su cui l’opera devastatrice della morte si era manifestata in tutto il suo orrore: a un teschio completamente spolpato era ancora appesa una ciocca di capelli rossicci, a mo’ di macabro trofeo. Sotto, era tutto un biancheggiare di ossa sparpagliate al suolo, sbriciolate, rosicchiate o recise dai morsi voraci delle bestie selvatiche per cui la caverna fungeva da tana invernale. Accanto alle residue vertebre cervicali emergeva dai detriti una sorta di strano collare massiccio dalle fattezze inconsuete, chiuso da una parte dal rostro di un possente volatile, dall’altra da una femmina mostruosa dalla coda di biscia.

Aurelio stava per raccogliere con cura quel singolare manufatto nella speranza che fornisse una spiegazione al macabro mistero della grotta, quando un rombo pauroso scosse il silenzio. Prima ancora che riuscisse a trarre un respiro, il patrizio vide il tetto della caverna precipitargli addosso.

Il frastuono cessò all’improvviso, lasciando il posto a un silenzio sinistro. Al centro della grotta c’era un cumulo di detriti piovuti dal soffitto, che arrivava quasi a lambire il robusto costone di roccia sotto il quale giacevano due corpi esanimi. Lavinia si riscosse e tossì a lungo, con le orecchie che le ronzavano, la nube di polvere fitta che le mozzava il fiato e il peso di Aurelio che le gravava addosso.

Il senatore non si muoveva, assodò subito la ragazza, tentando inutilmente di sgusciare fuori. Infine riuscì a liberare un braccio, quel tanto che le serviva per far scorrere le dita lungo la schiena del compagno di sventura.

Quando ritrasse la mano, la sentì umida e appiccicosa.

Al primo scricchiolio si era gettato su di lei, per ripararla dalla frana. Aveva preso su di sé la furia dei massi, l’impeto delle pietre, le scaglie appuntite. Era morto per salvarla, si disse sgomenta, mentre la caligine si diradava, lasciando intravedere una luce fioca all’imbocco della caverna, e, al di là delle rocce frastagliate, il verde del bosco, la libertà, la vita.

Perché proprio lui? Perché non Quinto, troppo timoroso del domani per gustare le gioie dell’oggi? Perché non il dissennato Lucio, privo di scrupoli e di rimorsi, deciso a percorrere a tutti i costi la sua strada, immemore di ciò che si lasciava alle spalle? Perché non l’ambizioso Sofio, per cui un genero valeva l’altro, purché si chiamasse Babrio? Perché non uno dei tanti uomini sciocchi e fatui di cui aveva goduto, perché non uno degli schiavi prestanti che l’avevano soddisfatta soltanto per paura di un castigo? Perché, di tanti, proprio lui? Lui che era il migliore, il più coraggioso, il più acuto, il più affascinante?, si chiese con un singulto.

Fu in quella che percepì un lieve sospiro. Dunque era ancora vivo, giubilò, prima che lo stretto contatto ravvicinato la avvertisse che lo era anche troppo.

«Smettila di fingerti svenuto solo per starmi spudoratamente addosso, lurido commediante» sibilò piccata. «Ti sembra onesto approfittare di un terribile incidente per avvinghiarti a una donna?»

«Incidente? Sì, può anche darsi che il soffitto sia precipitato dopo decenni soltanto per volere del Fato proprio quando eravamo qui noi, però è molto più probabile che abbiano tentato di ammazzarci. E chi ha scagliato un masso sulla volta friabile della grotta per seppellirci potrebbe essere ancora là fuori. Quindi taci e subisci, mia ardente guerriera, non hai molte altre scelte.»

«Hai rischiato la vita per me. Chi te l’ha fatto fare?» chiese Lavinia in un sussurro.

«Mi piace salvare le belle signore. Soprattutto quando non c’è altro modo per sottometterle, se non far loro da scudo nel crollo di una caverna!» celiò il patrizio, guardandosi bene dal liberarla. Intanto lo sguardo gli correva attorno, tra le macerie fumanti: niente più scheletro, niente più macabri reperti, niente più fibula di bronzo, nulla salvo sassi, rovine e l’angolo riparato dalle rocce in cui aveva spinto Lavinia al primo crepitio, coprendola per proteggerla dalla grandine letale.

«Non sei proprio nelle condizioni di mostrarti spiritoso, bello mio! Faresti meglio a rappezzarti piuttosto: stai grondando sangue come un capro sgozzato sull’ara del sacrificio!» esclamò lei, nel tentativo di scongiurare per l’ennesima volta la paura e la voglia.

«Il sangue è il sugo della vita, donna» replicò Aurelio stringendola più forte. «E visto che da qui non è prudente muoversi per un bel po’, in modo da far credere al buontempone che ha provato a sotterrarci di essere riuscito nel suo intento, tanto vale mettere a frutto il nostro tempo.»

A infondere in Lavinia una frustata di violento desiderio fu l’ombra minacciosa della spelonca, e il pericolo incombente, e l’aroma di cuoio misto a pelle di maschio, e il saldo fardello che le incombeva sopra, e la morte appena sfiorata che reclamava prepotentemente la vita. Il nero Thanatos non aveva ancora vinto su Eros dorato, pensò lasciandosi premere sulle dure rocce, mentre assaggiava con le labbra aride il sapore del petto virile che magnificamente la schiacciava, e il gusto acre del suo sudore, e quello dolce del suo sangue.

Soltanto molto dopo, quando ormai era già tardi, ad Aurelio tornò in mente la terribile maledizione delle streghe, che con tutta evidenza non aveva funzionato a dovere.

Il pensiero lo rallegrò, e prese a far strada a Lavinia nella discesa del costone, assaporando in modo nuovo e inconsapevolmente protettivo ogni fortuito contatto, la mano che stringeva forte quella della ragazza, il braccio che la guidava nei punti più difficili, la vita sottile sorretta per evitarle eventuali capitomboli.

Una tale premura, quasi automatica a dire il vero per un uomo attento come lui, non venne tuttavia adeguatamente accolta: Lavinia appariva taciturna come e più che all’andata, del tutto aliena da confidenze di sorta e refrattaria a qualunque scambio sociale o affettivo. Tantissime volte Publio Aurelio aveva udito, dalle labbra delle sue amanti male accasate, lunghe lamentazioni sul distacco e la freddezza di troppi uomini che, concluso l’amplesso, manifestavano un’indifferenza quasi offensiva per la donna che giaceva loro accanto, come se, soddisfatte le esigenze del corpo, la mente corresse ormai verso cose più importanti e sostanziali di un fuggevole atto sessuale. Aveva creduto di comprenderle, ma forse soltanto in quel momento ne afferrava appieno lo stato d’animo, la scoraggiante sensazione di essere stata per il compagno di letto non un essere umano in cui l’intimo contatto aveva scatenato forti emozioni, ma soltanto un mero strumento di piacere, senza turbamenti e senz’anima.

«Preferirei che ci separassimo qui» disse infatti Lavinia al limitare del bosco.

«Speravo di fare il viaggio assieme» propose il patrizio con scarsa convinzione: di fatto, non aveva nulla da lagnarsi, aveva fatto l’amore con una donna attraente e appassionata, adesso ognuno sarebbe andato per la propria strada. Che altro poteva volere di più?

«Meglio di no, non vorrei tu credessi che tra di noi sia cambiato qualcosa» precisò Lavinia con un accenno di imbarazzo.

«Ciò che è accaduto non equivale a una presentazione ufficiale, è questo che intendi dire?» sorrise Aurelio, divertito a dispetto di una piccola punta di amarezza. Molto piccola, però.

«Più o meno» ribatté lei concisa, guardando lontano dietro al suo interlocutore, come se avesse affari urgenti da sbrigare altrove.

Aurelio strinse le spalle, abbozzò un breve saluto col capo e si rassegnò a proseguire, mentre la donna restava ferma, visibilmente in attesa che se ne andasse. Eppure non sembrava tanto arcigna poco prima, si disse il patrizio, troppo sicuro di sé per pensare seriamente di averla delusa, anche se quel commiato tanto rapido qualche dubbio, a dire il vero, a chiunque altro lo avrebbe fatto venire. Alla luce di un trentennio di avventure galanti, però, Publio Aurelio sperava di aver capito almeno qualche cosetta di quel mistero – mirabile, irresistibile, ma pur sempre mistero – che continuavano a essere ai suoi occhi le donne, quindi si disse che no, non era colpa sua, poteva esserne certo. Tanto più che ammettere il contrario sarebbe stato molto spiacevole.

Che cosa andava meditando allora Lavinia?, si chiedeva allontanandosi. Che cosa progettava di fare, da sola in quel bosco? C’era un altro nascondiglio che la ragazza voleva ispezionare, alla ricerca di quel favoloso tesoro di suo nonno l’Avvoltoio, che forse non era mai esistito, o forse gli era stato sottratto assieme alla vita? Sì, perché Aurelio rammentava bene la macabra scena che gli si era presentata nella caverna e lo scheletro ghignante col collare di bronzo: si trattava di un metallo ritorto come ne avevano portati un tempo i guerrieri celti della penisola, ma a volte anche gli etruschi. Probabilmente qualcuno dei loro discendenti amava indossarlo ancora per porre l’accento sull’antichità delle sue origini. Velthur Velthinio, orgoglioso della sua stirpe secolare, doveva essere stato proprio il tipo da esibire un gioiello simile, magari a mo’ di portafortuna: il rostro di rapace e la sirena erano infatti i suoi emblemi. Dunque, un’unica cosa era ormai abbastanza chiara, anche se ogni prova valida era andata distrutta: lungi dall’essere caduto in guerra, l’Avvoltoio aveva fatto ritorno in patria per rimetterci la pelle, cadendo non nelle foreste teutoniche per mano di nemici agguerriti, bensì nella terra dei suoi avi, ucciso quasi di sicuro da qualcuno che lo conosceva bene.

Anche Lavinia aveva evidentemente tratto le stesse conclusioni e ciò spiegava la sua fretta e la sua reticenza, si convinse Aurelio, astrologando così una spiegazione abbastanza persuasiva da non mettere in dubbio i suoi pregi virili. Stava appunto riflettendo se avallare definitivamente una versione dei fatti che rispondeva appieno ai suoi comodi, quando udì il grido.

Non pareva un urlo di terrore, soltanto uno strillo femminile acuto e prolungato.

“Ah” pensò, non senza una sfumatura di meschino compiacimento: tutta quella boria, tutta quell’autonomia, tutta quell’indipendenza, ed ecco l’intrepida Lavinia squittire come una qualunque comare della Suburra, probabilmente davanti a un topo che minacciava di salirle su per la veste. Bene, se la vedesse da sola, la gran donna, con il sorcio o lo scoiattolo o il ghiro che le faceva tanta paura!, si disse risoluto.

Forse però si trattava di qualcosa di più grosso di un roditore, rifletté subito dopo, magari una donnola, o una faina, o un istrice. O magari un cinghiale: sarebbe bastato stargli lontano, non era un’impresa poi tanto difficile per una ragazza che in quei boschi ci era cresciuta e che, a sentir lei, non aveva bisogno dell’aiuto di nessuno...

Ma se fosse stato di peggio? C’erano parecchi lupi in quelle foreste e per quanto in genere rifuggissero il contatto con l’uomo accontentandosi di agnelli o capretti, talvolta, spinti dalla fame estrema, arrivavano anche ad assalire donne e bambini. E quei bestioni spesso attaccavano in branco.

All’improvviso gli vennero in mente la feroce lupa Mormo, Ecate la “cagna nera” e le sue figlie, le sanguinarie empuse dalle pianelle di bronzo, davanti a cui lo stesso Dio Dioniso aveva tremato di paura. Ma Lavinia in quel momento non era la predatrice, bensì la preda inerme, si corresse Aurelio, mentre secoli e secoli di tradizioni, di valori e di costumi consolidati, di impulsi e attitudini non sempre consapevoli ma incisi nel profondo cominciavano a ribollirgli nelle vene, premendo in direzione dell’intervento. In che cosa consisteva un urlo, se non in una richiesta di aiuto? Anche con il pugium a disposizione, Lavinia di fronte a una belva avrebbe avuto senza dubbio la peggio: squartare un lupo non era cosa da femmine, per quanto saccenti. C’era una fanciulla in pericolo, una creatura inerme alle prese con una bestia feroce. E lui era un uomo, un maschio, un romano. Come avrebbe potuto lasciare una giovane indifesa in balia di un branco di fiere selvagge? Come sarebbe riuscito a guardarsi allo specchio, se non si fosse precipitato in soccorso di una donna con cui aveva appena fatto l’amore?

La riflessione, e la conseguente condotta, si erano dipanate nello spazio di un istante, ma al senatore parve di aver lasciato passare ore e ore prima di decidersi. Il suo maledetto orgoglio gli aveva fatto perdere minuti preziosi e Lavinia nel frattempo poteva essere stata assalita, sbranata, dilaniata, squartata, straziata, fatta a pezzi da zanne feroci: se l’avesse vista riversa in una pozza di sangue non se lo sarebbe perdonato mai e poi mai...

Una corsa trafelata in mezzo ai rovi e fu da lei.

Era viva, ma attonita, e stava fissando un braccio umano che sporgeva dal greto di un torrente.

Picunno giaceva riverso con metà del corpo nell’alveo del fiumiciattolo sassoso. Un dardo acuminato gli entrava dalla schiena uscendo dal petto, in corrispondenza del cuore: un colpo solo, letale, lo aveva raggiunto ben prima del crollo della caverna, almeno a giudicare dal sangue raggrumato nella parte del torace che emergeva asciutto dalle acque gelide, contro la quale si andavano accumulando i detriti portati dalla corrente. Il braccio che affiorava era già parzialmente indurito, mentre quello immerso non appariva ancora contratto nella rigidità della morte. A riva, una bisaccia sdrucita, completamente vuota.

Mentre si avvicinava, ad Aurelio sembrò di udire un gemito, confuso con il sibilo del vento tra le fronde. Allarmato, seguì l’eco del lamento fino a una piccola radura nel folto del bosco, con Lavinia che lo tallonava alle spalle.

Trovarono Pilunno ferito a morte da una freccia conficcata nell’inguine, la cui forza l’aveva scaraventato contro le rocce. Una larga pozza di sangue imbeveva il terriccio sotto le sue reni e il viso dagli occhi chiusi mostrava già il lividore traslucido dell’agonia.

«È spacciato» disse il senatore a Lavinia, facendole segno di tacere.

«Sei tu, fratello mio? Non ci vedo più, devo aver battuto la testa» mormorò con indicibile sforzo Pilunno. «Non preoccuparti, non fa molto male, guarirò presto. Ma dimmi, l’hai riconosciuta la grotta dove entrò la kyria tanti anni or sono?»

«Certamente» rispose il patrizio alterando la voce.

«Ricordi? Quando abbiamo scoperto tra il ghiaccio della cella nivaria il talismano di opale a forma di sirena che lei teneva sempre celato nella crocchia dei capelli, tu sei stato subito certo che la fortuna si sarebbe finalmente rivolta verso di noi: lo portava dal giorno del viaggio, doveva averlo trovato qui! E hai capito pure che la chiave raccolta da te sul pavimento il giorno precedente doveva servire ad aprire anche qualche cosa d’altro, oltre la ghiacciaia. Ci avrebbe spalancato il tesoro dell’Avvoltoio nascosto nella caverna che venimmo a cercare un tempo! L’hai trovato? C’è ancora qualcosa? Siamo ricchi adesso?»

«Adesso sì» confermò sommessamente il senatore in falsetto, ripetendo l’ultima parola per illudere Pilunno di essere in presenza del gemello. Poi rapidamente arretrò verso la radura, ne riemerse carico del corpo senza vita di Picunno e andò a distenderlo piamente accanto a quello dell’agonizzante, che ne afferrò la mano freddissima ma ancora morbida per stringerla a sé.

«Hai riempito bene la sporta, Picunno, è gonfia come quella che riportò la kyria quel giorno? E com’è il tesoro, grande?»

«Grande, grande: oro, gemme, collane, bracciali, monete, preziosi, tutti per noi» ripeté il patrizio, sforzandosi di imitare la voce del gemello morto.

«Fratello mio, gli Dei ci hanno esauditi: saremo sempre assieme noi due!»

«Assieme, sempre» ripeté il patrizio e attese che gli occhi di Pilunno si chiudessero.

Subito dopo, respingendo la commozione, frugava nelle tuniche dei due servi, trovando addosso a Pilunno un pendente di opale che raffigurava una donna con la coda di biscione e tra le vesti di Picunno una vecchia chiave arrugginita.

«Adesso via di qua, presto!» ordinò poi a Lavinia, che a rigor di logica avrebbe dovuto essere ancora alle sue spalle.

Della ragazza, però, non c’era più traccia.

Carsulae

Non serviva una mente eccelsa per rendersi conto di quanto era avvenuto nella grotta tanti anni prima, rifletteva Aurelio rimontando a cavallo.

Il cadavere che lui e Lavinia avevano intravisto prima del crollo apparteneva indubbiamente a Velthur l’Avvoltoio, come testimoniava il torques di bronzo con il becco rapace e l’insegna della sirena. Dunque il celebre eroe di guerra non era stato affatto ucciso dai barbari, bensì, con grande probabilità, si era intascato l’oro del riscatto che era andato a contrattare. Quanto ci avrebbe messo l’Avvoltoio a percorrere il cammino dalle foreste settentrionali alla natia Interamna, galoppando a spron battuto?, si domandò il senatore. Da questo punto di vista, l’impresa più eccezionale di cui si conservasse memoria era quella di Tiberio, che aveva coperto in soli due giorni e due notti la distanza tra Roma e le terre dei germani, risoluto ad accorrere al capezzale del fratello Druso – padre di Claudio Cesare – in tempo per raccoglierne l’ultimo respiro. Ma il futuro imperatore aveva a disposizione un continuo ricambio di cavalli nelle stazioni di posta, servizio di cui l’Avvoltoio, nel suo viaggio clandestino, non era in grado di usufruire. Comunque un uomo forte ed esercitato al galoppo, disposto a dormire poco e abbastanza ben fornito di denaro da acquistare via via nuove cavalcature, sarebbe stato in grado di percorrere il tragitto in quattro o cinque giorni, in modo da affidare il tesoro in mani sicure e tornare poi indietro alla legione accampata nel Nord, dichiarando che gli infidi barbari non avevano accettato il patto e si erano tenuti i soldi. Otto giorni in tutto, forse dieci, forse anche meno. Sì, era possibile.

Un piano audace, che tuttavia aveva una pecca, ovvero proprio le “mani sicure” di cui Velthur Velthinio si fidava ciecamente, quelle della sorella, che aveva senza dubbio provveduto a mettere a parte del segreto con un piccione viaggiatore.

E Fastia si era recata all’appuntamento. Quando era uscita dalla grotta, però, l’Avvoltoio era morto e lei era tornata al carro con una grossa sacca piena e il talismano di onice tra i capelli. E da quel giorno la famiglia aveva ripreso a prosperare...

Aurelio non sapeva in che modo la matriarca dei Velthinii avesse ucciso il fratello, ma era certo che l’avesse fatto. Era un’assassina, una fratricida, destinata a morire tanti anni dopo per mano di un altro assassino, lo stesso che aveva tentato di seppellire vivi lui e Lavinia, per fortuna senza riuscirci. Della stessa fortuna, tuttavia, non avevano goduto Picunno e Pilunno, colpiti da due frecce letali, scagliate con estrema abilità. Era noto che entrambi i fratelli Babri si erano distinti per eccellenza in questa arte durante la giovinezza... ma quale dei due aveva teso questa volta l’arco mortifero? Il tetragono Quinto – acqua cheta in superficie, ma nel quale dovevano ribollire odi profondi e annosi rancori – o lo spregiudicato Lucio, che, privato dell’eredità, aveva forse sperato di rifarsi col fantomatico tesoro di cui aveva sempre sentito favoleggiare?

E che c’entravano le empuse? Qual era il nesso che legava la vittima inchiodata nel sepolcro sull’Esquilino e il fosco passato della stirpe Babria? Esisteva realmente un rapporto tra i due delitti, o soltanto grazie ad alcune fortuite coincidenze la tomba di una donna uccisa si era rivelata proprietà di una donna a sua volta uccisa, per finire poi nelle mani di un prodigo pronto a cederla come dimora al popolano Cicurio? Le coincidenze esistevano, rifletté Aurelio, e spesso erano fuorvianti, perché l’animo umano tendeva a cercare sempre negli eventi improbabili un piano nascosto, in modo da giustificare la cecità del caso: per questo ci si rammentava invariabilmente dei sogni premonitori che parevano aver annunciato il futuro, dimenticandosi completamente di tutti gli altri, ovvero la stragrande maggioranza, che invece non avevano preconizzato proprio niente...

Nel problema del duplice delitto, le prove di un effettivo legame erano in effetti assai labili: consistevano soltanto nei suoni agghiaccianti uditi da Quinto il giovane e dai due servi che non avrebbero parlato mai più, nonché nella presenza di Lucio Babrio nella taverna All’Ercole furioso, dalla quale era svanita all’improvviso una ragazza che sarebbe potuta essere – forse, soltanto forse – l’empusa barbaramente giustiziata.

Proprio per togliere uno dei troppi “forse” che inquinavano ogni tentativo di sbrogliare la matassa, il patrizio non stava dirigendosi direttamente a Roma, bensì verso una cittadina non molto lontana, quella Carsulae in cui secondo la sguattera doveva trovarsi la scomparsa Carmiana. Ma se stava vedendo giusto, ovvero se i due omicidi erano strettamente collegati, la ragazza a Carsulae non ci sarebbe stata proprio, in quanto le sue ossa scarnificate giacevano già sul tavolo autoptico di Ipparco, si disse Aurelio spronando il cavallo.

Il municipio si trovava al confine tra i territori di Interamna e Casventum e, sebbene non grandissimo, godeva di tutte le principali risorse di ogni abitato romano: le terme, il teatro, una bella basilica e un paio di eleganti templi gemelli. L’ingresso dalla via Flaminia era segnato da due archi quadrifronti di piccole proporzioni, che il patrizio sorpassò quando ormai il sole stava calando. Avrebbe certamente trovato una locanda con annessa stalla in cui passare la notte, con un po’ di fortuna in un cubicolo singolo, ma più facilmente sulle panche di pietra adibite a giacigli che ospitavano in promiscuità anche molti altri viaggiatori. Attorno, comunque, c’erano thermopolia e taberne vinariae da esplorare minuziosamente, prima di escludere la presenza in città dell’ex serva della popina All’Ercole furioso, dando quindi un nome alla vittima inchiodata.

Il tempo a disposizione era poco, tuttavia l’occhio del patrizio corse voglioso all’edificio termale sito alla sua destra, non lontano dalla cisterna dell’acqua, che per un prodigio dei Numi era ancora aperto: la polvere della spelonca era andata aggrumandosi, mescolato al sudore della cavalcata, al sangue delle ferite sue e dei due poveri servi uccisi. Indagare era urgente, ma più urgente ancora era lavarsi, si disse quindi avviandosi in direzione dei bagni.

«Il sole è calato, le vasche sono vuote, riapriamo domani: donne di mattina presto, uomini dalla terza ora!» gli sbatté la porta in faccia il guardiano, lasciandolo con un palmo di naso.

Fu dunque un senatore Stazio piuttosto malmesso quello che, consegnato il cavallo allo stalliere, entrò nella caupona a ridosso dei templi gemelli, l’unica dove si trovasse ancora posto per dormire.

Aveva appena preso posto sulla panca di pietra destinata a trasformarsi nel letto comune, quando la voce di un avventore echeggiò potente nella taverna.

«Carmiana, che aspetti a portarmi altro vino?»

Lupus in fabula, avrebbe dovuto esultare Aurelio, felice dell’immediata identificazione, ottenuta senza fatica alcuna. Ma non fu così.

Narrano le leggende dei giudei di un gigante chiamato Sansone, la cui forza risiedeva in sette trecce di lunghi capelli, che gli vennero recise a tradimento dai nemici per colpa di una donna infida. Non appena la capigliatura cominciò a ricrescere, tuttavia, il colosso prigioniero riuscì a divellere le colonne portanti del tempio in cui era stato tradotto in catene, trovando la morte assieme ai suoi persecutori sotto le macerie fumanti dell’edificio.

Tale fu il cumulo di rovine che si abbatté sul castello di ipotesi faticosamente e industriosamente costruite dal senatore quando udì il cliente pronunciare il nome della donna che a suo avviso avrebbe dovuto essere già stata uccisa, sepolta, riesumata e sottoposta ad autopsia: una parola, una sola, che travolgeva come un fiume in piena giorni e giorni di minuziose indagini, nebulizzandole nella grigia foschia di un cocente sconforto.

«Andiamo, Carmiana» ripeté il cliente assetato.

Vedendo l’ostessa alzarsi dal tavolo a cui era seduta assieme a un’amica per correre a servirlo, il patrizio chiese sommessamente al suo vicino: «È molto che la taverniera ha aperto questo locale?».

«Saranno sette anni, più o meno» gli rispose quello, tra i sonori gorgoglii con cui accompagnava la rumorosa opera di sorbimento della sua zuppa.

Fine delle empuse, prese atto il senatore. Fine del legame tra i due delitti. Fine delle stolte elucubrazioni della sua mente troppo immaginosa. Fine del bandolo della matassa: non esisteva alcun bandolo, non esisteva alcuna matassa.

Fu allora che la donna di schiena al tavolo di Carmiana si voltò e il patrizio, restando a bocca aperta, vi riconobbe Lavinia.

«Smettila di vedere congiure ovunque: è mia sorella, Lavinia maggiore, tutto qui» esclamò la ragazza poco dopo, mentre attingeva abbondantemente alla brocca, senza sognarsi di offrire da bere all’uomo che soltanto poche ore prima aveva messo a repentaglio la vita per salvarla ed era stato il suo compagno di letto.

«Non è visto di buon occhio che una cittadina romana faccia certi mestieri, così ho cominciato a farmi chiamare Carmiana, tanto più che un nome greco in alcuni ambienti paga. E tu, dunque, sei il senatore: niente male, previa una bella ripulita, naturalmente» rise la taverniera sedendosi in faccia al patrizio, mentre la cugina dei Babri si chiudeva in un silenzio ostinato.

Sui trentacinque anni, più sopra che sotto, valutò Aurelio osservando la nuova venuta. Un viso largo, non troppo regolare ma affabile, capace di portare i segni di molte fatiche, di molte peripezie e di molti uomini nel modo in cui si innalza non un’insegna di sconfitta, bensì un vessillo sventolato a lungo e sempre gloriosamente. Capelli rossicci, un po’ opachi, troppo ricci per starsene buoni buoni dentro la fascia di lino che li riparava dai miasmi delle fritture. Un seno pregevole, fiero di farsi rimirare. Due occhi piccoli e intelligenti, neri come la pece, che lo scrutavano senza celare il loro interesse. Una donna franca e pronta allo scherzo, pensò Aurelio compiaciuto.

«Ricco come Creso, tuttavia abbigliato come un popolano male in arnese. Arrogante e presuntuoso, tuttavia pronto a far scudo col suo corpo a una fanciulla indifesa. Bene, bene» continuò l’ostessa dimostrando di godere della totale confidenza della compagna. «Approvo la tua scelta, sorellina: forza, presentami.»

Lavinia maggiore, detta Carmiana, era la sua sorellastra, figlia di prime nozze del plebeo spiantato che suo nonno Velthur l’Avvoltoio non aveva mai riconosciuto come legittimo genero, spiegò l’altra di malavoglia. Alla morte della madre, si era fatta carico di allevare la bambina per qualche tempo, finché il padre comune non le aveva piantate in asso entrambe, andando a crepare ubriaco in un sordido vicolo. Da sola, Carmiana non poteva cavarsela, così era ricorsa a Fastia che, con parecchia riluttanza, si era detta disposta a prendersi in casa la pronipote, confinandola tuttavia per lunghi periodi nel suo fondo a Interamna. A dispetto della vecchia, però, le due sorelle erano sempre rimaste in contatto, e ogni tanto avevano fatto in modo di incontrarsi.

«Sì, ricorre a me qualche volta... non spesso, soltanto quando le crolla in testa un soffitto» specificò Carmiana, alludendo con un blando rimprovero alle visite troppo rare della sorella.

«Quindi tu lavoravi All’Ercole furioso proprio al tempo in cui, guarda caso, vi venne ceduto, dopo una sfortunata partita a dadi, l’atto di proprietà di una tomba degli antenati di tua sorella. E credo che voi due sappiate benissimo da chi.»

«Il bel Lucio fu una debolezza giovanile di Lavinia» ammise Carmiana. «Ma come rimproverargliela? Quale ragazza tenuta ai margini della vita sociale non si sarebbe lasciata sedurre da un simile esperto ciurmatore? Tornato a Roma in incognito, la contattò segretamente, operando affinché si invaghisse di lui, per poi piantarla in asso quando non gli servì più.»

La dura, scontrosa, intrattabile Lavinia in preda alle pene d’amore? Stupefacente, pensò Aurelio, e quella rivelazione inattesa, che aveva colorito il volto della giovane di una rossa sfumatura di vergogna, la rese ai suoi occhi più gradita, più vicina, in qualche modo più umana. Quanti anni poteva avere allora? Senza dubbio meno di venti, di cui alcuni trascorsi da orfana con un padre avvinazzato, e altri in balia di una vecchia egoista decisa a farle pesare la sua misera elemosina. Ed ecco le si presenta l’irresistibile cugino – ma dov’era e che cosa faceva il primogenito dei Babri in quegli anni, oltre a giocare a dadi? – mettendo sul piatto della bilancia quell’aspetto fascinoso e quell’eloquio facondo a cui soggiacevano anche donne ben più navigate. Sedurla è facile, immaginò Aurelio: Lavina non ha un soldo ma forse può fargli un piccolo favore, ci sono vecchie carte nella cassapanca della nonna che nessuno controlla mai, alcune di esse potrebbero giovargli, prenderle e consegnargliele sarebbe semplicissimo... qualche mossa furtiva e l’atto di proprietà della tomba viene trafugato dall’ingenua innamorata e rimesso nelle mani rapaci dell’imbroglione, che lo vende a Cicurio sostenendo di averlo vinto ai dadi.

«Nulla di irreparabile, dunque: ci sono pecche ben più gravi» minimizzò Carmiana, voltandosi verso il patrizio per evocarne l’indulgenza.

Aurelio fu lì lì per cedere a un’improvvisa e forse mal riposta tenerezza: una giovane tradita e sfruttata, che giura di non lasciarsi più coinvolgere da nessuno, limitandosi a usare i maschi nello stesso modo con cui lo spregiudicato Lucio aveva usato lei... Ma proprio quando stava per addolcirsi, il patrizio si sentì montare dentro un’acredine sarcastica, a cui non erano estranee quelle asperità del carattere che avevano indotto la ragazza a trattarlo come uno qualunque degli schiavi addetti al suo personale piacere.

«Si spiega così il documento scomparso! Mi pareva molto strano che Lucio avesse sottratto l’atto di proprietà del sepolcro prima di partire: difficilmente un uomo avvezzo a vivere soltanto nel presente fa progetti a lunga scadenza. Se invece l’avessi rubato tu dall’arca di Fastia, mia deliziosa Lavinia, tutto quadrerebbe.»

«Deliziosa? Ah ah ah, sorellina, il senatore dev’essere un uomo con molte solide sicurezze per definire in tal modo una strega bisbetica come te» scoppiò a ridere Carmiana.

«Se non c’è altro...» fece gelida Lavinia.

«Ce n’è, ce n’è, ho appena incominciato» la smentì Aurelio e prese a snocciolare una dopo l’altra tutte le sue domande.

Sì, era stata Lavinia a indirizzare Lucio verso la taverna All’Ercole Furente, rispose Carmiana, ma lei l’aveva frequentato poco, perché Nannilla ci aveva perduto subito dietro il sonno e non intendeva inimicarsela; se si era ridotta a far la serva e tutto il resto era solo per sistemarsi, mettere da parte un po’ di soldi e aprire un locale in proprio, ai begli uomini ci avrebbe pensato dopo. No, non sapeva nulla della vendita della tomba. Però la piccola sguattera se la ricordava, le aveva fatto pena, non era attrezzata per affrontare un mondo tanto duro, poverina, chissà che brutta fine aveva fatto. Delle empuse ne aveva sentito parlare vagamente alla taverna, quando un cliente le aveva chiesto di mostrargli le gambe, per essere sicuro che non fossero di bronzo. E se il senatore aveva dei dubbi, sarebbe stata lieta di farle vedere anche a lui...

A quelle parole la sorella si levò in piedi di scatto. «Sono stanca, restate pure, io vado a dormire» annunciò, sparendo nel retrobottega per imboccare la scala che portava al piano superiore.

Lavinia gelosa?, si chiese Aurelio interessato. Anche nei confronti della bellissima Sofia non aveva nascosto il suo livore...

«Mia sorella non è un’ingrata, ti è riconoscente per averle salvato la vita. E se proprio vuoi saperlo, hai anche fatto colpo. Tuttavia è un po’ acida: vivere da povera tra i ricchi le ha lasciato qualche rospo sullo stomaco.»

«La catenella che porta alla caviglia è forse un dono di Lucio?»

«Esatto. Se la cavava sempre così, il bellissimo, un regaluccio da niente, poi avanti con le richieste: a lui piaceva ricevere, non dare. Lavinia giurò che non se la sarebbe mai più tolta, per ricordarsi di diffidare di tutti gli esseri umani, particolarmente se di sesso maschile. Certo, un po’ di accortezza serve, per una donna è sempre meglio contare soltanto su se stessa, ma a mio parere lei sta esagerando... Spesso penso che, sebbene la mia vita sia stata più difficile, tutto sommato sono stata più fortunata io. E adesso dimmi, in che cosa posso servirti? Chiedi tutto ciò che vuoi e, se rientra nelle mie possibilità, l’avrai subito.»

Tra l’umile taverniera dal passato non sempre encomiabile e il potente senatore corse uno sguardo di intesa, in cui si mescolarono per un attimo stima e simpatia, trasporto e desiderio.

Una serva da taverna, non molto bella, per nulla raffinata, con i calli alle mani e il grembiule unto, eppure avrebbe voluto prenderla tra le braccia, affondare il viso in quel petto balioso fieramente esibito, annullarsi in quel ventre magnanimo che chiunque aveva potuto acquistare per pochi assi e ridere a piena gola con lei tra le coltri, in un amplesso gagliardo e gioioso, si disse Aurelio. Invece rispose pacato: «Vorrei fare un bagno».

«Sei saggio, molto saggio, senatore: se avessi rubato l’uomo a mia sorella, non sarei stata capace di perdonarmelo. Quindi ti farò preparare un mastello colmo di acqua calda nella piccola dipendenza annessa alle stalle, dove potrai anche dormire senza prendere le pulci: purtroppo, seppure il locale vada bene, non ho i fondi per attrezzare un quartiere termale e mi ci vorranno ancora due decenni per metterli insieme.»

«Ai miei nummularii basteranno poche ore per spedirti il necessario, non appena avrò fatto ritorno a Roma» progettò Aurelio mentre Carmiana gli indicava un piccolo edificio in fondo al cortile. «E la prossima volta che passerò di qui, non ci saranno sorelle tra i piedi!»