Casa di Aurelio sul colle Viminale

Si alzò di buonora, incontrando subito un abbacchiatissimo Paride che, spedito per l’ennesima volta a ricevere i clientes al suo posto, temeva di essere preso di mira come il giorno prima da un fitto lancio di noccioli tirati dai riottosi beneficati, irritati per l’assenza del dominus malgrado il dono di una sportula di tutto rispetto.

Castore invece era pimpante come al solito.

«È giunta in questo momento una missiva, portata a mano da uno sbarbatello. Aveva già provato a recapitartela ieri, ma siccome il portiere Fabello dormiva, ha preferito riprovarci stamane, per via della mancia. Mi sono permesso di premiarlo a tuo nome, supponendo che il messaggio ti interessasse assai» disse Castore porgendo al padrone un involto ben sigillato con una ceralacca che non doveva essergli stata di alcun ostacolo. «Se vuoi il mio consiglio, non abboccare» aggiunse infatti, mostrandosi perfettamente a conoscenza del contenuto.

“Sono costretta a partire. Aiutaci, siamo tutti in pericolo!” diceva il biglietto, vergato in un’elegante calligrafia femminile. E sotto, a mo’ di firma, la lettera S.

Via Flaminia

Il senatore galoppava forsennatamente sulla via Flaminia, chiedendosi se ce l’avrebbe fatta a scongiurare il peggio, mentre il pensiero gli tornava alla cantina in cui, senza i due ragazzi, avrebbe probabilmente trovato la morte.

Era stato il caso o il volere del Fato a far sì che Quinto il giovane udisse i suoi colpi e se ne spaventasse abbastanza da ricorrere al fratello? I passi dei suoi salvatori erano stati guidati dalla cieca Fortuna o a condurli fino a lui era stata Ananke la Necessità? Non occorreva confidare nell’esistenza dei Numi per porsi quella domanda che da sempre tormentava i mortali, aderissero o meno a una qualunque fede: gli eventi accadevano per puro caso, o esisteva da qualche parte un progetto preciso, concepito da una provvida volontà che ne determinava il corso? Nessuno avrebbe mai saputo fornire una risposta, concluse Aurelio incitando il cavallo. Allora tanto valeva regolarsi come se nulla fosse ancora prestabilito, sperando che l’avvenire, anziché giacere sulle ginocchia degli Dei, fosse riposto tutto nell’umana capacità di intervenire, di agire, di arrivare in tempo.

Villa rustica dei Velthinii Fasti nei dintorni di Interamna

L’antiquata residenza che era stata di Velthur Velthinio giaceva sonnolenta non lontano dal punto in cui il Velino precipitava nella Nera. Attorno si stendevano campi, vigne, boschi e uliveti. Nessun borgo degno di questo nome fino a Interamna o a Reate, soltanto ergastula di schiavi rurali, magazzini e ovili.

«Uffa, ma per quanto resteremo in questa tediosa campagna? La villa rustica è deprimente, con tutti quei locali destinati a torchi e frantoi!» chiese Lucio annoiato.

«Si tratta di qualcosa a cui tu non sei avvezzo: si chiama lavoro» sibilò il fratello tra i denti.

«Il nostro trasferimento improvviso puzza tanto di fuga...» reiterò l’altro, storcendo il naso.

«Tu non c’entri per nulla, vero?» fece Quinto a mezza voce. «Eppure sembravi avere una gran fretta di lasciare la capitale...»

«Chi, io?» replicò il primogenito, cadendo dalle nuvole. «A me piacciono le grandi città, le vie animate, le strade piene di gente.»

«E le taverne in cui si gioca a dadi! Una strana domanda rivoltami dal senatore Stazio mi ha indotto infatti a effettuare un piccolo controllo tra i documenti della nonna. Scommetto che non indovinerai che cosa ho scoperto! Manca il certificato di proprietà di un antico colombario destinato alle ceneri degli schiavi. Nessuno metteva le mani da decenni in quei vecchi documenti, nemmeno la teta, perché il valore della tomba un tempo era irrilevante; adesso però, con la speculazione edilizia che sta arrivando anche sull’Esquilino, pochi palmi di terra in un vecchio cimitero avrebbero potuto fruttare un bel gruzzolo.»

«Ma stai sempre a contar soldi, fratellino?» lo interruppe l’altro, in tono insofferente.

«Mi piace vederci chiaro, Lucio. E qui di chiaro c’è ben poco: l’atto è sparito, e il sepolcro oggi risulta in mano al senatore.»

«Il senatore, sempre il senatore, un impiccione che cospira alle tue spalle... Sei proprio sicuro che ti convenga lasciargli portare alla luce le nostre vecchie storie, Quinto?»

«Non poi tanto vecchie: è trascorso un anno e mezzo da quando ti presentasti di nuovo alla porta con una serie di storielle fantasiose su barbari, prigionie, torture e improbabili eroismi. Non penserai che ti abbia creduto, vero?»

«Vabbè, ammetto di avere arricchito le mie vicende con qualche dettaglio succoso, in modo da renderle più appetibili» confessò il fratello.

«Per farti bello davanti alla nonna e al ragazzino!»

«Ai giovanissimi piace ascoltare vicende emozionanti, Quinto. Hanno sete di avventura, di brividi, di intrighi... Che cosa davi tu a Furillo, se non qualche sguardo distratto, un paio di libri e un bel po’ di botte? Almeno io gli ho offerto qualche ora lieta: veri o meno, con i miei racconti si divertiva!»

«Divertirti, soltanto questo conta per te, senza nessun riguardo per gli altri, per le tue responsabilità, per il tuo nome!» gridò Quinto con voce alterata.

I due fratelli urlavano troppo forte per udire il sospiro sommesso che aleggiò dietro alla porta. La disdicevole abitudine a origliare, infatti, spesso proficua, ha un effetto collaterale non irrilevante: si sentono a volte cose che si preferirebbe ignorare.

Furillo strinse i denti e incollò di nuovo l’orecchio al battente, spingendo giù nel profondo la delusione che gli premeva sulla bocca dello stomaco come un grosso rospo indigesto.

«Eri mio fratello, eri vivo, soltanto questo importava per me. Tuttavia mi sono premurato di prendere qualche informazione. Ti dice nulla il nome Aconia maggiore? Dovrebbe, visto che sei stato ai suoi ordini per un bel po’, proprio qui a Roma, spacciandoti sotto il nome di Febo...»

«Non mi andava di tornare dalla teta, era una vecchia autoritaria e insopportabile, ecco tutto» si giustificò Lucio.

«... lavoravi presso quella matrona in qualità di segretario, ma un segretario molto particolare, a quanto dicono. Non mi stupisco che tu abbia fatto il mantenuto, ne hai sempre avuto la vocazione: incantare le donne ingenue con il tuo bell’aspetto e la tua parlantina è praticamente la sola cosa in cui eccelli.»

«Oh, non ce l’avrai ancora con me per via di Sofia, vero? Lei era tanto, tanto innamorata, come avrei potuto tirarmi indietro? In compenso adesso non tollera nemmeno la mia presenza: puoi stare tranquillo, fratellino, hai una sposa fedele e comunque, se proprio dovessi subire un colpo basso, non ti arriverebbe certo da me, ma da certe tue conoscenze altolocate» sogghignò Lucio.

Davanti a quella palese allusione, Quinto sentì il sangue andargli alla testa: all’immagine di Sofia che guardava di sottecchi Publio Aurelio si sovrappose quella del bambino che, pur senza prove e nemmeno indizi, aveva sempre sospettato spurio, poi ancora quella del fratello. Per un istante lo folgorò la visione della moglie giovanissima stretta a Lucio in un colpevole abbraccio – i capelli dai riflessi bronzei che si mescolavano a quelli biondi di lui, le gambe bianchissime attorno al suo corpo, la voce roca che gemeva d’amore –, poi l’abituale compostezza, unita al buon senso, ebbe il sopravvento e riuscì a ricomporsi. Furillo non poteva essere figlio di Lucio: all’epoca suo fratello si trovava in Oriente, proprio là dove aveva conosciuto la matrona di cui poi era diventato l’amante e il parassita. Chi l’aveva generato, allora? E se invece Sofia fosse stata veramente innocente? Se quel ragazzino caparbio e indocile fosse davvero uscito dai suoi lombi?, si chiese rammentando come per un anno intero la moglie, tutta dedita ad assistere il primogenito ammalato, non si fosse fatta avvicinare da lui. Eccola però poco dopo manifestargli un’improvvisa disponibilità, dovuta al suo umore lunatico forse, forse alla necessità di coprire un fallo, e concepire così il suo secondo rampollo. E lui, vile com’era, non aveva mai trovato il coraggio di parlarne, aveva preferito tenersi il dubbio, lasciarlo ingigantire dentro di sé e corrodere quello che avrebbe dovuto essere il suo affetto di padre. No, non era sua la colpa, si disse, sentendo di nuovo la collera montargli dentro, con la forza devastante che anima i miti e i remissivi quando non ce la fanno più a reprimersi, e coagularsi in un’ira contro la nonna che lo aveva reso la sua marionetta, contro il virgulto bastardo di chissà chi, contro il fratello usurpatore.

«Sciagurato! Hai insozzato il nostro nome comportandoti come un volgare prostituto. Hai sedotto Sofia quando avevi già deciso di andartene senza sposarla. Hai montato la testa di Furillo con le tue stupide menzogne, coltivandone l’indole ribelle fino a farne un delinquentello da strada. Hai rubato e venduto un sepolcro che apparteneva da secoli alla nostra stirpe. Hai cercato di alienarmi la nonna per sottrarmi ciò che mi spettava!»

«Insomma, che vuoi da me? Sei tu che erediti tutto, l’hai forse dimenticato?» sbottò Lucio.

«Non te l’aspettavi, vero? Sono sicuro che la tua teta ti aveva promesso ben altro, lo vedevo dalla tua sicumera, dal ghigno strafottente che portavi stampato in faccia. E tu eri in casa, il mattino in cui venne trovata morta!»

Lucio scattò inviperito, mentre la consueta espressione sfrontata si tramutava in una maschera di rabbia.

«Ah no! Magari non sarò il più cristallino dei galantuomini, ma la morte di Fastia proprio non me la farò appioppare, fratellino! È vero, supponevo di avere la metà, se proprio vuoi saperlo lei me l’aveva promesso, ma questo non significa nulla» gridò l’altro al culmine dell’esasperazione.

«Mentire, promettere, giurare il falso è facile, vero? Tale la nonna, tale il nipote, siete degni l’uno dell’altra!» fece Quinto sprezzante.

«E tu, mio probo, mio onestissimo, mio integerrimo Quinto, tu non hai niente da nascondere? È soltanto per l’immenso affetto che ti lega alla mia persona che mi hai tollerato in casa tua? Oh oh, non credo proprio...»

«Io non ho nulla di cui vergognarmi!» ribatté l’altro con un grido strozzato.

«Davvero? E il leggendario tesoro dell’Avvoltoio dov’è finito? Perché il sedicente eroe dal fronte tornò indietro, e tu sapevi che io lo sapevo, così si spiegano la tua disponibilità e la tua tolleranza. Nella legione ci sarò anche stato poco, ma abbastanza per verificare il pessimo ricordo che il nostro nobile prozio aveva lasciato: altro che riscatto, erano in parecchi a pensare che avesse preso la fuga col bottino.»

«Ma Velthur morì» obiettò Quinto, pallido come un cencio lavato.

«Certo, però nessuno sa esattamente dove, né per mano di chi; il suo corpo non venne mai trovato, ci riportarono soltanto lo scudo, ricordi? E nessuno sa nemmeno che fine fece l’oro. Sai che penso, fratellino? Che il tesoro ve lo siate incamerato tu e la vecchia di comune accordo! Credi che non mi sia mai chiesto da dove erano venuti fuori i soldi per rilevare le ipoteche, comprare nuovi fondi agricoli, riattivare le miniere, restaurare la casa, acquistare la servitù, investire in immobili? Tu coltivi il sogno di vedere tuo figlio in Curia, e per realizzarlo ti serve un patrimonio di un milione di sesterzi e saresti capace di uccidere per accumularlo!»

«Taci, mentecatto! Ho preso il tuo posto perché tu eri un irresponsabile, ho sposato la tua donna perché tu l’avevi abbandonata, ho amministrato i beni della famiglia perché tu li avresti scialacquati! Dov’eri quando Fastia è morta, Lucio? Non ti sarebbe stato difficile scivolare fuori dal tuo cubicolo e farla in barba a quei due stupidi schiavi che sono scappati non appena ottenuta la libertà.»

«Bubbole! Picunno e Pilunno si sarebbero affrettati a denunciarmi, se mi avessero visto entrare dalla loro kyria. Ma avrebbero fatto la stessa cosa con te? Non credo proprio...»

«Dimentichi che io e mia moglie abbiamo trascorso la notte in casa di Sofio Sofiano? Al mattino ci siamo affrettati, perché svegliandosi Fastia avrebbe chiesto certamente di noi: sapeva bene quanto poco ti piacesse assistere gli ammalati. E l’abbiamo trovata senza vita! A proposito, ho appena saputo che Picunno e Pilunno sono stati trovati morti anche loro, nei boschi della nostra proprietà, uccisi da due frecce scagliate da lontano, proprio quando tu ti sei reso irreperibile... da ragazzo eri bravo nel tiro con l’arco, Lucio.»

«Anche tu, fratellino. E anche tu sei scomparso da casa, in quei giorni!»

«Dunque insisti nel dirmi che non ne sai niente! Non sono stupido quanto credi, Lucio: quando mi sono reso conto che quel ficcanaso di Publio Aurelio puntava dritto a te, ho ordinato che ci trasferissimo immediatamente qui. E qui staremo per un pezzo, perché ai miei occhi la reputazione della famiglia vale ancora qualcosa, a differenza di chi, al pari tuo, insiste a infangarla. Se non ti garba, vattene, nessuno ti correrà dietro» disse Quinto gelido, voltando le spalle al fratello per dirigersi alla porta.

«Non te la caverai così, lurido verme! Mi hai portato via tutto, ma non mi accollerai un omicidio!» gli gridò dietro il fratello, livido.

La nonna, pensò Furillo ascoltando avidamente. Forse era stata uccisa, per questo il senatore era penetrato prima in casa e poi nella ghiacciaia da cui lo aveva tirato fuori privo di sensi. E anche Picunno e Pilunno erano morti, gemette. I servi della teta avevano giocato con lui qualche volta, quando era piccolo, malgrado lei non vedesse di buon occhio l’eccessiva dimestichezza tra schiavi e padroni. A Furillo, invece, i gemelli piacevano: erano buffi, così uguali in tutto a parte i capelli, uno che parlava in continuazione e l’altro che taceva, salvo ripetere sempre l’ultima parola detta dal primo. Ed erano gentili, gli facevano compagnia, qualche volta l’avevano fatto ridere e soprattutto non gli dicevano menzogne; quindi sperava tanto che là nelle tenebre dell’Orco i due fossero ancora insieme, e che il cupo Erebo non fosse poi un posto così triste e brutto come lo descrivevano, con Cerbero, Ecate, le lamie, le empuse e tutto il resto. E anche che, per decreto di Minosse, laggiù toccasse alla teta servirli, non viceversa. «State in pace in perpetuo, voi che non avete mai fatto male a nessuno» mormorò, respingendo le lacrime che gli salivano agli occhi.

All’improvviso la solitudine che aveva spesso cercato – sempre meglio di affrontare penosi rifiuti – lo assalì come un peso schiacciante. Suo zio gli aveva mentito e sua madre gli preferiva il fratello. Suo padre non lo amava, sebbene fosse rimasto impressionato, così gli era parso, dal suo comportamento in cantina. Ora, se aveva ben capito, stavano tutti e quanti scappando dal senatore, l’unica persona con cui, in quel momento, forse avrebbe avuto voglia di parlare: lui diceva di dovergli la vita, ma non per questo naturalmente poteva considerarlo un amico. Aveva imparato a sue spese che cosa volevano veramente i pezzi grossi quando ostentavano di apprezzare la compagnia di un ragazzino...

E di là c’erano suo padre e suo zio che stavano litigando furiosamente. O forse peggio, si disse Furillo, sentendo nell’altra stanza rumori ben poco rassicuranti, che lo indussero a socchiudere la porta di un sottile spiraglio, quel tanto che bastava per gettare un rapido sguardo.

Quinto, intanto, si era voltato appena in tempo per vedere il fratello che si precipitava furente su di lui, i pugni chiusi, il volto sfigurato dall’ira. Il primo colpo lo raggiunse al petto, ma fu lesto a schivare il secondo, e un istante dopo i due rotolavano a terra, avvinghiati, cercando ognuno il punto debole dell’altro. Come tanto tempo prima, quando i fratelli si accapigliavano per un nonnulla e Lucio, più alto e con tre anni di più, l’aveva sempre vinta.

Ma era passato molto tempo da allora, Quinto si era irrobustito, mentre l’altro, con la sua solita faciloneria, tendeva a sottovalutarlo.

Fu così che il bel Lucio, il vigoroso Lucio, si trovò sotto, il corpo del fratello che incombeva su di lui con la mano stretta alla sua gola.

Il braccio destro, ancora libero, annaspò afferrando la prima cosa a disposizione per usarla come arma. Si trattava della gamba di uno sgabello, pesante ma non tanto da non poter essere sollevato. Lucio se ne impadronì, cercando di brandirlo in alto per scagliarlo giù, dritto sulla testa del fratello. Ma quest’ultimo gli serrava spasmodicamente le dita alla gola, togliendogli il respiro e le forze. «Sofia, la nonna, mio suocero, i miei figli...» farneticava come se delirasse, e stringeva, stringeva, stringeva...

“Mi ammazza! Questo omuncolo da niente mi ammazza!” pensò Lucio mentre tentava di sollevare la sua arma improvvisata.

A Furillo sfuggì un grido e subito accostò la porta, sperando di non essere stato sentito: che poteva fare lui, un bambino, contro due adulti scatenati? Andare a chiamare sua madre, forse, perché li dividesse...

Improvvisamente la stretta alla gola di Lucio si allentò.

«Stupido ragazzo che rifiuta di crescere, che crede di essere sempre il più furbo, il più forte, il più in gamba» disse Quinto in un soffio, alleggerendo ancora un po’ la pressione. «Hai dimenticato Publio Aurelio? Quello ci sta addosso, ci metterà l’uno contro l’altro, rinfocolando i nostri reciproci rancori, fino a causare la nostra rovina!»

L’altro annuì, fece mostra di voler parlare e Quinto mollò la presa.

Rapido, Lucio abbassò il braccio, fermandosi subito prima di colpire, a un pollice dalla testa del fratello. Poi gettò via lo sgabello e si rialzò, accennando a un riso stentato: aveva fatto vedere a quello sprovveduto che era in grado di fregarlo di nuovo, e tanto bastava.

«Hai ragione, è contro le ingerenze di quell’impiccione che dovremmo coalizzarci» ammise, parlando con voce roca mentre si palpava il collo offeso.

«Sì. Ma allora chi ha ucciso la nonna?» domandò Quinto, fosco in volto.

«Chi dice che sia stata uccisa, se non uno squilibrato maniaco di delitti che va cianciando di spettri e demoni, di chiodi ed empuse, al solo scopo di portarsi a letto tua moglie?»

«E Pilunno, e Picunno?»

«I cacciatori di frodo sono parecchi, nei boschi qui attorno. A meno che naturalmente non sia stata un’empusa!» minimizzò l’altro, cercando invano di ironizzare.

«Che ne sai tu, di quei mostri?»

«In Mesia alcune donnette impressionabili le temono, e qualche popolano persino a Roma. Ma non credo proprio che dovremmo preoccuparcene: siamo un po’ maturi per i gusti di un’empusa: li preferiscono più giovani!»

«Dietro certe leggende a volte si celano orribili realtà» ribatté Quinto, sempre più tetro.

«Non sei solo, fratello, siamo in due» disse Lucio mettendogli la mano sulla spalla. Un gesto inusitato, un segno di pace. L’altro ci mise sopra la sua e restarono un istante così, come mai erano stati in vita loro. Fu singolare che proprio in quel momento di ritrovata intimità Quinto pensasse alla sua affascinante sposa e che l’immagine di Sofia gli si nebulizzasse all’improvviso nella memoria per trasformarsi prima in quella della nonna, poi in quella di una donna ancora più vecchia, ancora più scura, l’infernale Ecate dal viso lugubre e aguzzo come quello di una cagna nera...

Vedendo il padre che si dirigeva di nuovo alla porta, Furillo scattò all’indietro, affrettandosi a cercare un nascondiglio. Non dietro alla colonna, troppo sottile, ragionò ricordando i suggerimenti del senatore. Alle spalle dell’arca, quello era il posto giusto, ma doveva stare attento a non lasciare tracce, perché le lacrime gli scendevano dalle gote come ruscelli durante il disgelo e il naso gli colava come a un moccioso qualsiasi, benché lui fosse il pronipote dell’Avvoltoio. Quella volta però aveva udito più di quanto era possibile sopportare e si sentiva come se il mondo gli fosse crollato addosso, pensò mentre si raggomitolava per singhiozzare a lungo senza essere sentito. Doveva sciogliere fino in fondo tutte le sue lacrime di bambino, e dopo sarebbe cresciuto, avrebbe finalmente fatto vedere quanto valeva, e fino a che punto arrivava la sua lealtà.

Pianse, rannicchiato su se stesso, nella muta invocazione del rondinotto che attende invano un becco generoso di insetti. Pianse, avviluppandosi da solo le ginocchia con le braccia, giacché nessuno lo abbracciava mai, né lui lo avrebbe mai permesso. Pianse, assumendo senza accorgersene la posizione del feto protetto dall’utero, prima dell’espulsione e del rifiuto.

Quando smise, aveva gli occhi gonfi e secchi, tuttavia sfogandosi aveva avuto il tempo per pensare. Il senatore era andato nella cella nivaria e quasi ci aveva rimesso la pelle. Ma anche qualcun altro ci era andato, nei giorni precedenti la morte della nonna, qualcuno che si solito non ci metteva mai piede, infatti non l’aveva mai visto laggiù, nelle sue tante escursioni in cantina. Dunque c’era qualcosa sotto, senza dubbio un segreto. Toccava a lui adesso dimostrare che un ragazzo in gamba era più degno di fiducia di tanti adulti.

Ora, subito: la decisione era presa, si disse Furillo raccogliendo tutto il suo coraggio per bussare a una porta.

Camminandogli accanto, il ragazzino si sentiva leggero. Aveva vuotato il sacco, si era liberato del segreto della cantina, affidandolo ad altre mani: una responsabilità finalmente condivisa, il suo biglietto di ingresso per un mondo di potere, di finzioni e di cose gravi che pesavano, ma anche di sicurezze a cui aggrapparsi, di protezione, di conforto. Una resa, tutto sommato, perché fare i tosti e i ribelli alla lunga era molto faticoso, una lode ogni tanto invece riempiva il cuore e ci si poteva anche risolvere a obbedire, camminando insieme, come un bambino qualunque, che non è obbligato a tenersi sul volto una maschera ingrugnita, un bambino che può sorridere, scherzare e giocare, che può delegare le decisioni importanti a un adulto su cui è in grado di contare.

«Il senatore ti cercherà di nuovo» disse l’altro in tono tutt’altro che tranquillo. «Che ti ha chiesto, esattamente?»

«Che cosa avevo notato in cantina. Ma io non gli ho risposto.»

Povero stupido ingenuo!, rifletteva corrucciato il suo accompagnatore. Publio Aurelio, da vecchio volpone, se l’era rigirato come un guanto, il ragazzino, dandogli confidenza, fingendo di abbassarsi al suo livello, compiacendolo con astuti elogi per estorcergli le informazioni chi gli servivano. E prima o poi sarebbe riuscito nel suo intento, Furillo non ce l’avrebbe fatta a tenere la bocca chiusa davanti a un interrogatorio serrato.

Proseguirono in silenzio, l’uomo e il bambino, fianco a fianco.

«Stiamo andando al salto d’acqua?» chiese Furillo, urlando per farsi sentire sul rombo potente della cascata. Non se la sentiva più di fingere coraggio, i patti erano chiari adesso, non doveva più dimostrare niente a nessuno. L’altro era scuro in volto: si studia, si prepara, si sistema tutto quanto alla perfezione correndo rischi immani, pensava, ed ecco che un piccolo impiccione, nascosto nel buio per fare uno scherzo idiota, manda in malora ogni dettagliatissimo progetto... Tuttavia il tono era calmo e fermo quando assicurò, mettendo una mano sulla spalla al ragazzo: «Non aver paura: ci sono qua io!».

Furillo però era sulle spine, lo stomaco chiuso in una fredda morsa di inquietudine. Da solo o in compagnia, non amava quel posto, tanto gradito alla nonna, che lo considerava la culla della famiglia. C’era stato una sola volta prima di allora, perché la tenuta era considerata poco adatta a villeggiare e molto invece a produrre, quindi soltanto i locali addetti a frantoio e a magazzino avevano conosciuto cospicui restauri, mentre la zona padronale era rimasta tetra e scomoda come quando vi erano nati il padre e il nonno dell’Avvoltoio e della teta. Eppure, tutti erano partiti senza protestare non appena udito il racconto dell’incidente occorso al senatore, come se quel luogo sinistro tra balzi e cateratte costituisse l’unico rifugio sicuro per fronteggiare una tempesta incombente. E poi, dopo il litigio furibondo di padre e zio, era giunto l’invito a quella strana, inconsueta passeggiata...

«La cascata è molto vicina» mormorò, sebbene fosse certo che il frastuono avrebbe coperto la sua voce. L’abisso, fosse stato creato dalle mani di un Nume, dalla possente natura o semplicemente da un abile ingegnere romano, gli faceva molta paura. E adesso, dopo avere origliato a dovere, sapeva che anche gli adulti provano paura, anche gli eroi, o coloro che cercano di farsi credere tali...

«Sei venuto, i Numi siano ringraziati!» esclamò Sofia precipitandosi tra le braccia di Aurelio.

Il senatore non aveva trovato guardie né cani sul suo cammino, e lei gli era andata incontro fiduciosa, quasi fosse stata sempre assolutamente sicura che la sua accorata richiesta sarebbe stata accolta all’istante.

«Mio marito e mio cognato non so dove siano. Anche i ragazzi mancano da casa, li ho cercati ovunque: sta per succedere qualcosa di tremendo, lo sento!» disse concitata.

«Dov’è Lavina?» tagliò corto il senatore.

«Nel suo cubicolo, suppongo.»

«Tu hai la chiave?»

«Certo: sono la moglie del pater familias, ho il dovere di custodirle tutte.»

«Dammela!»

«Ma ti ho detto che Quinto e Lucio... va’ a cercarli, ti prego, ho un brutto presentimento!» scongiurò lei con la voce tremante.

«La chiave!» ripeté il senatore in tono imperioso. Lei aprì il coperchio di una piccola arca decorata e ne trasse un grosso mazzo.

«Eccola, è qui in mezzo. Ma che vuoi fare? Non c’è tempo...»

«Accompagnami nell’alloggio di tua cugina» ordinò il patrizio.

Dopo aver percorso un colonnato scoperto su cui si aprivano diversi cubicoli destinati alle ancelle, si trovarono davanti a un usciolo di legno, non molto diverso per stile e dimensioni da tutti gli altri: lì doveva essere cresciuta la parente povera, relegata in quel remoto fondo di campagna, tollerata a stento, poco più di una serva...

Dalla stanzetta provenivano suoni smorzati, segno di una presenza dietro i battenti. Rapido, Aurelio fece scattare la serratura, chiudendo la porta dall’esterno e intascandosi la chiave.

«Ci sono finestre?» chiese.

«No, ma perché mai...» scosse la testa Sofia, protestando debolmente.

«Per sicurezza. Ti spiegherò dopo. Adesso dimmi dove si sono diretti tuo marito e tuo cognato.»

«Non lo so, ma hanno litigato di brutto, li ho sentiti gridare. E i ragazzi sono introvabili. Dove sono, per tutti i Numi, dove sono? È quasi sera, il salto del Velino non è lontano: il fiume si getta nella Nera soltanto a un miglio di distanza, è pericoloso aggirarsi qui attorno al buio!»

«Vado a cercarli. Probabilmente si trovano tutti assieme al sicuro, a sbrigare qualche faccenda di cui tu non sei al corrente» annunciò il patrizio, ostentando una tranquillità che era ben lungi dal provare.

Lei gli si abbarbicò addosso, i muscoli irrigiditi, le mani ad artiglio, il viso distrutto dall’ansia: «Salva i miei figli, Aurelio, sono in pericolo, me lo dice il cuore! Li ho messi al mondo, non posso pensare di perderli, sono la mia vita: salvali a qualunque costo!».

Senza rispondere, Aurelio se la staccò di dosso e corse fuori.

Quinto il giovane era scivolato dietro alle due figure e si era messo a seguirle a debita distanza, stupendosi del proprio ardire. Non era previsto che cacciasse il naso negli affari altrui, che interferisse, che prendesse decisioni autonome. Tuttavia continuava a tallonarli, confidando nel fragore assordante per coprire i suoi passi di inesperto pedinatore. Dove stavano andando a quell’ora? Di quale piano segreto erano partecipi, e ai danni di chi? Perché lui ne era stato tenuto fuori?

All’improvviso si sentì cogliere da una vaga, fastidiosa inquietudine, che presto si mutò in qualcosa di peggio. Il sole era appena tramontato e le ombre della sera parevano ancora più fosche nella caligine umida, simili quasi a larve di defunti uscite dai loro freddi sepolcri. Ogni frasca, ogni cespuglio, ogni arbusto pareva assumere, in quel nebbioso crepuscolo, le fattezze temibili di qualche mostro infernale, spettri, lamie, empuse, ecati tricipiti, cagne nere. Il ragazzo tremò. Il profilo della casa si vedeva ancora, laggiù dietro alle vigne, bastava voltarsi e correre a perdifiato per raggiungerla di nuovo e trovare conforto tra le braccia amorevoli della madre: dietro di lui il nido lo reclamava a viva voce, non aveva che da tornare indietro.

E invece no, sarebbe rimasto sordo al richiamo tentatore, voleva proseguire, si disse. Ma, quando fece per avanzare ancora, si accorse di avere le membra intorpidite: paralizzate dal panico, le gambe sembravano non appartenergli più, mere appendici estranee che rifiutavano di muoversi, comandate da una forza opposta alla sua volontà. Madido di sudore, riuscì faticosamente a procedere di alcuni passi, che gli costarono uno sforzo penoso, quasi i piedi pesassero centinaia e centinaia di libbre. Si fermò affranto. Furillo aveva ragione, ammise gemendo. Era un codardo, un vigliacco, un pusillanime, un cagasotto.

Fu allora che la vide: nella penombra ormai incerta, la bassa barriera di rovi si stagliava nitida dinnanzi a lui. La siepe. La SUA siepe. E al di là, tutto ciò che era sempre stato occluso al suo sguardo, l’ignoto, l’azzardo, gli spazi infiniti.

Se non poteva camminare, allora avrebbe saltato, decise, raccogliendo tutte le forze che non credeva di avere per gettarsi in avanti.

Aurelio correva a perdifiato, conscio che la sua scarsa conoscenza del terreno giocava decisamente a suo sfavore. Non sapeva quale direzione avessero preso i due – perché due e solo due dovevano essere – né in quale punto della cascata lo avrebbe condotto il cammino imboccato: giunto al bivio, tra i sentieri malamente tracciati aveva scelto quello più in alto, mettendo in conto che scendere sarebbe stato comunque più agevole che arrampicarsi. Non vide quindi la figura indistinta che era sbucata dal bosco al limitare delle vigne e si dirigeva come lui lungo il viottolo sottostante verso la cascata, come lui verso una mente sconvolta che forse aveva concepito il più orrendo dei piani.

Arrivato in prossimità della cateratta, Aurelio scorse la coppia sotto di lui. La mano dell’uomo sulla spalla del bambino, in un gesto quasi d’amore, lo stesso con cui Agamennone aveva esortato Ifigenia a salire sull’ara e il patriarca dei giudei aveva chiesto al figlio di accompagnarlo sulla montagna per officiare il rito. Ma non c’erano Numi potenti a richiedere il sacrificio, adesso, né un Fato inesorabile, né Ananke la Necessità, che a tutto provvede per scopi che ai mortali non è dato di conoscere. C’era soltanto l’egoismo di un assassino determinato a un gesto mostruoso, nella speranza di coprire i suoi misfatti.

L’avrebbe fatto davvero? Sarebbe arrivato a tanto? Aurelio stava chiedendoselo quando, per uno di quei bizzarri fenomeni che indirizzano i suoni in strani canali, udì alcuni spezzoni di frasi dal costone sotto di lui e, afferrato il ramo sporgente di un cespuglio, cominciò a calarsi.

Salto del Velino, nei dintorni di Interamna

Il salto d’acqua ruggiva come una belva prigioniera che, scoperto un insperato passaggio tra le sbarre della sua gabbia, vi si incunea e vi si schiaccia con forza disperata, per erompere poi all’aperto, libera ormai da ogni freno.

Quinto il giovane era giunto trafelato sul bordo del salto, fradicio di spruzzi e incredulo: li aveva persi di vista per qualche istante, e ora, nella cateratta, era troppo buio per scorgerli. Ma che ci faceva uno come lui su quelle rocce scivolose, a un passo dallo strapiombo? Dov’erano i suoi amati libri? Dov’era sua madre? Quale assurdo impulso l’aveva condotto in quel luogo terrificante? Quale pungolo insensato lo spingeva a guardare ancora e ancora in mezzo ai rami contorti, agli scogli aguzzi, ai fiotti potenti che spumeggiavano tra le rocce?

E a un tratto li vide di nuovo. Erano là, a pochi passi da lui, divisi dall’orrido in cui sobbollivano con violenza immane le acque selvagge.

«Furillo!» invocò.

Il grido si perse nel frastuono, ma il magro profilo esposto non sfuggì allo sguardo dell’uomo che teneva stretto il bambino per il braccio, forse a sorreggerlo, forse a precipitarlo nella forra spietata.

«Che ti salta in mente? Vattene!» fu l’ordine imperioso, misto di panico e stupore.

«Voglio mio fratello!» esclamò Quinto il giovane.

Possibile che fosse tutto perduto, pensò l’uomo furioso, soltanto a causa dell’insana curiosità di un moccioso avvezzo a spiare? Possibile che il suo piano venisse spazzato via da un bambinetto ribelle e cocciuto, pronto a farsi bello salvando chi doveva morire, disfacendo la tela accuratamente tessuta, tramando come Penelope contro i Proci? E adesso, contro ogni previsione, ecco spuntare un altro testimone. Un testimone di cui però avrebbe fatto presto a liberarsi, rifletté, e che alla fine dei conti poteva persino rivelarsi prezioso...

«Furillo si è cacciato in un guaio, sto prestandogli aiuto, vai a chiamare gente, presto» comandò sbrigativo.

Ma Quinto il giovane non si muoveva.

«Torna subito indietro e mandami qualcuno in soccorso!»

«Voglio mio fratello!» ripeté l’altro, ostinato, senza arretrare.

Aurelio li ascoltava, precariamente aggrappato a un fragile ramo, una sola mano libera, i piedi appoggiati con le punte sulla sottilissima cengia. Non c’erano più arbusti a cui aggrapparsi, bisognava saltare sulla roccia bagnata e sdrucciolevole, sempre sperando che, in un gesto di estrema follia, il pazzo non si gettasse sotto col bambino, per portarlo con sé nel buio degli Inferi.

Furillo intanto aveva allungato la mano verso il fratello, ma la cornice rocciosa dalla quale si protendeva Quinto il giovane era troppo lontana e il suo braccio troppo poco robusto perché i due riuscissero a raggiungersi.

«Levati, lascia fare a me, tu non reggeresti il peso!» disse una voce maschia, e una figura alta e vigorosa comparve al fianco del ragazzo, spingendolo indietro per poi sporgersi pericolosamente sull’abisso.

Ma l’assassino era forte, deciso e, soprattutto, disperato. Quel provvido salvatore fortunosamente appeso alla cornice non ce l’avrebbe mai fatta a sottrargli la preda. A meno che non fosse stato distratto da un evento inaspettato, o un intruso si fosse fiondato alle sue spalle sul breve sperone di roccia...

Ora o mai più, si disse Aurelio. Spiccò il salto nello stesso istante in cui la mano dell’adulto riusciva infine ad afferrare quella del bambino.

Un balzo, tuttavia, per quanto agile, non prevedeva come appropriato terreno di atterraggio una minuscola terrazza pianeggiante circondata da ripide pareti a picco sull’abisso: troppo bravi gli ingegneri romani a tagliare la montagna, troppo esatta la fenditura, troppo precisa la verticalità, e soprattutto troppo umida la roccia, si disse il senatore sperando che la Dea Fortuna gli impedisse di scivolare rovinosamente nel vortice, coronando con un tuffo nel precipizio un gesto eroico quanto fallimentare.

«Buttati, Furillo, ti tengo!» gridò la voce dalla sporgenza della riva, nel momento in cui l’assassino volgeva lo sguardo verso il senatore che incespicava cercando di rimettersi in piedi sull’erta sdrucciolevole.

Il bambino esitò, incerto tra il sospetto verso chi gli aveva afferrato il polso e il coraggio che gli scorreva potente nelle vene: fidarsi, stavolta, significava giocarsi la vita. Un attimo dopo saltava nel vuoto.

«A noi due, Quinto Babrio!» disse Aurelio torreggiando sul padre indegno come un Nume vendicatore.

«Forza, aiutati coi piedi» raccomandava Lucio al bambino scalciante. Per quanto si possa essere intrepidi, quando si hanno solo dodici anni e si penzola nel vuoto su una cascata ruggente – il fragore cupo del salto d’acqua, le dita che non ce la fanno ad ancorarsi sulla roccia viscida, la presa poco sicura di un solo polso come unico presidio tra la vita e la morte – non è certo disonorevole cedere allo sconforto. Furillo stava per farlo, quando le dita del fratello tornato sul bordo della cresta riuscirono per un breve istante ad artigliargli la tunica. Era poco, pochissimo, ma abbastanza da restituire la speranza a un animo indomito: il bambino respinse la tentazione di arrendersi e rinnovò i suoi sforzi. Così, la seconda volta che la mano fraterna arpionò il tessuto, arrivò ad assecondarla, mentre Lucio, tendendosi ancor di più nel vuoto, con una fatica sovrumana riusciva a strapparlo alla corrente e tirarlo fino a mezza cintola sulla cengia.

«Ce la fai, ce la fai!» gridò Quinto il giovane e, moltiplicando le sue scarse energie, cominciò a tirare con forza la stoffa a cui restava testardamente avvinghiato. Nel momento in cui il tessuto si lacerò, Lucio aveva già trascinato una gamba del nipote sulla sporgenza. Il resto lo fece Furillo stesso, spingendosi in avanti, gonfio di un’insostenibile felicità nel sentire i sassi taglienti che gli laceravano la carne: non più acqua, ma pietre, terra, vita.

Quinto il giovane guardò giù verso lo scoglio sul quale suo padre e il senatore stavano lottando: il suo universo, i suoi affetti, le sue sicurezze stavano sgretolandosi, si facevano polvere e lui avvertiva un dolore sordo, quasi insopportabile, un’oppressione greve al petto, là dove stava il cuore.

Ma suo fratello era vivo e la siepe era rimasta alle sue spalle, capì all’improvviso, e seppe che, con un parto dolorosissimo e straziante, per lui stava nascendo un nuovo mondo.

«Tu, maledetto!» gridò Quinto sguainando un pugnale, la voce quasi coperta dal rombo dell’onda possente che risuonava nell’abisso. «Ti ho aperto la mia casa e tu mi hai lusingato col tuo interesse per congiurare alle mie spalle, cercando di incastrarmi, di sedurmi la moglie, di accollarmi un delitto.»

«Un delitto che hai commesso davvero. Hai ucciso tua nonna, Quinto, come lei aveva ucciso l’Avvoltoio. Ma sei poco avvezzo a simili imprese: non sei riuscito a seppellirmi nella grotta e hai commesso l’errore di non finirmi, giù nella ghiacciaia.»

«Sarebbe andato tutto bene, senza il bamboccio. Ha rovinato tutto, ma se non posso portare lui con me negli Inferi, porterò almeno te.»

Aurelio sentì il sangue andargli alla testa. «Furillo è tuo figlio, si è fidato: hai commesso il più turpe dei tradimenti verso il tuo stesso sangue.»

«Non è mio figlio! Non so con chi l’abbia concepito la sgualdrina, forse con l’Avvoltoio: ha la sua stessa faccia, è laido e feroce come lui!»

Sta vaneggiando, pensò Aurelio. Non era possibile che Furillo fosse il figlio dell’Avvoltoio, quest’ultimo era morto da un bel pezzo alla sua nascita.

Ma Quinto era ormai incapace di ragionare, il rancore sopito per troppi anni sotto una maschera di accorta bonarietà gli eruttava fuori in una vampata di odio indiscriminato che comprendeva tutto e tutti: Aurelio, Velthur, Fastia, Lucio, Sofia, Furillo e forse anche il prediletto primogenito che aveva resistito impavido sullo spuntone di roccia, reclamando a viva voce il fratello, anziché obbedirgli come sempre.

Esistono due tipi di uomini miti, quelli che non desiderano far male agli altri e quelli che invece non osano farlo per timore delle conseguenze. Quinto apparteneva ai secondi e ora, davanti alla palese rovina dei suoi piani, l’imbelle, il prudente, il calcolatore si trasformava, grazie alla collera incontenibile, in una tragica figura bellicosa dal destino fatale.

Ritto sul costone, nella caligine nebbiosa alzata dalle cateratte, il secondogenito dei Babri pareva infatti emergere dalla porta dell’Oltretomba, evocato dal sacrificio di un capro nero, come gli Dei ricchi e protervi dell’Ade, che, relegati nel cupo Erebo, si affannavano rabbiosi nel loro mondo senza luce, gloriandosi stizzosamente delle anime morte su cui regnavano: larve con gli occhi asciutti, ombre impalpabili, meri simulacri dei vivi, fosche schiere vaganti dal gelido Acheronte ai Campi del Pianto, mille volte più fitte dei sudditi dei solari Olimpici, giacché tutti i mortali dovevano prima o poi chinare la testa davanti al nero Thanatos dal cuore di ferro. E il baratro che si apriva sotto quell’inedito Quinto, là dove precipitavano le acque ruggenti, sembrava profondo come il Tartaro, in cui si narra che un’incudine potrebbe sprofondare per nove giorni, prima di giungere al suolo.

Di fronte a lui, pugnale verso pugnale, Aurelio lottava contro la furia dell’acqua, più che contro la foga dell’avversario, risoluto ad afferrarlo per gettarsi con lui nel precipizio.

«Dovrebbe esserci Lucio, qui. Così avremmo dovuto morire noi due: l’uno per mano dell’altro, senza vinti né vincitori, odiandoci fino alla fine. Anche lui mi è sfuggito, ma tu ne farai le veci. Ti sei salvato dal crollo della caverna, non ti salverai dal precipizio!» urlò Quinto gettandosi in avanti verso il senatore, nel tentativo di avvinghiarlo alle gambe.

Con un balzo Aurelio si buttò a terra e si afferrò a un lastrone sporgente per non sdrucciolare via dal masso scivolosissimo battuto dai fiotti violenti.

Quinto pareva ora invaso da una frenesia folle. All’inizio, temendosi declassato nel testamento allo stesso ruolo del fratello prodigo e dimentico, aveva ucciso Fastia per convenienza. Se non lo si poteva giustificare, era almeno possibile comprenderne le motivazioni egoistiche. Quel delitto iniziale gli era senza dubbio costato molto: chi la prima volta si prende una vita altrui, deve far violenza su se stesso per andare fino in fondo. Ma più si uccide, più diventa facile farlo: così gli assassini prezzolati, i sicari, i gladiatori nell’arena, gli stessi legionari al fronte. Anche Aurelio aveva ucciso, molte volte e non solo in guerra, ma non accettava di abituarsi: spegnere una vita non sarebbe mai diventato ai suoi occhi un gesto consueto e irrisorio. A Quinto invece, una volta aperta una falla nella diga dei timori e delle remore con l’omicidio di Fastia, era sembrato un nonnulla scagliare da lontano due frecce letali su Picunno e Pilunno, semplici schiavi, rei soltanto, con la loro presenza accanto alla grotta, di avergli suscitato un modesto sospetto. Meno semplice, tuttavia, si era rivelato fermare l’intruso, seppellendolo nella grotta o colpendolo alla nuca mentre si apprestava a raccogliere le prove del suo primo delitto: il senatore non era una vecchia ammalata, né uno schiavo inerme, ma un uomo pericolosamente capace di reagire, al quale non aveva osato nemmeno avvicinarsi per essere sicuro di aver completato il lavoro, preferendo invece rinchiuderlo in una trappola micidiale, in modo da impedirgli comunque di sopravvivere. Non era riuscito nel suo intento, e quando se ne era reso conto, la marea gli era montata dentro irrefrenabile, fino a spingerlo a concepire il più tremendo di tutti i crimini, quello contro il bambino inerme che si era messo nelle sue mani. Adesso, vistosi perduto, non gli importava di morire, pur di guadagnare una vita in più, quella del nemico a cui attribuiva il suo fallimento. La sua lama calò dunque verso il petto dell’avversario atterrato, che con uno scatto repentino gli si sottrasse, parandosi con l’avambraccio.

Il fiotto di sangue misto ad acqua lo accecò per un istante, ma era di nuovo pronto quando Aurelio lo trafisse a sua volta, mirando al punto ferale in cui la coscia si innesta nell’inguine. Un guizzo e Quinto slittò indietro di pochi pollici, quanto bastava per uscirne ferito sì, ma non mortalmente.

Il senatore si rimise in piedi di scatto, in precario equilibrio sul vuoto. Dalla gola di Quinto gorgogliò un rauco grido di vittoria: lo teneva in pugno, bastava una spinta per farlo cadere, pensò slanciandosi verso di lui.

Ma là dove era stato fino all’istante prima Aurelio, il corpo proteso dell’assalitore incontrò il vuoto, mentre il patrizio ricadeva sulla roccia sottostante, fiero di un salto agilissimo che, se non era stato il più alto della sua vita, certamente poteva considerarsi il più proficuo.

L’impeto di Quinto, non più frenato da ostacoli di sorta, si rilevò eccessivo, come Aurelio aveva sperato e calcolato. Il padre degenere oscillò per un attimo ai bordi del baratro con uno sguardo di infinito stupore negli occhi. Poi cadde a capofitto. Il rombo della cascata ne coprì l’urlo, mentre precipitava a sfracellarsi in fondo alla voragine.

Villa rustica dei Velthinii Fasti, nei dintorni di Interamna

Sofia si era stretta tra le braccia un recalcitrante Furillo e poi, con molto più trasporto, Quinto il giovane, che aveva risposto tuttavia in modo più contegnoso del solito, sottraendosi alle eccessive smancerie. Poteva una madre amare in modo tanto diverso i due esseri umani a cui aveva dato vita?, si chiese Aurelio. Sì, forse non era giusto, ma era possibile: tutta la dedizione, tutte le cure della donna erano sempre state rivolte al primogenito. Ora però, dopo essere stata sul punto di perderlo, pareva guardare il figlio minore con occhi nuovi, timidamente, come a domandarsi se fosse ancora in tempo per intrecciare con quel bambino quasi sconosciuto un rapporto attento, rispettoso almeno, se non propriamente materno.

Tra i due ragazzi invece si era creata una nuova, palpabile solidarietà, che affondava le sue radici in quella frase decisa, perentoria, pronunciata dal giovane Quinto sulla cascata, mentre allungava la mano verso Furillo: “Voglio mio fratello!”.

Si ritirarono assieme, mesti, muti, sconcertati, come si addice a figli che hanno visto morire il padre dopo averlo scoperto nemico, in un breve attimo capace però di pesare su tutta la vita.

Nonostante apparisse distrutta – occhi rossi, capelli scarmigliati, bocca atteggiata in una piega amara –, Sofia riusciva tuttavia a emanare fascino da tutti i pori, non già un’aura eterea e intoccabile, bensì una grazia luminosa e splendidamente carnale.

«Ha tentato di ammazzare nostro figlio!» esclamò tremando tutta. «Diciotto anni insieme e non ho capito niente! Pareva il migliore degli sposi, mi sentivo sempre terribilmente in colpa di non amarlo; persuasa che agisse per il bene dei ragazzi, lo reputavo un buon padre, severo ma giusto.»

Quinto invece era stato debole con i forti e forte con i deboli, rifletté il senatore. E i deboli erano due giovani, uno dei quali si era prestato ad annullare totalmente la sua personalità per farsi forgiare dal volere paterno, l’altro invece aveva cominciato anzitempo a rivoltarsi, sempre però intimamente desideroso di trovare un piccolo posto nel cuore dell’uomo che lo aveva generato. Un desiderio che gli era quasi costato la vita, quando, recatosi dal padre a rassicurarlo, garantendogli che il suo segreto era al sicuro, ne aveva avuto in cambio sospetto, odio e inganno.

«Tu pensi che quando si è diretto alla cascata avesse già l’intenzione di gettare di sotto Furillo?» chiese Sofia con un filo di voce.

«Nessuno saprà mai che cosa passava per la testa di tuo marito, in quel momento» svicolò il senatore. Certo, era possibile che Quinto avesse già deciso di liberarsi dell’ultimo testimone – il bambinetto troppo curioso che credeva spurio – così come già aveva fatto con Picunno e Pilunno e aveva tentato di fare con lui. Ma era anche possibile che fosse stato preso dal panico nell’istante in cui aveva visto vanificarsi un piano delittuoso ambiziosamente e goffamente preparato, e soltanto allora avesse concepito l’idea di portare con sé nelle tenebre dell’Orco l’ultimo responsabile della sua rovina.

«Furillo era veramente suo figlio?» chiese Aurelio dubbioso.

«Certo che lo era. Ma forse preferiva pensarlo come un frutto spurio, piuttosto che riconoscere in lui lo specchio di Fastia e del suo tremendo fratello, l’Avvoltoio. Lui li odiava entrambi: ha sempre obbedito alla nonna soltanto perché, avendone un’enorme paura, era incapace di contrastare il suo ferreo dominio. Forse anche Furillo, pur essendo un bambino, a suo modo lo intimoriva, rifiutando di riconoscere la sua autorità. E io lo giustificavo, pensavo che volesse semplicemente raddrizzarlo. Mai e poi mai avrei creduto che potesse pensare di ucciderlo!»

Eppure Sofia doveva averci pensato, nell’atto di scrivere il messaggio di aiuto, magari anche soltanto come ipotesi molto improbabile, si disse Aurelio.

«Descrivi un uomo privo di nerbo, attanagliato da mille timori. Il coraggio di ammazzare Fastia, però, l’ha trovato» le obiettò.

«Che dici? La teta è morta di morte naturale» scolorò la bella, guardando il patrizio con infinito stupore.

«Niente affatto: probabilmente Quinto l’ha soffocata.»

«Ma si è spenta mentre lui era con me a casa di mio padre!»

«Infatti ha badato bene di trovarsi altrove, con due persone a confermare il suo alibi, quella notte. Però non è allora che Fastia Velthinia ha raggiunto la barca di Caronte: era stata ammazzata qualche giorno prima; il suo cadavere, nascosto in cantina tra il ghiaccio della cella nivaria, venne riportato poi nella sua stanza al vostro rientro.»

«Tu vaneggi!» gridò la donna, sconvolta.

«Il talismano dell’Avvoltoio, quello a forma di sirena che Fastia portava nella crocchia di capelli, è stato ritrovato laggiù» continuò sicuro il patrizio. «E dalla ghiacciaia stessa Furillo ha visto uscire il padre che ci aveva appena portato il corpo, diventando così un testimone scomodo.»

«Perché mai mio marito avrebbe fatto una cosa simile?»

«Per cercare e distruggere l’ultimo testamento, quello in cui la nonna nominava eredi a pari grado entrambi i nipoti, naturalmente. Gli ci è voluto un bel po’ per scovarlo, ma alla fine dev’esserci riuscito, visto che a riacquistare validità sono state le volontà precedenti della vecchia.»

«Quello che sostieni è assolutamente impensabile...» balbettò Sofia.

«Si tratta invece di un ottimo movente: Fastia era stata sommamente ingiusta, e a tale inconveniente tuo marito voleva porre rimedio. Deve averla udita assicurare al fratello di aver firmato un documento a suo favore – ecco perché Lucio si era fatto tante illusioni – e magari gliene ha chiesto ragione, perdendo poi la testa. Oppure, da individuo accorto e codardo qual era, ha concepito freddamente il delitto: davanti a una vittima fragile e malata, un cuscino sul viso sarebbe bastato. Ma Fastia aveva ben nascosto il nuovo testamento, forse in un ripostiglio segreto, forse dietro a uno dei pannelli di bronzo che rivestivano la sua stanza, in attesa di spedirlo alle Vergini Vestali perché sostituisse il primo. Per frugare ogni angolo, tuttavia, c’era bisogno di tempo. Così tuo marito ha preso il corpo e l’ha portato nella cella nivaria, in modo da conservarlo. Non poteva prevedere che, uscendo, sarebbe stato scorto dal figlio minore, sceso in cantina allo scopo di terrorizzare l’impressionabile fratello con rumori agghiaccianti mediante una delle lastre rimaste dal decoro di bronzo...»

«Sei certo di ciò che dici?» chiese lei, terrea.

«Sì. Quinto però agì in modo piuttosto maldestro: l’omicidio è un’arte per la quale non possedeva troppo talento. Picunno e Pilunno rinvennero infatti sul pavimento del corridoio la chiave della cantina che aveva perduto mentre riportava il corpo nella stanza da letto, dopo essere rientrato assieme a te dalla casa di tuo padre. Senza contare che nella fretta di farne sparire le vesti necessariamente bagnate dalla neve, le gettò in mezzo alla biancheria diretta alla fullonica, dove vennero notate dai due servi. Tuttavia non fu questo a sancire la condanna dei gemelli, bensì il fatto che, ritenendo ingenuamente la vecchia chiave utile ad aprire la cassa di un fantomatico tesoro, si fecero trovare nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Dimmi: non è forse vero che il tuo marito rimase per più di un giorno assente da Roma?»

«Mi disse che andava a Praeneste, a controllare certi crediti...» ammise Sofia.

«Invece stava tentando di seppellirmi nella grotta dove l’Avvoltoio si era nascosto col bottino e dove Fastia l’aveva ucciso tanti anni prima, quando si era fatta accompagnare sul posto dai suoi giovanissimi schiavi.»

«Un altro delitto? Numi, mi sembra di impazzire» disse Sofia in un soffio, oscillando come se stesse per mancare.

Aurelio fu lesto a sorreggerla, fornendole il conforto del suo solido braccio, mentre proseguiva: «Quinto era un assassino, nipote a sua volta di un’assassina e in un certo modo anche suo complice, visto che doveva avere intuito come la nonna si era procurata il denaro per riscattare le varie proprietà e metterle di nuovo a frutto. Tanto più che il tesoro dell’Avvoltoio, trafugato con l’inganno a semplici barbari, non poteva consistere in monete romane, ma in gemme, oro e preziosi che andavano venduti... e non fu Fastia a farlo, se non forse nei primi tempi.»

«È tutto troppo assurdo, troppo mostruoso» gemette Sofia con le lacrime agli occhi. «Come potrò dimenticare? Come riuscirò a togliermi di mente questa sequela di orrori?» singhiozzò poi appoggiandogli il capo sul petto.

Sentore di viola e giaggiolo, misto alla fragranza di pelle di donna pronta per l’amore, riconobbe Aurelio inalando a lungo: amava la levigata cedevolezza dei corpi femminili, il calore dei loro anfratti segreti, la linea morbida delle sinuosità seducenti, ma soprattutto ne amava l’odore animale, che gli giungeva penetrante alle nari al di là dei profumi e dei belletti, provocandogli violente sferzate di desiderio. E l’odore di Sofia lo stordiva, al pari della pressione delle carni soffici e della carezza lieve della chioma, che immaginava sfiorargli il petto nudo con uno stimolante formicolio...

«Fu il tuo virtuosissimo sposo a chiederti di sedurmi?» domandò sostenuto.

«Era roso dall’ambizione di spianare la carriera a Quinto il giovane e, all’inizio, desiderava soltanto che civettassi un po’ per entrare nella cerchia delle tue amicizie. In seguito, quando si accorse di come mi guardavi, e di come io guardavo te, pensò di approfittare della mia debolezza. Non mi chiese nulla esplicitamente, ma fece in modo che capissi di avere mano libera. Lui non avrebbe né visto né sentito, non mi avrebbe nemmeno rimproverato, era per il bene di nostro figlio...»

«È lusinghiero apprendere che una bella donna è disposta a sacrificarsi col venire a letto con te soltanto per perseguire un tanto nobile scopo» ironizzò il patrizio.

«Ma tu mi piacevi, mi piacevi moltissimo!» protesto Sofia. «E lui l’aveva capito. Volevo bene a Quinto, ma quando ti ho conosciuto è successo qualcosa che non avevo più provato da tanto tempo, da quando... da quando...»

«Da quando giacesti con Lucio prima che ti abbandonasse!» terminò il senatore

«Lo sai?» si stupì Sofia.

«Mi accontento di supporlo. Perché mai avresti nutrito tanto rancore per tuo cognato, se il matrimonio con lui per te fosse stato un semplice contratto? Lucio non ti era affatto indifferente, restava soltanto da scoprire se lo amavi o lo odiavi...»

In effetti lo odiava, e tanto a fondo che c’era da stupirsi che non avesse concepito una qualche forma di vendetta. Sofia però doveva essere abbastanza accorta da non esporsi per sfogare un semplice risentimento, ma soltanto per convenienza...

«Pur avendo già deciso di partire, non rinunciò a illudermi. È ovvio che gli serbi rancore! Tronfio, compiaciuto e intollerabilmente sicuro del suo fascino, da quando è tornato ha cominciato a girarmi attorno con l’esplicita intenzione di rinnovare i fasti della notte in cui distrusse le mie speranze per un mero capriccio. Stretta tra i due fratelli, credevo di essere ormai immune a certi richiami, ma non appena ti ho visto, ho saputo che stava per accadere l’inevitabile» disse levando il viso verso il patrizio in una timida ma pressante profferta.

Aurelio sospirò, mentre immaginava le sue labbra appena socchiuse nell’atto di frugargli avidamente il petto. Immaginò di stringere con mani contratte le natiche cedevoli, attendendo il tocco delle dita bianche sull’inguine, pregustando l’attimo in cui l’avrebbe udita gemere piano e rivoltata con forza per sottometterla, e si sarebbe abbattuto su di lei, e... Numi, si chiese, perché mai l’onestà doveva essere sempre così scomoda?

«Quinto era un debole, facile a farsi manipolare da una donna decisa, come Fastia per esempio» disse, sforzandosi di accantonare le fantasie.

«Lei era la teta, la nonna, la matriarca.»

«Ma tu eri sua moglie, la sua adorata moglie! Senza dubbio ti amava già quando eri fidanzata con Lucio: averti deve essere stato per lui il massimo degli incentivi a lavorare, a perseverare, a diventare potente e rispettato, perché tu non dovessi mai rimpiangere il suo fedifrago fratello. Avevi su di lui tutti i poteri, anche quello di spingerlo al delitto!»

«Io?» gridò Sofia indignata, mentre tentava inutilmente di sottrarsi al saldo abbraccio del senatore.

«Quinto non avrebbe potuto agire senza una complice. Lucio e i due ragazzi scorsero dalla soglia soltanto una forma sul letto, forse un semplice fagotto di cenci. Picunno, però, quando quell’ultima sera entrò a portarle la cena, vide una donna in carne e ossa, anche se soltanto di spalle. E non poteva trattarsi di Fastia, anche se aveva i capelli grigi, perché in quel momento era già morta. Dovevi essere tu, Sofia!»

«Perché non Lavinia, allora? Il vitalizio della nonna non ne ha fatto una donna ricca, ma l’ha resa libera. Non vedeva l’ora di andarsene da casa nostra!» ribatté Sofia irata.

«Perché, se fosse stata lei a recitare la parte di Fastia, avrebbe senza dubbio distrutto la parrucca, anziché conservarla nell’arca. Non è stata Lavinia a indossare il posticcio, per questo ho provveduto a chiuderla a chiave nella sua stanza, poco fa: intendevo metterla al sicuro, difenderla da quanto avresti potuto farle tu, mia bellissima! Il tuo livore nei suoi confronti ti ha tradita: hai evitato di attribuire colpe a Lucio soltanto perché volevi liberarti di tuo marito, divenuto ormai inaffidabile. Ma con Lavinia non hai saputo trattenerti: se qualcuno avesse per caso scoperto il meccanismo del delitto, la parrucca sarebbe servita a incriminarla. Io però l’ho esaminata, trovando un frammento di capello tra le maglie della reticella, troppo piccolo per determinarne il colore, certo, ma abbastanza da stabilirne la struttura con una lente adeguata. Non si trattava di un capello crespo, simile a quelli di Fastia, di Furillo e di Lavinia, ma dritto, come soltanto tu e Quinto il giovane ne esibite in famiglia. E poiché non è possibile che a interpretare il ruolo della nonna già morta sia stato il tuo primogenito, che era appena uscito dalla stanza, dovevi essere tu. Prevedevi che Lucio sarebbe rimasto sulla porta senza avvicinarsi, e comunque il tuo degno marito e complice sarebbe stato lesto a deviarne l’attenzione. Sei colpevole come lui, Sofia!»

«No, no! Per quale ragione allora ti avrei chiamato?»

«Quinto non riusciva più a reggere la parte – la vostra fuga repentina lo dimostra – e tu intendevi separare nettamente le sue responsabilità dalle sue. Lo sposo che quasi certamente tu stessa avevi indotto al delitto non era più necessario, anzi rischiava di diventare pericoloso, quindi meditavi di fare a meno di lui, o magari sostituirlo, raggirandomi a puntino. E forse avevi davvero intuito che il tuo figlio minore era in pericolo e, per quanto distratta, sei sempre una madre, Sofia. Soltanto quando hai visto salvi entrambi i tuoi rampolli, e hai capito che Quinto era scomparso nel salto del Velino, ti sei sentita veramente al sicuro. Non ti restava che cadermi tra le braccia, fragile, sconvolta, desiderabilissima. Ahimè, ti confesso che è stato duro, veramente duro, rinunciarvi» sospirò Aurelio tenendola stretta ancora un istante.

«Non hai prove, non hai nulla!» fece lei inviperita.

«Non saranno necessarie, nessuno ha intenzione di processarti. Tuo padre sa tutto, ed è l’unico. Da vedova quale sei, ti ritirerai nella sua casa a vivervi sobriamente, uscendo soltanto accompagnata e ricevendo di quando in quando – meglio se molto di rado – la visita dei tuoi figli, che resteranno all’oscuro di tutto, in modo che non siano gli innocenti a pagare le tue colpe. E non si sa mai che, senza il tuo fiato addosso, Quinto il giovane non abbia finalmente a crescere.»

«Lui ha bisogno di me!» esclamò Sofia in un singulto.

«No, sei tu ad aver bisogno di lui, come ne aveva bisogno tuo marito, per realizzare attraverso interposta persona le ambizioni, i disegni, i propositi e i progetti che aveva fallito nella sua esistenza. Ma tuo figlio non continuerà a giocare al bambino prodigio per consentirti di sentirti utile e amorevole, cercherà di camminare da solo e diventare uomo. Lontano da te, Sofia, inciampando penosamente e imparando a risollevarsi, forse ci riuscirà.»

La bella scuoteva la testa, decisa a negare ancora l’evidenza, quando il senatore se la strappò di dosso – con fatica, con molta fatica! – e prese la porta senza una parola di saluto.