Casa di Aurelio sul colle Viminale

«Domine, ho una brutta notizia» disse Castore svegliando il padrone. «Il pretore Muzio ha chiesto il divorzio da sua moglie, depositando contemporaneamente contro di te una denuncia per adulterio. Sai bene che cosa significa: esilio e confisca di una parte cospicua dei tuoi beni, tra cui questa stessa dimora. È ciò che accade quando, pur avendo a disposizione tutte le schiave, le liberte e le cortigiane di Roma, si va di soppiatto a intingere il pane nei piatti altrui! Ma già, le donne a cui si può accedere liberamente poco interessano al senatore Stazio, lui deve violare gli interdetti, assaggiare il gusto del proibito, correre dei rischi, mettersi nei guai con matrone sposatissime e sorvegliatissime, minimo la moglie di un pretore, meglio ancora quella del console in carica o addirittura una Vergine Vestale, è tanto più eccitante, vero?» sbottò il segretario, rammentando impietosamente ad Aurelio i suoi trascorsi. «E per queste tue piccole ubbie, adesso noi tutti rischiamo di essere cacciati da un momento all’altro da casa nostra!»

Il patrizio sorvolò su quel disinvolto “nostra”, dato che da lungo tempo aveva rinunciato a far capire ai suoi servi che il fatto di vivere con lui non li rendeva automaticamente comproprietari della domus sul Viminale.

«Calma, me la sono sempre cavata, non è la prima volta che qualche concittadino geloso mi accusa di frequentare illecitamente la sua affascinante consorte.»

«Sempre a ragione, peraltro. Ma c’è di più: Muzio ha scovato due testimoni che sostengono di averti visto all’Esquilino mentre lasciavi il padiglione degli Orti Tauriani, dal quale era uscita poco prima la moglie di Muzio. Indovina di chi si tratta? Sono i ben noti Porfirio e Calcedonio, i cui affari nella capitale stanno conoscendo un duro colpo da quando si è diffusa la notizia del valetudinarium

«D’accordo, d’accordo, ci penseremo dopo» alzò le spalle il senatore. «Adesso concentriamoci su quanto ho scoperto nella proprietà avita dei Velthinii Fasti.»

«Viaggio proficuo il tuo, eh? Ti sei spostato a poche ore da Roma, ed ecco subito comparire in terra umbra altri tre morti ammazzati. Qualcuno potrebbe pensare che sia proprio tu ad attirare i cadaveri, come un favo di miele richiama le api e le vespe!» esclamò polemico Castore, mentre le ancelle entravano per vestire il loro signore e padrone.

«La vecchia ha fatto fuori il fratello e si è intascata il tesoro, questo è quasi certo. Ma chi ha fatto fuori lei?» disse il patrizio ragionando ad alta voce mentre Gaia gli sfilava la tunica da notte e Fillide provvedeva ad avvolgergli l’inguine nel subligaculum pulito.

«Sempre che non sia morta di morte naturale. So che per te è arduo ammetterlo, ma ogni tanto a qualcuno capita» ribatté Castore.

«Sciocchezze! Picunno e Pilunno sono stati uccisi da frecce letali, e nella loro prima gioventù i Babri erano entrambi provetti arcieri» insistette Aurelio.

«Molti altri quiriti sono avvezzi all’uso dell’arco, domine, senza contare i cacciatori e i bracconieri che operano in grande numero nei boschi attorno alla cascata del Velino» eccepì il segretario.

«Comunque tu provvedi a indagare sull’eventuale assenza di uno dei due Babri da Roma negli ultimi giorni» disse il senatore e, infilata la tunica nuova, sedette per consentire alle ancelle di calzargli le morbide solae da casa. «A proposito... hai novità sul venditore di candele?»

«Una sola, di scarsa utilità: c’era effettivamente un venditore di candele di nome Insubro, anni or sono nella Suburra, ma da almeno un lustro si è trasferito e nessuno è stato in grado di dirmi dove. Sarai quindi costretto a rimandare l’interrogatorio della moglie, che d’altronde potrebbe rivelarsi un buco nell’acqua, in quanto nulla dimostra che la taverna All’Ercole Furente sia connessa al cadavere inchiodato della tomba etrusca. Concentrati sul mistero della casa dei Babri, piuttosto» consigliò Castore per sviare il discorso da uno dei suoi rari insuccessi.

«Lo ientaculum, domine» annunciò Iberina entrando in quel momento con un vassoio colmo di mitili, crostacei e altre ghiottonerie.

«Un momento, cara, fammi prima sentire se le ostriche sono fresche» si offrì con zelo il segretario, inghiottendo seduta stante la più grossa. «Sì, non c’è male, ma sarà meglio che ne assaggi un’altra...»

«Giù le zampe» gli schiaffeggiò la mano Aurelio. «Come sta Pomponia?»

«Migliora a vista d’occhio, grazie all’infuso di iperico che Ipparco consegna all’indovino Xalxas perché glielo propini di nascosto, spacciandolo per una pozione benedetta dagli antichi Numi etruschi.»

«Dunque il nostro bravo medico la sta veramente curando! E riguardo a Sofio Sofiano? Che hai scoperto su di lui?»

«Missione compiuta, padrone. Di anfore di Opimio però sono stato costretto a prenderne un paio, spero non ti dispiaccia...» esordì Castore, che si era scolato personalmente la seconda, riempiendo quindi con un vino di minor pregio comparso improvvisamente in cucina pochi giorni prima l’inconfondibile giaretta vuota dal prestigioso marchio, per poi donarla a Cicurio e assicurarsene i servigi gratuiti.

Con un paio di anfore del console Opimio si sarebbe comprata un’ottima vigna, calcolò intanto Aurelio mentre fissava il segretario stringendo le labbra. Aveva dunque due opzioni: afferrare Castore per la collottola, trascinarlo nei bagni e tenergli la testa nella vasca fino a fargli bere mezzo acquedotto Claudio, quindi sperimentare sulla sua schiena la solidità del nuovo staffile, andando avanti finché non si fosse rotto in mille pezzi. Oppure ascoltarlo.

Soltanto dopo un lungo silenzio e una scelta molto sofferta, il patrizio optò con un sordo brontolio per la seconda soluzione.

Nel corridoio, Cicurio aspettava al varco, il cuore gonfio di accese speranze. Dopo essere entrato a far parte della servitù della casa sul Viminale, aveva avuto il compito di coadiuvare il gigantesco massaggiatore Sansone come guardia del corpo del dominus, incarico che si sarebbe rivelato senza dubbio più gravoso se Publio Aurelio avesse usufruito spesso di una scorta. L’abitudine del senatore di uscire frequentemente da solo e in incognito, invece, gli lasciava parecchio tempo libero e l’ex inquilino del colombario, a cui era accaduto di innamorarsi perdutamente la seconda volta in vita sua, spendeva quelle ore vuote a rimirare la fanciulla dei suoi sogni.

«Salve, Iberina» disse con un largo sorriso.

Per propiziare l’incontro, si era reciso la cresta con cui lo pettinava un tempo la madre, mai dimentica dei costumi seguiti dai suoi antenati bellicosi prima di lasciare le rive del Tanai. Una volta cresciuto, Cicurio aveva rinunciato al cespuglio ritto sulla testa rasata, adottando le acconciature in voga nell’Urbe, sempre pronta ad assorbire nel suo vasto grembo chi la serviva bene e fedelmente: infatti il suo trisavolo era stato un barbaro, il bisnonno uno schiavo, il nonno un liberto, il padre un libertino e lui era un cittadino romano a pieno titolo.

A diventare romano davvero, e quindi esteticamente presentabile, Cicurio ci aveva provato mettendocela tutta, senza ottenere invero risultati troppo apprezzabili. Per anni aveva fatto persino in modo di tenersi in esercizio, in modo da non soccombere alla corporatura ridondante dovuta allo smodato appetito. In seguito, però, gli smacchi, le delusioni e i duri colpi del destino lo avevano di nuovo infiacchito, riconducendolo a una sciatta trascuratezza di cui il sintomo più visibile era la cresta, esibita per una sorta di vezzo nella cornice di un’esistenza misantropa che non chiedeva di piegarsi a nessuna convenzione sociale.

Ma adesso che viveva in una grande domus assieme a gente di provata qualità, Cicurio intendeva provarci di nuovo, e poiché gli avanzi delle squisite pietanze dell’archimagirus Ortensio costituivano una tentazione troppo forte per resistervi, si industriava almeno di trattenere in dentro lo stomaco prominente e scegliere abiti atti a mimetizzarlo. Quel giorno aveva indossato appunto una tunica scura, sperando nell’effetto snellente: senza ciuffo e abbigliato con sobrietà, contava di fare la sua figura, sebbene non se la fosse sentita di rinunciare alla vecchia e prudente pratica di legarsi ai fianchi una treccia di bulbi fragranti, potentissimi contro i sortilegi.

«Salve, Iberina bella, fiore di questa casa» ripeté quindi, attendendosi di rimando un segno di complicità, simile a quello che una volta aveva letto in volto all’ancella mentre la seguiva di nascosto nei suoi strani pellegrinaggi.

«Salve» rispose la ragazza con una distratta condiscendenza che poco aveva a che fare con i tumultuosi sentimenti alberganti nel cuore dello spasimante. «Ehi, ma da dove viene questo strano odore? Sembra puzza di aglio» domandò poi mettendosi ad annusare tutto attorno. Cicurio, cui difettava completamente il senso dell’odorato, la guardò senza capire, le labbra congelate in un sorriso ebete. In quella, le altre due serventi uscirono dalla stanza del padrone e Iberina le raggiunse cicalando con allegria, del tutto ignara della delusione provocata nel segreto ammiratore.

Cicurio rimase intontito come un membro del Senato appena sorpreso a fornicare dietro una colonna della Curia con la moglie del decano.

Roma non era stata fatta in un giorno, si disse, avrebbe tentato di nuovo. Ma a trattenere il respiro non ci riusciva proprio più, per cui, scomparse le ragazze nei quartieri servili, finalmente mollò il fiato, lasciando i suoi organi interni finalmente liberi di tornare al posto che spettava loro di diritto.

Narra il mito che Ercole, nella sua sesta fatica, deviò il corso di due fiumi perché dirigessero le loro acque impetuose verso le stalle di Augia, ripulendole così dallo sterco deposto in decenni dal copioso bestiame.

Simile alla forza dirompente di quei flutti fu il vigore del respiro a lungo trattenuto da Cicurio per apparire più prestante: lo stomaco, rigonfiatosi subitaneamente come la vescica di porco in cui il salumaio soffia per preparare le salsicce lucaniche, crebbe, si allargò, si dilatò, si estese, eruppe, traboccò, straripò, tracimò rabbioso contro la fragile diga degli agli scaramantici allacciati in vita. Improvvisamente sciolti, i bulbi profumati che fungevano da presidio contro i malefizi, rotolarono dappertutto, somiglianti a fanciulli festosi al termine di una noiosissima lezione di ars notaria. Gemendo, Cicurio si chinò a raccoglierli uno per uno, poi fece ritorno al suo cubicolo, affranto.

Era andato tutto storto, rifletté amaramente, mentre traeva da sotto il letto un elegante orciuolo, ottenuto da Castore come ricompensa per avergli fatto da scorta nelle visite a Sofio Sofiano: il vino non era più quello originariamente contenuto nell’anfora, gli aveva spiegato il segretario, ma era buono ugualmente – o non l’avrebbe trovato nella cucina del padrone –, quindi offrendolo avrebbe fatto un figurone. Cicurio l’aveva conservato nella speranza di brindare con Iberina, ma visto come si erano messe le cose tanto valeva consolarsi, pensò sorbendo un lungo sorso del liquido speciale di Porfirio e Calcedonio, travasato da Castore nell’esclusiva giaretta con il sigillo del console Opimio.

E siccome il dolore era grande, proporzionata doveva essere anche la consolazione: c’erano lupanari in abbondanza a Roma, lì si sarebbe diretto per dimenticare l’ancella tra le braccia di una compiacente meretrice, decise l’ex inquilino del sepolcro, ignorando di avere appena assunto una pozione che lo metteva in pessimi rapporti con le attività proprie del Dio Priapo.

In quanto al vino, ce n’era rimasto un bel po’ e sarebbe servito in un’altra occasione, si disse nel riporre l’orciuolo prima di uscire alla ricerca della piccola soddisfazione con cui contava di lenire la sua virilità umiliata.

Nella stanza di Aurelio, intanto, la conversazione continuava.

«Sofio ti ha dunque svelato da chi aveva ricevuto la fatidica lettera?»

«Non direttamente, ma si è sbilanciato parecchio, spiegando che quel codicillo l’aveva commosso fino al midollo, perché veniva dritto dalle tenebre dell’Orco: si trattava infatti dell’ultimo saluto del grande amore della sua vita, giunto in ritardo di anni e anni, dopo che il papiro su cui la donna lo aveva vergato era finito, probabilmente per l’errore di un servo, in fondo a un’arca

«Un amore appassionato, una missiva segreta, una decisione inspiegabile» rifletteva Aurelio.

Quale poteva essere una ragione abbastanza seria per indurre Sofio a rinunciare al matrimonio?, si chiese il segretario.

«A pensarci bene, Sofio non ha rinunciato al matrimonio, ma soltanto a Lucio» esclamò Aurelio, eccitato come un cane da caccia che, perduta la pista tra le forre, improvvisamente ne recupera il sentore e si precipita con rinnovato vigore alle calcagna della preda. «Infatti le nozze auspicate ebbero luogo ugualmente, ma con un marito diverso.»

«Vuoi dire che potrebbe aver appreso da quella lettera qualcosa di tanto grave sul primogenito dei Babri da farglielo escludere come genero? D’accordo, di sicuro Lucio era un giocatore e un donnaiolo, magari anche un imbroglione o un ladro, ma i suoceri ambiziosi non si fermano davanti a quisquilie simili: le figlie sono soltanto merci di scambio per le loro ambizioni. E Sofio, non avendo discendenti maschi, desiderava un sangue antico e insigne nelle vene dei suoi futuri nipoti. Perché mai dunque avrebbe finanziato la fuga dell’uomo capace di realizzare appieno i suoi sogni?»

«E se non fosse stato vero?» dubitò Aurelio.

«Lo era di certo, domine, me l’ha confermato lui stesso, e la sua ammissione ti è costata due Opimii» insistette il segretario, tacendo sul fatto che la seconda anfora se l’era scolata lui, conservandone soltanto il prestigioso contenitore.

«Che non avesse figli maschi, intendevo dire. Ragioniamo: la missiva, ritrovata molti anni dopo, era stata scritta in punto di morte da una donna che Sofio aveva amato moltissimo. E se quella passione avesse dato un frutto? Se fosse esistito un rampollo segreto, di cui nemmeno lui conosceva l’esistenza, finché la lettera non gli ha aperto gli occhi? Secondo le comari presenti al funerale, la madre di Lucio era minuta e poco appariscente, mentre lui ha tratti piacenti e un’altezza ragguardevole. Pensa alla sua struttura fisica, al naso, ai lineamenti del viso... chi ti ricorda?»

Castore rifletté brevemente: il padrone si faceva spesso viaggi mentali assurdi, ma conveniva assecondarlo, perché qualche volta ci indovinava davvero... come in quella deduzione ardita, per esempio.

«Sospetti il classico triangolo, formato da marito, moglie e migliore amico? In effetti, occhi e capelli a parte, Lucio somiglia a Sofia: potrebbero benissimo essere fratello e sorella»

«Hanno preso entrambi alcune caratteristiche dal padre, bello, aitante e di sangue celtico. Cerca di immaginare la situazione: da una parte c’è una matrona di famiglia antichissima, forse non molto avvenente, ma con un’educazione squisita e modi sofisticati. Dall’altra un uomo gagliardo di umili origini, che vede in lei un ideale quasi irraggiungibile e pur di averla è disposto a tradire la fiducia del suo migliore amico. La tresca proibita matura un frutto, ma lei tace la verità sia al marito, sia all’amante» proseguì convinto il senatore.

«Prima di morire, però, la matrona decide di rivelare il segreto con una confessione che, per uno di quei casi fortuiti di cui è tanto prodigo il Fato, giunge al destinatario molti anni dopo, proprio quando sta per consumarsi l’incesto» terminò Castore corrugando la fronte.

«Una delle pochissime interdizioni ancora sentite in profondità, qui a Roma. Sofio non se la sente di avallarlo e sborsa fior di sesterzi per allontanare il mancato genero, senza incontrare soverchie difficoltà, in quanto il giovanotto è uno scialacquatore molto sensibile al profumo dei sesterzi.»

«Allora la dura prigionia, i duelli, i barbari, i pirati e tutto il resto?»

«Quel millantatore di Lucio conosce parecchi dettagli sulle popolazioni stanziate presso la foce del Danubio nel Ponto Eusino, ma quasi nulla sul Settentrione. Nella legione in cui si è diretto, quindi, dev’esserci stato poco: si sarà presentato al comandante per tagliare la corda poco dopo, imbastendo una storiella non poi tanto originale, dato che era ricalcata su quella del celebre prozio Velthur l’Avvoltoio. Sì, sta in piedi» disse Aurelio soddisfatto.

«Oppure questi intrighi misteriosi sono soltanto un parto della tua fervida mente» criticò Castore gettando acqua fredda sull’entusiasmo del padrone.

«Be’, non ho una traccia, né un indizio, né uno straccio di prova. Non mi resta che lavorare di fantasia» si giustificò serafico il senatore.

«Qualcosa di concreto però l’hai trovato: l’amuleto di Fastia» disse Castore indicando il grezzo talismano di onice a forma di sirena. «Dev’essere antico, antichissimo, l’immagine di una femmina con la coda di serpente non è consueta.»

«Io la vidi anni or sono nelle terre etrusche, scolpita in un sepolcro scavato nella roccia, in mezzo a una foresta di lecci. Apparteneva senza dubbio all’Avvoltoio, che ne aveva fatto il suo emblema. Perché mai la matriarca se lo teneva addosso?»

«Ci sono un mucchio di strane superstizioni tese a impedire che i morti si vendichino del loro assassino: forse Fastia celava sempre tra i capelli questo ammennicolo per guardarsi dallo spettro del fratello ucciso» illazionò il segretario. «I due gemelli però avevano raccolto anche una chiave. Fammela vedere di nuovo: è vecchia, grossa e sporca, non apre di sicuro uno scrigno, né un’arca. Dubito però che gente di qualche qualità userebbe chiavi così grezze per la porta di casa: pare più adatta alla serranda di un negozio o di un magazzino...»

«Ci sono!» gridò Aurelio.

Narra il mito che la mortale Semele, di cui Zeus si era invaghito, chiedesse al divino amante di rivelarsi a lei in tutto il suo divino splendore, cadendo poi folgorata quando il padre degli Olimpi si risolse ad accontentarla. Simile al raggio fatale che incenerì l’improvvida figlia di Cadmo e Armonia fu la luce che si accese all’improvviso negli occhi di Aurelio.

«La cantina, il greto del torrente, il braccio di Picunno... ma certo, ecco come è stata uccisa Fastia!» esultò il patrizio.

«Che c’è di tanto interessante in una cantina? Oltre al vino, naturalmente e al cibo di scorta...»

«... che va tenuto al fresco nella cella nivaria. La ghiacciaia, Castore, in cantina c’è la ghiacciaia: è laggiù che Picunno e Pilunno hanno trovato il talismano a forma di sirena.»

«La matriarca l’avrà perduto» osservò prosaico Castore.

«Infatti, ma non necessariamente da viva: se l’amuleto le fosse caduto quando era già cadavere, molte cose si spiegherebbero. Gli eventi che seguono alla morte, in particolare la rigidità e la decomposizione, vengono rallentati dal freddo: per questo un braccio di Picunno era già rigido e l’altro, immerso nell’acqua gelida, risultava ancora flessibile. Ora, se qualcuno, avendo ucciso Fastia, avesse voluto farla credere ancora viva, gli sarebbe stato facile seppellirla nella neve della ghiacciaia e recuperarla più tardi... Quando vidi il corpo sul letto ebbi subito l’impressione che qualcosa non andasse: se si fosse spenta durante la notte, le membra avrebbero dovuto essere già rigide, invece erano morbide al tatto. E per contro, al momento delle esequie, la corruzione della salma pareva iniziata da un bel po’: lo scongelamento improvviso, infatti, ne accelera il processo.»

«Secondo te, dunque, Fastia sarebbe stata uccisa prima del mattino in cui tu ti fiondasti nella casa dei Babri con l’intenzione di interrogarla sulla tomba dell’Esquilino?»

«Esatto. Ovviamente per esserne sicuro dovrei ispezionare bene la cantina alla ricerca di qualche indizio della presenza del cadavere.»

«Come conti di fare, domine

«Tu pensa ad attirare entrambi i Babri fuori di casa, domani, nell’ora in cui gli schiavi vanno solitamente alle terme. Il resto spetta a me.»